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Il corpo delle donne di colore è stato ed è tuttora sfruttato e utilizzato a piacimento per rappresentare ed incarnare ciò che più si preferisce a seconda della situazione. Più di tutto il parallelismo tra la fisicità delle ragazze nere e una sessualità disinibita è risultato versatile per molteplici fini, questo concetto può essere analizzato da diversi punti di vista.

Tale visione, da una parte, durante il periodo coloniale, ha fornito una spinta attrattiva per i colonizzatori ed ha fornito una strategia perché essi si potessero considerare un unico popolo grazie alla sguardo per contrapposizione verso l’alterità; dall’altra, attualmente, mantiene all’interno di quello che è denominato neo-colonialismo una funzione simile, questo immaginario si combina, oggi come allora, con sessismo e razzismo permettendo il reiterarsi di dinamiche di sfruttamento.

Le modalità di speculazione su corpo femminile nero, si sono perfezionate riuscendo oggi ad estrarre dei guadagni anche da forme di utilizzo a fini pubblicitari. Le donne di colore sono tratteggiate come “pronte per essere consumate”, in una sorte di antropofagia da parte dell’occidente nei confronti dei sui ex sudditi coloniali. I corpi delle colonizzate sono “cannibalizzati” e oggettivati.

Certo anche le donne bianche sono di frequente utilizzate per reclamizzare prodotti, (una ragazza bionda più essere usata come sinonimo di una birra bionda da bere), ma

nelle pubblicità possono rivestire anche altri ruoli, a differenza delle nere.

Questo fatto è in grado di farci capire quando la considerazione della femminilità nera sia in realtà invariata, anche se celata dietro apparenti visioni cosmopolite, nella realtà dei fatti, tale rappresentazione non di rado promuove nuove forme di sfruttamento e mal celati atteggiamenti etnocentrici caratterizzati da uno strisciante razzismo.

Figura 7.1: Pubblicità realizzata dalla Saatchi&Saatchi per reclamizzare la Coppa Malù di “Parmalat”, 2001.

La scrittrice Igiaba Scego in un suo articolo edito nel periodico “Internazionale” sostiene che «se sei donna e nera in Italia un riferimento, anche casuale, a Faccetta nera ci scappa sempre. Da piccola me la cantavano spesso all’uscita di scuola per umiliarmi, e in generale la canzoncina aleggia nell’aria come quei microbi da cui non ci si salva. Sono in tanti ad averla come suoneria del cellulare (ricordate Lele Mora in Videocracy?) e a considerare la canzone come la quintessenza più pura del fascismo.»9 E ancora: «L’abissina

non può essere altro che la bella abissina. Non può essere brutta, menomata, malata, non disponibile. Il suo corpo vive più paradossi. È da una parte desiderato, dall’altro oltraggiato, negato, imprigionato. Le faccette nere oggi in Italia non hanno solo la pelle nera: basta discostarsi da quello che la società considera “normale” per venire considerati facili, accessibili, stuprabili.»10

Durante il periodo fascista la fisicità delle donne di colore venne utilizzata per recla- mizzare i prodotti che erano associati all’esperienza coloniale in tale maniera i prodotti esotici provenienti dalle terre conquistate, ad esempio la cioccolata, le banane o il caffè

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Igiaba Scego. La vera storia di faccetta nera. 2015. url: http : / / www . internazionale . it / opinione/igiaba-scego/2015/08/06/faccetta-nera-razzismo

Figura 7.2: Pubblicità realizzata per reclamizzare il gelato Magnum di “Algida”.

vennero accostate al corpo nero. Come osserva Nicoletta Poidimani:

Il processo di reificazione delle donne africane è confermato anche dall’uso che ne fece il mercato. I cioccolatini “Faccetta nera” sono senza dubbio un emblema del diritto alla cannibalizzazione dell’Altra. [. . . ] Karen Pinkus sottolinea, nelle pubblicità dell’epoca fascista, il nesso tra donna nera e alimenti “eccitanti”: cioccolato, caffè, ecc.11

Seguendo questa logica ancora oggi possiamo osservare un simile utilizzo del corpo delle donne africane, infatti l’accostamento con il tipi di prodotti sopra citati risulta ancora oggi molto attuale.

Di seguito alcuni esempi di pubblicità attuali attraverso le quali si continua ancora oggi a prediligere la pubblicizzazione di quelli che furono i prodotti coloniali (cacao, caffè, ecc.) affiancandoli a donne africane in pose succinte ed invitanti.

Nella prima pubblicità (Figura 7.1) - come in altre di questo genere - si è attuata una personificazione con il prodotto: la ragazza è infatti sovrapposta all’articolo che reclamizza.

Come era stato in passato, il corpo nero è selezionato per pubblicizzare i prodotti coloniali, il cioccolato in particolare, che è identificato come un prodotto altamente erotizzante, è particolarmente adatto a questo genere di promozione. “Pensiero stupendo” è lo slogan del prodotto e la donna ritratta con esso nuda rimanda all’idea che ella sia pronta per essere “assaporata”, come si farebbe con la merce che pubblicizza.

In questo caso (Figura 7.2), sempre per reclamizzare prodotti di origine coloniale si utilizza l’espediente dell’animalizzazione. La reclame declama “libera il tuo istinto, osa”: questo genere di slogan ricorda molto da vicino quella tipologia di immaginario coloniale

Figura 7.3: Pubblicità realizzata per reclamizzare il caffè della ditta “Zicaffè”, 2005.

secondo il quale l’esperienza africana avrebbe rappresentato una possibilità di esprimere a pieno le proprie istintività erotiche più animali nei confronti delle donne del luogo.

Figura 7.4: Pubblicità realizzate per reclamizzare la scamorza “Zappalà” e le ciliegie “Fabbri”.

esse sono parte di questo “la stessa cosa”. Lo slogan è quanto mai emblematico e rimanda al “Piacere nero” che questo prodotto/donna è in grado di trasmettere. Questa campagna pubblicitaria è stata addirittura premiata nel 2006 e declamata “migliore pubblicità regionale italiana” dall’Agorà d’Oro. Tale condizione è in grado di farci capire quanto ancora siamo ben lontani dal fare i conti con il passato coloniale e con l’utilizzo, che si è fatto e che si fa, del corpo femminile nero.

In altri casi (cfr. Figura 7.4) si gioca sulla contrapposizione nero/bianco e si sottolinea grazie ad essa la differenza razziale, come dice Bell Hooks è questa una strategia per far risaltare la “bianchezza”. Tutte queste pubblicità sono esempi di come la femminilità di colore è accostata al prodotto che pubblicizza, oggettivizzata e privata di individualità.

Figura 7.5: Pubblicità realizzata da Oliviero Toscani per “United Colors of Benetton”, 1989–1990.

Come suggerito da un interessante articolo di Sonia Sabelli, prendiamo in considerazione anche la serie dei manifesti pubblicitari realizzati per United Colors of Benetton nel 1989–90 da Oliviero Toscani. Questa campagna pubblicitaria era stata immaginata perché risultasse coinvolgente per quante più persone possibile e per basarsi sul contrasto tra nero e bianco, inoltre l’intento era quello di supportare un idea cosmopolita del mondo.

Figura 7.7: Pubblicità realizzata per reclamizzare i vini “Collio” da Oliviero Toscani, 2011.

L’immagine (Figura 7.5) ha provocato reazioni molto differenti negli Stati uniti e in Italia, proprio in ragione della diversità con cui viene affrontato il passato coloniale ed anche in relazione alla presenza o meno sul proprio territorio nazionale di un numero considerevole di persone nere. In America ha suscitato grossi scandali in quanto rimandava alla figura delle mummies (le schiave nere che allattavano i figli dei bianchi) e per questo motivo è stata ritirata dalla diffusione. In Italia invece non ha sollevato nessuno scalpore ed anzi ha ricevuto successo, proprio in ragione del fatto che non è stata percepita come un immagine permeata da razzismo.

Questa seconda immagine (Figura 7.6) proviene sempre dalla stessa campagna e se analizzata rappresentata un rafforzamento dello stereotipo che conferisce una simbologia “angelica” alle persone bianche e invece un apparenza “diabolica” alle persone dalla pelle scura. Protagoniste di entrambe le immagini pubblicitarie sono le donne nere con la loro fisicità oggettivizzata, la campagna in realtà non è quindi riuscita nel suo intento in quanto si è comunque sostanziata su un base di stereotipi e pregiudizi.

Anche in un’altra pubblicità realizzata sempre da Oliviero Toscani (Figura 7.7), il cui slogan è “L’unico bianco che amo”, si gioca ancora sulla contrapposizione nero/bianco e il corpo nudo e invitante della ragazza funge da richiamo per presentare come desideroso anche il prodotto.

Le implicazioni collegate alle sensazioni che comportano questo genere di immagini pubblicitarie, sono ben visibili nel condizionamento che esercitano riguardo dell’immaginario della collettività italiana nei confronti della femminilità nera.

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