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LA QUANTIFICAZIONE DEI DANNI DA DEMANSIONAMENTO

In conclusione, risulta opportuno svolgere alcune osservazioni

anche in ordine alla quantificazione

del danno da demansionamento, con particolare riferimento ai criteri utilizzati dalla giurisprudenza per la sua liquidazione.

Se, per quanto attiene al danno patrimoniale risultante, ad esempio, da differenze retributive ovvero dalla mancata corresponsioni di emolumenti preclusi dall'inadempimento datoriale, non sorgono particolari problematiche, è con riferimento al danno non patrimoniale che la giurisprudenza si è maggiormente interrogata, stante la difficoltà di attribuire un valore oggettivo al “fare areddituale del lavoratore, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazioni propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità” oppure al danno morale, inteso come sofferenza provocata dall’inadempimento datoriale.

E’ evidente che la liquidazione dei danni non patrimoniali dovrà avvenire senza incorrere in duplicazioni delle poste risarcitorie.

Ciò considerato, per sopperire alle difficoltà in ordine alla quantificazione dei pregiudizi derivanti da demansionamento generalmente intesi (e, quindi, sia per il danno di natura non patrimoniale attinente alla sfera esistenziale, sia anche per quelle componenti di natura patrimoniale il cui ammontare non può essere precisamente determinato a mezzo di operazioni matematiche,

come l'impoverimento professionale o il depauperamento del proprio bagaglio di competenze), la giurisprudenza si è da sempre servita del disposto di cui all'art. 1226 c.c., a mente del quale “se il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare, è liquidato dal giudice con valutazione equitativa”. Il ricorso all'art.

1226 c.c. ha, tuttavia, inevitabilmente portato a decisioni che hanno dato luogo, nel tempo, a quantificazioni — per singoli casi — tra loro differenti.

Ciononostante, la Corte di cassazione ha stabilito alcuni principi guida ai fini della liquidazione del danno da demansionamento.

Invero, per quanto attiene al danno non patrimoniale, i giudici di legittimità hanno recentemente ribadito che “la non patrimonialità — per non avere il bene persona un prezzo — del diritto leso comporti che, diversamente da quello patrimoniale, il ristoro pecuniario del danno non patrimoniale non può mai corrispondere alla relativa esatta commisurazione, imponendosene pertanto la valutazione equitativa, anche attraverso il ricorso alla prova presuntiva, che potrà costituire pure l'unica fonte di convincimento del giudice … i criteri di valutazione equitativa, la cui scelta ed adozione è rimessa alla prudente discrezionalità del giudice, debbono consentire una valutazione che sia adeguata e

proporzionata in considerazione di tutte le circostanze concrete del caso specifico, al fine di ristorare il pregiudizio effettivamente subito dal danneggiato e permettere la personalizzazione del risarcimento” (Cass. n. 27460 del 2017).

La necessità di personalizzare il risarcimento del danno non patrimoniale, conforme al principio di eguaglianza sostanziale, implica quindi la possibilità di valutare situazioni soggettive particolari, senza per questo intaccare, tuttavia, l'uniformità della quantificazione, a garanzia della pari dignità dei lavoratori danneggiati.

Inoltre, la Suprema Corte ha altresì precisato che “il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l'esistenza del relativo danno, avente natura patrimoniale e il cui onere di allegazione incombe sul lavoratore, determinandone anche l'entità in via equitativa, con processo logico-giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all'esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto”.

Pertanto, in applicazione di quanto sopra richiamato, la Corte di cassazione ha, ad esempio, cassato una sentenza di merito che aveva provveduto alla liquidazione del danno professionale nella misura “poco più che simbolica di Euro 1.000,00, e di quello esistenziale alla misura di Euro 3.000”, in quanto fondata “su valutazioni inadeguate riferite essenzialmente alla peculiarità della situazione lavorativa” e senza che la stessa abbia tenuto conto della condotta datoriale nel suo complesso, “considerando, in particolare, la persistenza del comportamento lesivo (sia pure in mancanza di intenti di discriminazione o di persecuzione idonei a qualificarlo come mobbing), la lunga durata di reiterate situazioni di disagio professionale e personale, consistite, fra l'altro, nel dover operare “in un locale piccolo e fatiscente, privo di computer”, l'inerzia del datore di lavoro rispetto alle accertate richieste del dipendente (di essere utilizzato nell'area provvedimenti al fine di poter lavorare in un settore operativo-amministrativo) intese a non compromettere il patrimonio di esperienza e qualificazione professionale, che costituiva un suo primario diritto a prescindere dalla esistenza di specifiche aspettative di progressione di carriera” (Cass. n. 4063 del 2010).

In altri termini, secondo i giudici di legittimità, la liquidazione del danno, per quanto equitativa, non può essere simbolica, dovendo essere adeguata all'entità del pregiudizio patito dal lavoratore e, pertanto, valorizzando tutti gli elementi di fatto dedotti dal lavoratore medesimo al fine di qualificare il demansionamento subito.

La possibilità di incorrere in valutazioni arbitrarie circa la liquidazione del danno da demansionamento, inteso sotto la sua componente patrimoniale e non patrimoniale, ha indotto sempre più frequentemente la giurisprudenza a parametrare il relativo risarcimento alla retribuzione spettante al lavoratore, ovvero ad una quota della stessa, al fine di avere un elemento monetario di base su cui fondare il proprio giudizio.

Nonostante il riferimento al reddito del lavoratore, quale parametro di quantificazione del danno, sia stato particolarmente criticato dalla dottrina, la Corte di Cassazione ne ha riconosciuto la piena legittimità.

I giudici, infatti, hanno ritenuto “non privo di concretezza il ricorso in via parametrica alla retribuzione per la determinazione in termini quantitativi del danno da violazione dell'art. 2103 c.c., posto che, indubbiamente, non può negarsi che elemento di

massimo rilievo nella determinazione della retribuzione è il contenuto professionale delle mansioni, sicché essa costituisce, in linea di massima, espressione (per qualità e quantità, ai sensi dell'art. 36 Cost.) anche del contenuto professionale della prestazione; l'entità della retribuzione ben può, dunque, essere assunta, nell'ambito di una valutazione necessariamente equitativa, a parametro del danno da impoverimento professionale derivato dall'annientamento delle prestazioni proprie della qualifica” (Cass.

n. 9228 del 2001).

Nel solco così tracciato dalla Suprema Corte si evidenzia, ad esempio, una pronuncia del Tribunale di Venezia la n. 263 del 2017, la quale, motivando la decisione di utilizzare la retribuzione lorda goduta dal lavoratore, ha precisato che la stessa “può essere considerata come il valore convenzionale attribuito da datore di lavoro e lavoratore all'attività dedotta nel contratto, sicché, in questa prospettiva, il comportamento del datore di lavoro, che colposamente non consente al lavoratore di svolgere l'attività corrispondente alla sua qualifica, produce un danno quantificabile economicamente; inoltre, tale criterio di quantificazione risulta coerente con la maggiore penosità dell'espletamento di un'attività

lavorativa in violazione della propria professionalità ed inquadramento”.

Ancora, la Corte d'Appello di Roma (sentenza n. 924 del 2018), confermando il ricorso in via parametrica alla retribuzione per la

determinazione in termini quantitativi

del danno da demansionamento, ha ritenuto congrua la liquidazione di un risarcimento del danno nella misura del 50% della retribuzione mensile, tenuto conto “delle caratteristiche della dequalificazione (ingiustificata sottrazione di mansioni in ragione di rapporti personali con il vertice dell'amministrazione), durata (quasi cinque anni), gravità (pressoché totale demansionamento), conoscibilità all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro dell'operata dequalificazione (con perdita dei rapporti con esterno ed anche con il personale operante nell'ufficio), frustrazione di ragionevoli aspettative di progressione professionale”.

Nel panorama sopra rappresentato, si ritiene, infine, opportuno segnalare una sentenza del Tribunale di Reggio Calabria del 11 gennaio 2008 quale si discosta, con ampia motivazione, dal parametro della retribuzione ai fini della quantificazione del danno da demansionamento.

Invero, il giudice calabrese osserva che “il criterio spesso utilizzato in giurisprudenza, consistente nel determinare il danno da demansionamento in una percentuale della retribuzione, presenta l'inconveniente di determinare un'ingiustificata disparità di trattamento, dal momento che porta ad un risarcimento differenziato in ragione della retribuzione. È pertanto preferibile fare riferimento ad un parametro disancorato dal livello reddituale”.

Il Tribunale, quindi, ritiene “preferibile adottare quale parametro di riferimento l'importo previsto dall'art. 139, comma 1, d.lgs. n.

209/2005 e diffuso in giurisprudenza anche al di fuori dell'area degli incidenti stradali per il danno biologico temporaneo per ogni giorno di inabilità assoluta … Tale importo, per come si evince dall'art. 139, comma 2, d.lgs. n. 209/2005, è comprensivo dell'incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, ossia l'importo di Euro 40,00 per ogni giorno (arrotondando la cifra di Euro 39,37)”.

La sentenza prosegue rilevando la necessità di fissare, all'interno del predetto parametro, la quota riferibile alla sola lesione fisica (posto che, nel caso di specie, non vi era stata lesione all'integrità psico-fisica del lavoratore), per poi scorporarla dall'importo

complessivo ed ottenere, in tal modo, “la quota massima riferibile al tipo di danno da demansionamento”. Così, il Tribunale procede ad una distinzione tra gli ambiti di vita sui quali il danno può incidere, operando “una quadripartizione e distinguendo i seguenti ambiti di vita: attività biologico-sussistenziali, relazioni familiari, attività lavorativa, altre attività socialmente gratificanti. Si deve quindi assegnare a ciascun ambito vitale la quota massima riferibile entro il valore massimo di partenza (Euro 40,00). Ritiene questo giudice di assegnare la quota del 33,00% (1/3 circa) all'ambito biologico-sussistenziale, del 30% a quello familiare, del 30% a quello lavorativo, e la restante quota (del 7%) all'ambito residuale culturale-ricreativo. Di conseguenza la quota massima riferibile all'ambito lavorativo è pari ad Euro 12,00”.

Individuato, quindi, il parametro di base ritenuto equo per la valutazione del danno da demansionamento, il giudice calabrese evidenzia, tuttavia, la necessità che lo stesso debba essere oggetto di adeguamento, tenuto conto, da una parte, della gravità del demansionamento, dall'altra parte, del periodo necessario al riassorbimento del pregiudizio posto che lo stesso “non si realizza normalmente in coincidenza con la reintegrazione nelle precedenti mansioni, occorrendo un altro periodo più o meno ampio per

sanare il vulnus arrecato a quel corredo di attitudini-esperienza-nozioni in cui si sostanzia l'identità professionale. L'ampiezza di questo periodo non può essere fissata in via astratta, occorrendo distinguere a seconda della più o meno alta obsolescenza che connota la prestazione lavorativa di cui si discute”. La sentenza va segnalata per il tentativo di aver ricercato un criterio che, seppure in modo artificioso, garantisca per un pregiudizio di natura non economica un eguale valore risarcitorio, svincolato dal livello di retribuzione del lavoratore danneggiato, con la possibilità, inoltre, di variare il quantum in funzione della peculiarità del caso concreto.

Il dibattito in ordine ai criteri di quantificazione del risarcimento del danno non patrimoniale si arricchisce sicuramente con le sentenze del 2018 della terza sezione civile della Cassazione (tra le tante Cass. 28.09.2018 n. 23469) in ordine ai criteri di quantificazione da adottare in materia di risarcimento del danno non patrimoniale.

La Cassazione ha elaborato una sorta di decalogo.

1) Sul piano del diritto positivo, l’ordinamento riconosce e disciplina (soltanto) le fattispecie del danno patrimoniale (nelle due forme del danno emergente e del lucro cessante: art. 1223 c.c.) e del danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.; art. 185 c.p.).

2) La natura unitaria ed onnicomprensiva del danno non patrimoniale, secondo l’insegnamento della Corte costituzionale e delle sezioni unite della S.C. (Corte cost. 233/2003; Cass. ss.uu.

26972/2008) deve essere interpretata, sul piano delle categorie giuridiche (anche se non sotto quello fenomenologico) rispettivamente nel senso: a) di unitarietà rispetto a qualsiasi lesione di un interesse o valore costituzionalmente protetto e non suscettibile di valutazione economica; b) di onnicomprensività intesa come obbligo, per il giudice di merito, di tener conto, a fini risarcitori, di tutte le conseguenze (modificative in pejus della precedente situazione del danneggiato) derivanti dall’evento di danno, nessuna esclusa, con il concorrente limite di evitare duplicazioni attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici, procedendo, a seguito di articolata, compiuta ed esaustiva istruttoria, ad un accertamento concreto e non astratto del danno, all’uopo dando ingresso a tutti i necessari mezzi di prova, ivi compresi il fatto notorio, le massime di esperienza, le presunzioni.

3) Nel procedere all’accertamento ed alla quantificazione del danno risarcibile, il giudice di merito, alla luce dell’insegnamento della Corte costituzionale (sentenza 235/2014, punto 10.1 e ss.) e del

recente intervento del legislatore sugli artt. 138 e 139 Codice delle assicurazioni come modificati dall’art. 1, comma 17, della legge 4 agosto 2017, n. 124 - la cui nuova rubrica ("danno non patrimoniale", sostituiva della precedente, "danno biologico"), ed il cui contenuto consentono di distinguere definitivamente il danno dinamico-relazionale causato dalle lesioni da quello morale deve congiuntamente, ma distintamente, valutare la reale fenomenologia della lesione non patrimoniale, e cioè tanto l’aspetto interiore del danno sofferto (cd. danno morale, sub specie del dolore, della vergogna, della disistima di sé, della paura, della disperazione) quanto quello dinamico-relazionale (destinato ad incidere in senso peggiorativo su tutte le relazioni di vita esterne del soggetto).

4) Nella valutazione del danno alla salute, in particolare, ma non diversamente che in quella di tutti gli altri danni alla persona conseguenti alla lesione di un valore/interesse costituzionalmente protetto (Cass. 8827-8828/2003; Cass. ss.uu. 6572/2006; Corte cost.

233/2003), il giudice dovrà, pertanto, valutare tanto le conseguenze subite dal danneggiato nella sua sfera morale – che si collocano nella dimensione del rapporto del soggetto con se stesso – quanto quelle incidenti sul piano dinamico-relazionale della sua vita (che si

dipanano nell’ambito della relazione del soggetto con la realtà esterna, con tutto ciò che, in altri termini, costituisce "altro da se").

5) In presenza di un danno permanente alla salute, la misura standard del risarcimento prevista dalla legge o dal criterio equitativo uniforme adottato dagli organi giudiziari di merito (oggi secondo il sistema c.d. del punto variabile) può essere aumentata, nella sua componente dinamico-relazionale, solo in presenza di conseguenze dannose del tutto anomale, eccezionali ed affatto peculiari: le conseguenze dannose da ritenersi normali e indefettibili secondo l’id quod plerumque accidit (ovvero quelle che qualunque persona con la medesima invalidità non potrebbe non subire) non giustificano alcuna personalizzazione in aumento del risarcimento.

6) Nel caso di lesione della salute, costituisce, pertanto, duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione del danno biologico - inteso, secondo la stessa definizione legislativa, come danno che esplica incidenza sulla vita quotidiana del soggetto e sulle sue attività dinamico relazionali - e del danno cd. esistenziale, appartenendo tali cd. "categorie" o cd. "voci" di danno alla stessa area protetta dalla norma costituzionale (l’art. 32 Cost.).

7) Non costituisce duplicazione risarcitoria, di converso, la differente ed autonoma valutazione compiuta con riferimento alla sofferenza interiore patita dal soggetto in conseguenza della lesione del suo diritto alla salute, come stabilito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 235 del 2014, punto 10.1 e ss. (ove si legge che la norma di cui all’art. 139 c.s.a. non è chiusa anche al risarcimento del danno morale), e come oggi normativamente confermato dalla nuova formulazione dell’art. 138 del C.d.A., alla lettera e introdotto dalla legge di stabilità del 2016.

8) In assenza di lesione della salute, ogni vulnus arrecato ad un altro valore/interesse costituzionalmente tutelato andrà specularmente valutato e accertato, all’esito di compiuta istruttoria, e in assenza di qualsiasi automatismo (volta che, nelle singole fattispecie concrete, non è impredicabile, pur se non frequente, l’ipotesi dell’accertamento della sola sofferenza morale o della sola modificazione in pejus degli aspetti dinamico-relazionali della vita), il medesimo, duplice aspetto, tanto della sofferenza morale, quanto della privazione/diminuzione/modificazione delle attività dinamico-relazionali precedentemente esplicate dal soggetto danneggiato (in tal senso, già Cass. ss.uu. 6572/2006).

9) Costituisce, pertanto, un evidente paralogismo sul plano fenomenologico, prima ancora che giuridico (come, oggi, anche normativamente confermato dalla riforma degli artt. 138 e 139 C.d.A.), quello secondo cui il danno sarebbe costituito, in una dimensione di impredicabile unità, "dalla sofferenza del non poter più fare", perché la più superficiale della disamina delle conseguenze di una grave lesione di un diritto costituzionalmente tutelato, come quello alla relazione parentale, consente ictu oculi di affermare, in alcuni casi, che, nonostante la intensa sofferenza morale, questa non incida, in tutto o in parte, sulle attività dinamico-relazionali del soggetto leso, appartenendo ad una diversa dimensione dell’essere persona.

10) La liquidazione finalisticamente unitaria del danno alla persona (non diversamente da quella prevista per il danno patrimoniale) avrà pertanto il significato di attribuire al soggetto una somma di danaro che tenga conto del pregiudizio complessivamente subito tanto sotto l’aspetto della sofferenza interiore (cui potrebbe assimilarsi, in una suggestiva simmetria legislativa, il danno emergente, in guisa di vulnus "interno" arrecato al patrimonio del creditore), quanto sotto quello dell’alterazione/modificazione

peggiorativa della vita di relazione in ogni sua forma e considerata in ogni suo aspetto, senza ulteriori frammentazioni nominalistiche (danno idealmente omogeneo al cd. "lucro cessante" quale proiezione "esterna" del patrimonio del soggetto).

Occorre valutare con attenzione il profilo della applicabilità di tale recentissimo orientamento al danno non patrimoniale da demansionamento. A mio avviso tale orientamento è stato elaborato tenendo contro della normativa sopravvenuta e soprattutto delle peculiarità del danno non patrimoniale derivante da incidente stradale. Invece nella ipotesi di danno da demansionamento solitamente il danno morale ed il danno esistenziale precedono il danno biologico psichico. Quindi non è possibile ipotizzare un danno esistenziale solo come conseguenza del danno biologico, perché capita spesso che il danno esistenziale anticipa e precede il danno biologico psichico. In conclusione va abbracciato e portato alle estreme conseguente il punto di partenza della pluralità e diversità ontologica dei danni

LUIGI PAZIENZA

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