Volendo andare a ritroso nel tempo, e individuare le previsioni codicistiche cui si è ispirato l’attuale articolo del codice di rito che prevede il ne bis in idem, si può notare che le «formule codificate risalgono a modelli francesi»143.
In particolare, in Francia, è stata inserita una previsione in merito già nella Costituzione del 1791144, nel Code Merlin del 1795 e poi trasposta nel Code d’instruction criminelle del 1808, il quale differenziava tra assoluzione in fase istruttoria pronunciata da un jury, dalla quale discendeva una preclusione allo stato degli atti145, ed assoluzione irrevocabile al termine del dibattimento, che comportava l’assoluta impossibilità di rimettere in discussione la decisione146. I codici italiani riprendono le previsioni francesi: d’altra parte, il codice piemontese del 1859, che divenne il primo codice di procedura penale italiano, promulgato nel 1865, e quindi pochi anni dopo la nascita del Regno d’Italia, fu fortemente influenzato dalla codificazione della Francia napoleonica.
Ciò si comprende bene se si sottolinea che il code d’instruction criminelle del 1808 rappresentò il primo c.d. sistema misto, il quale fu il frutto di una combinazione
143 CORDERO, Procedura penale, Giuffrè, 2012, p. 1203
144 Costituzione del 1791, Titolo III, Capitolo V art. 9: «Tout homme acquittè par un jury lègal ne peut plus être repris ni accusé à raison du même fait»
145Art. 246 Code d’instruction criminelle: «Le prévenu à l’égard duquel la Cour royale aura décidé qu’il n’y a pas lieu au renvoi devant [la Cour d’assises] ne pourra plus y être traduit à raison du même fait, à moins qu’il ne survienne de nouvelles charges».
146 Art. 360 Code d’instruction criminelle: «Toute personne acquittée legalement ne pourra plus être reprise ni accusée à raison du même fait»
tra il tradizionale sistema inquisitorio adottato nell’Ordonnance criminelle del 1670, rispetto al quale vi fu un taglio netto sull’onda della rivoluzione, che provocò una netta cesura con la tradizione giuridica dell’ancien régime, ed il nuovo sistema propriamente accusatorio delineato nel 1791, in un periodo di intense riforme, tendenzialmente ispirate al modello inglese basato su pubblicità del processo, oralità e giuria. La codificazione italiana del 1865 fu largamente ispirata all’esperienza francese. Il successivo codice del 1913 accentuò poi i tratti più marcatamente liberali cui si faceva la scuola classica del tempo. L’art. 435 del c.p.p. del 13’, delinea la struttura della norma in termini simili a quelli odierni, ed era improntata, in linea con le tendenze del tempo, al favor innocentiae147.
Il successivo art. 90 contenuto nel codice del 1930, per quanto riguarda il dato testuale, nell’enumerare quali siano gli elementi che non rilevano al fine di definire come medesimo il fatto, sostituisce la locuzione «quantità di reato» con quella di
«circostanze», formula poi trasposta in termini analoghi nell’art. 649.
Con il codice del 30’ si assistette però ad una spaventosa regressione dei traguardi di matrice liberale ottenuti nel tempo, abbandonando del tutto l’idea del processo come sede ove garantire i diritti dell’individuo nei confronti del potere punitivo dello Stato, per passare al processo quale luogo privilegiato in cui si afferma la pretesa punitiva dello Stato.
Ovviamente si può comprendere perché la dottrina giuridica del tempo si possa oggi definire quale “semplice braccio del potere politico” (caratteristica che comunque non può essere del tutto eliminata), anche alla luce della concezione totalitaria dello Stato, la quale traspare in tutta la sua mostruosità dagli scritti del tempo: in particolare si può ricordare come la libertà individuale, bene tradizionalmente di primaria tutela nella concezione democratico-liberale, e che dovrebbe sempre esserlo in ottica processual-penalistica, fosse considerata come
«una concessione dello Stato».148
147 Cfr., F.CALLARI, La firmitas del giudicato penale. Essenza e limiti, Giuffrè, 2009, pp.103 ss.
148 MANZINI, Trattato di diritto processuale penale Italiano secondo il nuovo codice, Utet, 1932
Ciò ha una forte ed evidente ripercussione sul principio del ne bis in idem. Si è infatti passati dal fondare l’intangibilità assoluta del giudicato su esigenze di tutela dell’individuo, aspetto rinvenibile nel codice del 1913, a porre, quale esigenza sottesa alla suddetta intangibilità, l’idea che l’istituto del ne bis in idem mirasse a garantire l’imperatività ed infallibilità della legge, in linea con la concezione dei rapporti Stato-cittadino, improntata alla netta superiorità del primo sul secondo.
Come è stato brevemente accennato parlando della ratio del principio del ne bis in idem, è con l’avvento della Costituzione, eletta a baluardo della garanzia di una convivenza civile, essendo consapevoli, dopo le esperienze vissute, che la semplice volontà del popolo pur democraticamente espressa non costituisse sufficiente presidio a derive autoritarie, che si ritornò ad una visione garantista ed individualistica secondo cui sussistono dei diritti inviolabili innati dell’individuo, i quali necessitano di una previsione di rango superiore alla normale legge.
Nonostante la netta rottura avvenuta nel 1948 con i principi ispiratori del codice Rocco, esso rimase in vigore per 40 anni dopo l’emanazione della Costituzione, pur se oggetto di numerose novelle legislative che ristabilirono le più importanti garanzie che erano state abbandonate con il passaggio dal codice del 1913 a quello del 1930. La svolta si ebbe con la legge delega del 1987, che portò all’emanazione del codice del 1988, il quale, stando a quanto testualmente stabilito nella delega, avrebbe dovuto attuare non solo i principi della Costituzione, ma anche i caratteri del sistema accusatorio.
Tale nuovo codice rappresentò un punto di svolta per la configurazione del sistema processuale penale, ma la norma che prevedeva il ne bis in idem subì esclusivamente una modifica di sistemazione: in apparente controtendenza rispetto alla sua oramai riscoperta fisionomia di diritto a tutela dell’individuo essa venne trasposta dalle disposizioni riferite all’imputato al libro sull’esecuzione; tuttavia l’opera interpretativo giurisprudenziale ha seguito una via esattamente opposta, accentuando piuttosto la sua caratura garantistica in chiave soggettiva.