La relazione come scambio
Excursus 3. Al di là della prospettiva strutturale nell’analisi della relazione come “network”: un confronto con la sociologia relazionale di Fuhse.
Nel 2010 è apparso in Germania un volume, a cura di Jan Fuhse e Sophie Mützel, dal titolo
Relationale Soziologie, che raccoglie una serie di contributi teorici per la fondazione di una
teoria relazionale della sociologia. Ogni autore chiamato in causa affronta nel volume il tema secondo angolazioni specifiche. Ronald Breiger si occupa della dualità di struttura e cultura; Stephan Fuchs delle forme simboliche nella sociologia relazionale, Athanasios Karafillidis di limiti e confini relazionali; Boris Holzer del rapporto della sociologia relazionale con la teoria dei sistemi; John Levi Martin e Monica Lee analizzano la genesi delle macro-strutture sociali; Roger Häußling argomenta a favore della centralità del concetto di design nella formazione identitaria nelle reti sociali; Rainer Diaz-Bone utilizza gli strumenti della teoria di White per analizzare fenomeni socio-economici; Fuhse si occupa del tema della disuguaglianza, Christian Stegbauer di delimitazione e competizione; Dirk Baecker del tema dell’agire sociale nelle reti. Per Patrick Aspers si può parlare di un’ontologia sociale, guardando al modello classico della filosofia di Heidegger. E infine chiude il volume un contributo a quattro mani di Harrison White e Frédéric C. Godart sul linguaggio relazionale nei business talks.
Il punto di svolta teorica per la sociologia relazionale di Fuhse e Mützel è la pubblicazione di Identity and control di Harrison White del 1992: tutt’altro dall’essere un contributo semplicemente strutturalista di network analysis, il testo di White evidenzia gli elementi costitutivi per la costruzione e la conservazione di reti sociali, che sono strutturali e culturali. Nelle prime battute del suo volume White scrive: «Who «we» are is all bound up with what «control» is in social surroundings, and also depends upon our grounding in material production and constraints from physical space» (White 1992: 4). E più avanti:
“A central claim of the theory is that identities are triggered by contingencies […] Identity here does not mean the common-sense notion of self, nor does it mean presupposing consciousness and integration or presupposing personality. Rather, identity is any source of action not explicable from bio-physical regularities, and to which observes can attribute meaning. An employer, a community, a crowd, oneself all may be identities. An identity is perceived by others as having an unproblematic continuity” (White 1992: 5- 6)93
93 Continua poco più avanti White: “Each identity continues discovering and reshaping itself in action.
Nella Fig. 1 (White 1992: 18) è sintetizzato lo schema con cui White ipotizza la formazione di identità sociali in una struttura nella quale i comportamenti sono considerati “molecule sociali” che sostengono le identità stesse.
Fig. 1 – Struttura della formazione dell’identità sociale secondo White
In linea del tutto generale si potrebbe asserire che la sociologia relazionale è “il modellamento teorico e l’analisi empirica di reti sociali in quanto formazioni socio- culturali” (Mützel e Fuhse 2010: 7): quello di White è stato sinteticamente definito «a cultural approach to social networks» (Knox, Savage, e Harvey 2006). La cultura (produzioni artistiche, origine del sapere e delle identità collettive) è quindi radicata nelle reti sociali. Le reti sono concepite da White come stories, ovvero viene sottolineato ed enfatizzato l’aspetto “narrativo” tra identità sociali. In Identity and control White sostiene esplicitamente:
“Stories are generated by control efforts which act as constraints upon identities […] Stories express perceptions of social processes and structure, but stories also can and do conceal projects of control […] Identities emerge from action and counteraction, accompanied by stories which help create sufficient decoupling for fresh action; otherwise social organization would not persist long enough to be observed” (White 1992: 13-14)
Control is both anticipation of and response to eruptions in environing process. Social processes and structure are traces from successions of control efforts” (White 1992: 9).
Fondamentale è allora isolare la coppia struttura/senso (Fuhse 2009): il senso, diversamente dalle concezioni di Weber e Luhmann, non viene concepito come “senso soggettivo”, né però come “senso oggettivo”. Le relazioni sociali, le più piccole unità di rete, si differenziano spesso a seconda del contesto di rete e variano anche in base alle differenti posizioni nella rete. Mützel, e Fuhse in particolare, parlano di una vera e propria “teoria fenomenologica della rete” (Mützel e Fuhse 2010: 8; Fuhse 2008).
Si può quindi dare una prima specifica definizione e delimitazione della sociologia relazionale nel panorama sociologico:
1. Rispetto alla classica network analysis la sociologia relazionale si distingue per il suo
riferimento alle nozioni di cultura e senso (Mützel e Fuhse 2010, 9); le reti non possono essere concepite come strutture “a-culturali” [kulturlose] o “in-sensate” [sinnfrei];
2. Come la network analysis anche la sociologia relazionale è delimitata dalla ricerca
sociale che opera con metodo empirico. Le strutture sociali sono ricostruite sempre sul piano delle reti di relazioni [Beziehungsnetzen] di scambio empiricamente osservabile (strutture di rete e rispettivi riferimenti culturali). Dal punto di vista metodologico saranno quindi impiegati metodi qualitativi e quantitativi, in particolare le survey (Lizardo 2006).
3. In opposizione alle teorie dell’agire sociale e alla rational choice non viene considerato
l’attore individuale con le sue possibilità d’azione e le sue cognizioni come punto di partenza della formazione della teoria e della ricerca empirica. Gli attori non solo sono posti nelle reti sociali, ma anche nelle loro modalità cognitive e comportamentali e nelle loro identità di attori e in riferimento alle azioni come risultato di processi transazionali sovrapersonali nelle reti (Tilly 2005, 6).
4. In opposizione alla teoria dei sistemi, la sociologia relazionale si focalizza sul livello
“meso” delle strutture di rete empiricamente osservabili; da un lato perché c’è una stretta connessione alla ricerca empirica, dall’altro perché essa è da considerarsi una fruttuosa e più esaustiva teoria della società. Nella descrizione dei fenomeni sociali, seguendo la tradizione di Parsons e Luhmann, le reti sociali vengono trattate infatti in base alla loro condizione d’origine e alle loro conseguenze per lo sviluppo sociale (Mützel e Fuhse 2010: 10).
5. Il modo di procedere relazionale segue teoreticamente e metodologicamente la teoria dei
campi e della prassi di Bourdieu. Il motto di Bourdieu recita: “Il reale è relazionale” (Bourdieu 1994: 17) - anche se Bourdieu ha preso le distanze dalla ricerca sulle reti di stampo “interazionistico”.
Lo sfondo metodologico e teoretico della sociologia relazionale è l’analisi strutturale (structural analysis) nella forma della network analysis – come essa si è sviluppata in America dallo strutturalismo (Mützel e Fuhse 2010: 11). La sociologia relazionale si costruisce su ipotesi e conoscenze dell’analisi strutturale; si sviluppa poi e si integra ad aspetti culturali come narrazioni, pratiche e significati, come anche per mezzo di processi storici. Il programma di ricerca dello strutturalismo americano in sociologia si è sviluppato in particolare attorno alle intuizioni e agli studi di Mullins (1973), sulla scorta di alcuni interessi già innescati negli anni ‘60. Il riferimento principale dello strutturalismo sociologico americano è però Harrison White. Come sostiene Schwartz (2008), le sue lezioni ad Harvard (intorno alla metà degli anni ’60) erano considerate per gli studiosi strutturalisti una “sorta di Mecca”. La sua impostazione metodologica muoveva contro la sociologia struttural-funzionalista (dominante al tempo) di Talcott Parsons: al posto degli individui, che agiscono sulla base di norme interiorizzate, ha orientato i suoi interessi sulla regolarità nelle strutture di riferimento dei singoli e dei gruppi. Attraverso i contributi della scuola di Harvard si consolida l’apparato tecnico della network analysis. Il gruppo di
Harvard elabora dei veri e propri concetti matematici dell’analisi strutturale, tanto che l’impostazione può essere definita a tutti gli effetti di sociologia matematica in quanto l’obiettivo è quello di formalizzare strutture sociali dotate di differenti proprietà, partendo dalla teoria matematica dei grafi e dall’utilizzo dell’algebra delle matrici. Con la “svolta” di Harvard, l’elemento fortemente unificante dei diversi contributi diviene dunque il metodo della network analysis in quanto tale.
Barry Wellman sintetizza negli anni Ottanta in cinque punti fondamentali il programma dello strutturalismo americano:
“1. Behaviour is interpreted in terms of structural constraints on activity, rather than in terms of innerforces within units (e.g., “socialization to norms”) that impel behaviour in a voluntaristic, sometimes teleological, push toward a desired goal. […]
2. Analyses focus on the relations between units, instead of trying to sort units into categories defined by the inner attributes (or essences) of these units. […]
3. A central consideration is how the patterned relationships among multiple alters jointly affect network members' behaviour. Hence, it is not assumed that network members engage only in multiple duets with separate alters. […]
4. Structure is treated as a network of networks that may or may not be partitioned into discrete groups. It is not assumed a priori that tightly bounded groups are,intrinsically, the building blocks of the structure. […]
5. Analytic methods deal directly with the patterned, relational nature of social structure in order to supplement - and sometimes supplant - mainstream statistical methods that demand independent units of analysis. […]” (Wellman 1988: 20)
Questo modello effettivamente si focalizzava sui tipi di relazione, mettendo tra parentesi i significati culturali delle connessioni di rete. I vuoti di questo modello divennero alla fine degli anni Ottanta sempre più palesi.
Nel 1992 White propone di analizzare struttura e cultura in una nuova ottica strutturalista. Nel volume Identity and Control egli sviluppa, infatti, una teoria generale della rete in cui coniuga l’approccio dell’equivalenza strutturale all’idea che le reti si basano su relazioni sociali, le quali a loro volta si fondano su suggestioni e interpretazioni culturali (Mützel e Fuhse 2010: 13).
I punti di ricerca rilevanti [Untersuchunseinheiten], che si trovano ad un livello analitico prioritario e precedente rispetto ad unità intese come persone, azioni e contesti, sono nella terminologia di White identità (identity), controllo (control) e domini di reti (netsdom). Le identità risultano dai tentativi di arresto e posizionamento (control) solitario e in interazione con altre identità. Attraverso il posizionamento di un’identità gli altri possono porsi in relazione secondo l’arresto di aspiranti identità. I progetti di controllo di identità risultano da interazioni discorsive, che generano nuovi significati (Mützel 2002; Mützel 2009a).
Le connessioni tra individui/attori non sono solo i classici elementi di uno scambio, ma anche dei costrutti fenomenologici (stories, Geschichten): le reti sono costituite anche di storie e identità, che non sono concepibili l’una indipendente dall’altra e sono in un rapporto di co-implicazione nei processi transazionali.
Mentre White, Emirbayer e Tilly parlano innanzitutto di “transazioni”, negli ultimi anni si tende a parlare più del concetto di comunicazione (che parzialmente si fonda su quello di Luhmann). Ann Mische sintetizza questo punto di vista nel seguente modo:
“social networks are seen not merely as location for, or conduits of, cultural formations, but rather as
composed of culturally constituted processes of communicative interaction” (Mische 2003: 258).
Accanto a White c’è una serie di altri protagonisti che possono essere ascritti, secondo Fuhse e Mützel, alla sociologia relazionale, dal momento che c’è stato un allargamento del programma strutturalista: questo allargamento riguarda sia l’accento su aspetti culturali sia su processi storici nell’analisi strutturale. Alcuni dei più noti protagonisti che hanno
operato una svolta in senso culturale nell’approccio sociologico strutturalista (in direzione di una sociologia relazionale) – oltre a Burt, Granovetter e Wellman – sono:
1) Peter Bearman, che si è occupato della struttura delle nuove élites in Inghilterra tra XVI e XVII secolo e dell’influsso delle idee e della retorica sui processi di formazione della struttura.
2) John Mohr, che ha studiato invece un “nuovo istituzionalismo strutturalista” e si occupa in particolare di metodi (secondo il modello della formal concept analysis) e teoria dell’analisi culturale, ovvero il concetto di dualismo tra cultura e pratiche o anche di teoria del campo e prassi in Bourdieu.
3) Ronald L. Breiger: la sua formalizzazione della teoria sulla dualità è compatibile sia con il metodo Galois lattices (formal concept analysis) che con l’analisi delle corrispondenze . In questo modo è stato possibile coniugare nella ricerca aspetti culturali e strutturali.
4) Ann Mische, che getta un ponte, con i suoi lavori, tra la ricerca sui gruppi sociali e la sociologia relazionale. La sua ricerca sui gruppi sociali si basa su una pluriennale ricerca sulle proteste studentesche in Brasile (2008). Lavora in maniera multi-metodologica. Il suo contributo principale alla sociologia relazionale consiste nell’aver studiato il ruolo delle conversazioni e delle storie per la genesi delle reti (Mische 2003; Mische e White 1998). 5) John Levi Martin, che giunge alla sociologia relazionale dopo un confronto con la sociologia culturale da una prospettiva strutturalista. I suoi lavori empirici in relazione ai rapporti di rete e agli orientamenti culturali si fondano sui database dei comuni negli USA redatti da Zablocki nel 1980. I suoi ultimissimi lavori ruotano attorno alla questione della costituzione delle macrostrutture sociali sulla base delle configurazioni di rete (Martin 2009).
La sociologia relazionale, secondo Mützel e Fuhse, è un fenomeno innanzitutto americano e lì trova grande interesse. Esistono tuttavia contributi e indirizzi di pensiero europei che hanno influenzato sensibilmente le teorie relazionali del nuovo continente (Mützel e Fuhse 2010: 17).
La cosiddetta preistoria della sociologia relazionale è rintracciabile, secondo Mützel e Fuhse, negli autori che seguono:
a. Simmel e von Wiese
Il primo e più evidente punto di raccordo con la sociologia relazionale è da riscontrare nella sociologia formale di Simmel e Leopold von Wiese. Poiché però la sociologia formale è giunta alla fine con la presa di potere del nazionalsocialismo, non esiste alcuna scuola sociologica che abbia continuato la tradizione. Tuttavia ci sono delle intuizioni che sono
collocabili tra la sociologia formale e quella relazionale: per esempio, Breiger perviene in un saggio ad un modello di rete del controllo sociale partendo dai lavori teorici di Simmel (Breiger 1990). Bettina Holstein nelle sue riflessioni su Simmel rimanda alla proficuità di collegamenti possibili della sociologia formale e relazionale (Hollstein 2008: 92). Christian Stegbauer si riferisce sistematicamente a Simmel nelle sue riflessioni sulla reciprocità, sull’amicizia e sui lavori sulla rete di internet alla teoria della relazione di Wiese e collega questa alla teoria della rete di White (Stegbauer 2002; 2008). Simmel e White sono allo stesso modo “padrini” di ciò che Roger Häussling ha sviluppato come “concetto relazionale di emozioni”. Anche la sociologia della configurazione di Elias resta un modello importantissimo di confronto per la sociologia relazionale (Fuhse 2008).
b. Pierre Bourdieu: Pratiche, disuguaglianza e teoria dei campi.
Come spesso indicato, la teoria dei campi e della prassi in Bourdieu viene indicata come il “credo” della sociologia relazionale. Per Bourdieu le relazioni sono rapporti del “più-o- meno” di diverse forme di capitale in un campo sociale. Ha a che fare con forme di posizionamenti relativi e non con le relazioni sociali, nel senso indicato dalla ricerca della
network analysis. Bourdieu è anzi molto critico verso la network analysis, perché essa si
concentra troppo sulle manifeste relazioni interattive, osservabili empiricamente, perdendo di vista le relazioni “oggettive” teoricamente deducibili nei campi. Al di là di questa fondamentale presa di posizione, esistono diversi punti di raccordo: il più energico autore che si è sforzato, da questo punto di vista, è Paul DiMaggio, il quale, fino dalla fine degli anni ’70, ha tentato di mettere insieme teoria dei campi con la metodologia nord- americana. Anche Mohr e Breiger hanno preso le mosse dal modello multidimensionale, dinamico e orientato alla prassi di Bourdieu. Secondo questi autori è possibile proporre la dualità di struttura e prassi in alternativa all’analisi delle corrispondenze con l’aiuto del
Galois-Lattices.
In particolare la ricerca sull’organizzazione in Nord America si occupa di teoria della prassi in campo istituzionale e crea connessioni con la sociologia relazionale. Mustafa Emirbayer e Victoria Johnson sostengono che la ricerca sull’organizzazione di Bourdieu non ha ancora sufficientemente sfruttato tutte le possibilità dal punto di vista teorico ed empirico.
c. Niklas Luhmann: teoria dei sistemi e della comunicazione.
In una recensione del 1996 a Identity and Control di White, Dirk Baecker sosteneva una certa affinità tra la teoria dei sistemi di Luhmann e la proposta teorica di White: Baecker concepisce, infatti, le reti come forme essenziali di comunicazione (Baecker 2005: 79). In riferimento a White, le concepisce cioè come forme (nel senso di George Spencer Brown),
con le quali è possibile differenziare nella comunicazione identità e i loro progetti di controllo. Quindi Baeker considera le reti – accanto ai sistemi sociali e alle persone – come strutture elementari della comunicazione. Un ulteriore motivo di connessione si trova nella sociologia della cultura di Stephan Fuchs. Egli considera cultura e società ordinati come reti, che solo eccezionalmente e gradualmente tracciano confini, sviluppano proprie identità e con ciò diventano sistemi con un chiaro dentro e fuori.
L’attuazione di questi principi e il riferimento a questi autori è svolto in modo esemplare da Jan Fuhse, che nel suo contributo dedicato al tema della disuguaglianza sociale, trova in Pierre Bourdieu e in Harrison White le sue principali fonti d’ispirazione. Nel suo contributo, infatti, è rintracciabile una compensazione della ricerca sociale empirica con la sociologia relazionale, in particolare si analizza il tema della disuguaglianza nella prospettiva di cultura e reti: esiste un collegamento tra la ricerca sulle disuguaglianze e la sociologia relazionale. Questa prospettiva è riscontrabile nella nuova ricerca sugli stili di vita in Germania non solo nella dimensione culturale e nelle pratiche relative alla distinzione, ma anche nei ruoli sempre più forti delle reti sociali.
La questione metodologica di fondo che sorge agli occhi di Fuhse in questo contesto è la seguente: come possono essere osservati congiuntamente caratteri individuali, orientamenti culturali e la collocazione in reti sociali? Si tratta della questione della trasposizione di costrutti teorici nella ricerca empirica (Fuhse 2010, 180-181).
La ricerca sulle reti di stampo strutturalista (che è sostanzialmente rappresentata da Barry Wellman e Ronald Burt) riconosce i livelli fondamentali di fenomeni sociali esclusivamente nella struttura delle reti sociali: reti relazionali decidono sul successo della vita lavorativa, della politica e della scienza; esse rappresentano la base per la formazione di gruppi sociali e delle comunità attive. Negli anni ’90 è giunta la cosiddetta svolta culturale (cultural turn) con Harrison White. Stando alle riflessioni di White, le reti non sono da considerare come strutture pure, ma come formazioni socio-culturali (soziokulturelle Gebilde), nelle quali gli schemi di senso (narrativi o identitari) sono altrettanto importanti quanto la struttura dei gruppi sociali. La totalità degli schemi di senso connessi alle reti («story sets, symbols, idioms, resisters, grammatical patternings, and accompanying corporeal markers») sono indicati da White come i loro “domini” (Mische e White 1998: 702). Questi domini erano solo analiticamente isolabili dalla struttura della rete (Emirbayer/Goodwin 1994; Fuhse 2009; Yeung 2005). La sociologia relazionale considera invece la struttura delle reti e le forme culturali ad esse connesse come i livelli più importanti delle strutture sociali.
Negli ultimi trent’anni si sono potenziati gli strumenti di osservazione e studio della
network analysis: con l’aiuto di “generatori di reti” (Netzwerkgeneratoren) sono emerse
nelle interviste importantissime relazioni sociali (amicizia, parnership) degli intervistati come anche determinate proprietà dei referenti (genere, età, professione, provenienza etnica). Queste indicazioni vengono quindi trasposte in termini matematici (Fuhse 2010: 182).
In parte anche in base alle relazioni tra diversi referenti si prova a interrogarsi in questo modo non solo sulle forme di relazioni (Beziehungsarten) e le combinazioni (Zusammensetzung) delle reti personali, ma anche sulla loro struttura.
Uno dei principi fondamentali dell’analisi sociali strutturalista è che la società moderna è sostanzialmente segnata dalle disuguaglianze socio-economiche. In base all’orientamento teorico si parla innanzitutto di “classi” che sono definite attraverso il posizionamento nei processi di produzione, o di “strati” (o “ceti”), che sono classificati in prima linea in base alla disponibilità del capitale economico. Ma – si chiede ancora Fuhse – si possono davvero identificare categorie come ceto superiore, medio e inferiore, la classe capitalistica e quella proletaria all’interno a livello di strutture di rete? E ancora: nelle società moderne i gruppi sociali sono davvero segnati da disuguaglianze socio-economiche o piuttosto da stili di vita comuni o ancora da aspetti demografici come età, genere e luogo di residenza? La ricerca empirica ha dimostrato che nelle dinamiche dei gruppi sociali come legami di amicizia o di matrimonio sono effettivamente pre-strutturati in base allo status socio- economico. Due questioni restano ancora aperte in quest’analisi: questo risultato nella differenza di status è da osservare nella rete sociale come effetto di classe o di strato sociale? La totalità della situazione sociale (in relazione alla professione, al suo prestigio e alla sua conclusione) fa davvero in modo che i membri di uno strato sociale interagiscano rispettivamente con quelli di una classe? O piuttosto queste relazioni di rete non sono altro che il risultato di un rafforzato imbattersi sul posto di lavoro e in istituti di formazione nel