Università di Bologna
Per comprendere l’influenza dell’attività agricola su fisionomia e funzionalità di un territorio è utile ricordare che l’agricoltura non è un’attività hobbistica ma rappresenta un importante settore produttivo, che si svolge nell’ambito di un contesto economico e sociale molto complesso, con caratteristiche globali e locali, da tener in debito conto ogni qualvolta occorra prendere decisioni di carattere tecnico o politico.
Sempre per inquadrare meglio il discorso, è opportuno definire bene l’oggetto della discussione, onde evitare possibili fraintendimenti. Secondo me l’agricoltura non va considerata in maniera utopica, inverosimile, come attività da svolgersi nel completo rispetto della natura. Al contrario, in concreto, essa è costituita da un insieme di pratiche condotte dall’uomo col preciso scopo di modificare l’ambiente naturale, per soddisfare i propri fini.
L’agricoltore decide come gestire il flusso dell’energia e il riciclo di acqua e materiali, creando un agroecosistema secondo le proprie esigenze e competenze. Ciò significa che l’attività agricola può essere condotta male o bene in funzione delle decisioni prese (si pensi, ad esempio, all’utilizzo di fonti non rinnovabili, come i combustibili fossili, oggi forse troppo sfruttati, o ai principi attivi quali fitofarmaci e diserbanti, che possono essere molto utili o nocivi in funzione di come sono usati).
Nella presente discussione, comunque, ci si riferirà a un’agricoltura condotta bene, basata su conoscenze scientifiche adeguate, applicate con razionalità. Del resto, anche in agricoltura, come in qualsiasi settore produttivo, vi sono i delinquenti o, comunque, si possono commettere errori, ma non ritengo giusto considerare tutti gli agricoltori odierni irresponsabili inquinatori. Non si dovrebbe fare di ogni erba un fascio.
Qual è la funzione primaria dell’agricoltura? Quella di fornire alimenti e altri beni primari all’uomo. A livello mondiale, in questo senso, il quadro appare drammatico poiché vi è ancora molta gente che muore di fame.
Ma la fame del mondo non si risolve ampliando i terreni
coltivati o la produttività delle terre. Oggi, grazie alle moderne tecniche d’immagazzinamento e trasporto, i prodotti agricoli sono diventati delle “commodities” (come il petrolio) e alimentano un commercio veramente globale. I grandi produttori (es. USA, UE, Canada, Australia, ecc.) potrebbero facilmente sfamare tutto il pianeta.
Il problema non è pertanto tecnico, ma prettamente politico-economico: le produzioni agricole sono diventate merci di scambio, strategicamente importanti. Nella forte concorrenza fra i diversi produttori, l’agricoltura italiana risulta perdente. In particolare, i nostri punti deboli consistono in ambienti non molto fertili (gran parte dell’Italia è collinare o montuosa), in aziende frammentate, in una popolazione agricola sempre più anziana, refrattaria alle innovazioni, e in un peso della burocrazia che accresce i costi produttivi, con conseguente riduzione della redditività.
I redditi calano, le aziende chiudono, gli agricoltori cambiano lavoro e le campagne si spopolano. Questo trend, iniziato già molti anni fa, appare inarrestabile e, se economicamente non è molto dannoso (la produzione agricola italiana rappresenta solo il 4% del PIL), dal punto di vista ambientale e, penso anche socio-culturale, si rivela deleterio e dovrebbe essere tenuto in debita considerazione dai politici. In fondo è quello che, effettivamente, si sta facendo in Europa con la predisposizione
della nuova PAC, in gran parte tesa a promuovere lo sviluppo rurale. A cosa è dovuta quest’importanza? Al fatto che l’attività agricola interessa gran parte del territorio nazionale (in particolar modo delle zone più agevoli) e dal suo forte impatto sulle caratteristiche ambientali.
Tra le influenze più importanti, va ricordato che l’agricoltura modella la superficie del terreno, ne modifica le caratteristiche fisiche (ad esempio alterandone la permeabilità) e chimiche (il suolo coltivato può fare da filtro ai materiali nocivi provenienti da altre attività). Inoltre consente di mantenere un’elevata biodiversità del sistema.
Queste azioni conferiscono all’agricoltura, se condotta razionalmente, un’importante funzione di salvaguardia del territorio. Ad esempio, fondamentale risulta la regimazione delle acque.
Le sistemazioni date ai campi (nelle Marche prevale il
“ritocchino”, che riduce i rischi di smottamento ma aumenta l’erosione superficiale), la presenza di vegetazione sui terreni coltivati in certi periodi dell’anno, la gestione dei residui colturali e le lavorazioni del terreno sono tutti fattori che possono ridurre notevolmente il rischio di degrado degli ambienti declivi, e di ristagno idrico, con pericoli di alluvioni, nelle pianure.
Quando il contadino abbandonerà la manutenzione dei fossi nella propria azienda, le belle colline marchigiane scivoleranno verso valle e le pianure diverranno paludi. La protezione civile potrà fare ben poco per impedirlo.
Da questo punto di vista, un particolare beneficio della pratica
agricola riguarda il contenimento dell’effetto serra, di cui oggi molto si parla. I suoli agricoli possono trattenere carbonio nella sostanza organica stabile (humus). Questo sequestro può diminuire la concentrazione nell’atmosfera di anidride carbonica, importante gas serra. Da questo punto di vista è considerato molto preoccupante il recente calo della sostanza organica nei suoli marchigiani, conseguente alla chiusura di molte stalle sparse nel territorio, che contribuivano, coi reflui zootecnici, all’arricchimento dei suoli in humus.
Ma l’attività agricola, sempre se svolta bene, può rivestire anche funzioni di mitigazione dell’impatto di altre attività antropiche, ad esempio in termini d’inquinamento acustico, onde elettromagnetiche e anche paesaggistico. Si pensi, ancora,
alla bellezza delle colline marchigiane coltivate che tanto contribuiscono alla promozione turistica, rispetto alle zone pianeggianti sempre più abbruttite dalla cementificazione nella nostra regione.
Un ultimo aspetto di cui si può accennare riguarda la biodiversità. Come nel campo cibernetico, alla complessità è legata la stabilità di un sistema, quindi la sua sostenibilità.
Questa caratteristica si può suddividere (e misurare) nei due parametri: resistenza (quanto il sistema si modifica in risposta a una perturbazione) e resilienza (quanto tempo impiega, dopo la perturbazione, a tornare allo stato iniziale). In ecologia, entrambi gli effetti sono favoriti in un ecosistema complesso.
In un territorio, anche piccolo (es. la zona nord del comune di Falconara), si possono avere tanti ecosistemi, con crescente grado di diversità. Si va dai sistemi naturali, ove la biodiversità è molto ampia, fino a luoghi molto antropizzati (industriali, completamente cementificati, ecc.) ove essa è quasi nulla.
Mentre i sistemi naturali o agricoli sono sostenibili nel tempo, con bassi rischi ecologici anche a basso costo, nei sistemi molto semplificati i rischi diventano maggiori, assai più dannosi, e la stabilità (quindi sostenibilità ambientale) richiede un’intensa attività antropica, con ingenti costi energetici, economici, ecc., di solito sostenuti dall’intera collettività.
Va infine ricordato che, mentre il passaggio da un ambiente agricolo a un sistema antropizzato può avvenire in pochi anni, il ritorno inverso necessita di periodi molto lunghi (secoli?). Ne sono chiari esempi le aree industriali dismesse sparse nella provincia di Ancona (es. ex SADAM, ex Montedison, ecc.).
Ciò rende il suolo agricolo di un paese sviluppato una risorsa non rinnovabile, quindi esauribile (al pari del petrolio). Se dal punto di vista della proprietà terriera ciò può essere interessante (i prezzi dei terreni aumentano moltissimo), il cambio di destinazione dei terreni agricoli italiani, che in questi ultimi anni sta avvenendo a un ritmo davvero impressionante, penso vada considerata una grave perdita per l’intera popolazione nazionale.