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IL DANNO DA DEMANSIONAMENTO: DANNO PATRIMONIALE E DANNO NON PATRIMONIALE.

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SCUOLA SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA

STRUTTURA TERRITORIALE DI FORMAZIONE DECENTRATA DEL DISTRETTO DI MILANO

IL DANNO DA DEMANSIONAMENTO: DANNO PATRIMONIALE E DANNO NON PATRIMONIALE.

Milano, 23 maggio 2019

I DANNI DA DEMANSIONAMENTO: NATURA, BENI TUTELATI E PREGIUDIZI RISARCIBILI

L’art. 2103 c.c. tutela il patrimonio professionale, ossia il corredo di abilità, nozioni ed esperienze in possesso del lavoratore, consacrando il diritto del lavoratore alla non dispersione e all’affinamento del patrimonio professionale.

Non appare condivisibile l’idea di un danno unitario da demansionamento. Sul punto occorre richiamare le considerazioni della non proprio recente sentenza del Tribunale di Pinerolo del 6 febbraio 2003, la quale, dopo avere citato il danno biologico, il danno esistenziale ed il danno morale, ha sostenuto che il panorama delle categorie di danno è completo e che non appare convincente il

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richiamo al concetto di « danno alla professionalità », trattandosi di una categoria non omogenea, cui sono stati ricondotti pregiudizi di varia natura, i quali si fondono in un contenitore che appare da un lato privo di coerenza logica e sistematica e, dall’altro, foriero di complicazioni processuali, sia con riferimento al problema della prova del pregiudizio che a quello alla sua liquidazione. Pertanto occorre distinguere il danno patrimoniale dal danno non patrimoniale e all’interno di questo appare opportuno differenziare il danno biologico (che può assumere i connotati della malattia psichica), il danno morale e il danno esistenziale, inteso come sconvolgimento della vita familiare, lavorativa e sociale conseguente al demansionamento.

Si tratta di osservazioni pienamente attuali, condivise dalle Sezioni Unite della Cassazione nel 2006 e che conservano la loro validità anche dopo la data del 11.11.2008.

Non appare condivisibile la validità concettuale di una macro- categoria che abbracci i vari pregiudizi connessi dal solo fatto di derivare dalla lesione dell'art. 2103 c.c.; esistono, sul piano concettuale, vari danni da demansionamento. In dottrina si è affermato che la categoria del danno da demansionamento, proprio per il suo voler accorpare insieme pregiudizi tra loro profondamente

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diversi, di natura patrimoniale e non e per la sua pretesa esaustività, risulti inutile. Si è affermato che apparirebbe nociva rispetto al fine della tutela del danneggiato, dal momento che l'individuazione del criterio di liquidazione dei vari pregiudizi, ancorato alla retribuzione della vittima, non consente di tenere nel dovuto conto la sua componente non patrimoniale, i cui parametri di valutazione del quantum non potevano che essere differenti rispetto alla componente patrimoniale.

Seguendo le indicazioni della sentenza Cass. civ., Sez. Un., 24 marzo 2006, n. 6572 tre sono i tipi di danni non patrimoniali: danno biologico, danno morale e danno esistenziale.

Anche in caso di demansionamento, vi possono essere danni patrimoniali e, in via autonoma, danni non patrimoniali. Questi possono essere distinti in biologico, morale ed esistenziale. Certo, come avverte la sentenza delle Sez. Un. 11.11.2008, n. 26972, il danno non patrimoniale è unitario. Ma tale unitarietà non preclude distinzioni interne. La stessa sentenza a sezioni unite del 2008 ricorre ripetutamente a distinzioni facenti riferimento alle tre voci.

Quel che occorre evitare è che la distinzione si tramuti in rigida separazione, che poi finisce per trasformarsi in una forma di non

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comunicabilità delle voci, e quindi, in ultima istanza, in duplicazioni.

Ebbene, l’unitarietà perentoriamente sancita dalla sentenza n.

26972/08 riguarda il danno non patrimoniale, il quale rimane sempre ben distinto dal danno patrimoniale. Invece troppo spesso il danno da demansionamento è stato trattato come danno unitario, comprensivo sia degli aspetti patrimoniali come di quelli non patrimoniali. Nel caso del demansionamento la confusione è stata maggiore, per la frequente mancanza di un danno biologico.

Cosicché è parso a volte possibile riunire tutti i pregiudizi, patrimoniali e non, all’interno di un unico contenitore, per l’appunto, il danno da demansionamento. A tale situazione di confusione ha tentato di porre rimedio la pronuncia n. 6572/06.

In generale l’inopportunità di configurare una macro-categoria di danno da demansionamento emerge anche dall’opportunità di distinguere varie voci, in ragione della diversità di esigenze probatorie e valutative. In altre parole, vi sono circostanze che hanno significati diversi a seconda della voce di danno in questione.

Si pensi ad esempio alla breve durata del demansionamento. Tale elemento costituisce un indice molto significativo in senso negativo con riferimento al danno patrimoniale e al danno esistenziale;

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nessun rilievo ha con riguardo al danno morale, se per danno morale si intende il turbamento d'animo, riscontrabile in presenza di fatti traumatici, o in generale nella sofferenza morale derivante dalla compromissione dell’integrità morale (ad es. la sofferenza conseguente a comportamenti umilianti, ingiuriosi, ritorsivi, ridicolizzanti, discriminatori, etc.).

Si pensi, inoltre, all’età prossima al pensionamento, vale a dire la durata residua dell’attività lavorativa. Tale elemento è spesso decisivo per escludere il danno patrimoniale; è meno decisivo per escludere il danno esistenziale, visto che anche in età prossima al pensionamento permane il valore della libera esplicazione della personalità. Ancor meno importante appare tale dato con riferimento al danno morale. Anzi, con riguardo a tale voce, l’età prossima può costituire indice di maggior danno. Pensiamo poi all’elemento psicologico del datore di lavoro, ossia alle intenzioni soggettive che hanno indotto il datore di lavoro a porre in essere il demansionamento. Tale elemento non ha nessun peso ai fini del danno patrimoniale. È invece importantissimo ai fini del danno morale. Può avere rilievo, ancorché indiretto, ai fini del danno esistenziale. Con la configurazione di un’unica macro-categoria di danno da demansionamento si confondono i diversi significati

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attribuibili alle diverse circostanze utilizzate per determinare e quantificare il danno.

Le Sezioni Unite con la pronuncia n. 6572/06 hanno adottato la soluzione più equilibrata: distinguere nettamente l’emisfero patrimoniale da quello non patrimoniale, articolando quest’ultimo in modo sufficientemente semplice da consentire un agevole governo della complessa materia sottostante, ma, nel contempo, non così povero da esprime una visione riduttiva del valore-uomo.

L’impianto delineato nel marzo 2006 articola la realtà del valore- uomo in tre dimensioni: il corpo, l’anima e le relazioni. Le compromissioni delle vaie aree determinano rispettivamente il danno biologico, il danno morale ed il danno esistenziale.

I DANNI PATRIMONIALI

In primo luogo, i giudici di legittimità affermano che dall'inadempimento datoriale possa derivare un danno patrimoniale, il quale può consistere “sia nell'impoverimento della capacità professionale del lavoratore e nella mancata acquisizione di un maggior saper fare, sia nel pregiudizio subito per la perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno o di ulteriori potenzialità occupazionali”.

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La violazione dell'art. 2103 c.c. può pregiudicare quel complesso di capacità e di attitudini definibile con il termine professionalità, che è certamente un bene economicamente valutabile, posto che esso rappresenta uno dei principali parametri per la determinazione del valore di un dipendente sul mercato del lavoro.

Così, a titolo esemplificativo, la Corte di cassazione ha recentemente affermato che il pregiudizio derivante dall'impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore nonché di accrescimento di quella futura, si verifica tutte le volte in cui un lavoratore sia chiamato a svolgere un'attività soggetta ad una continua evoluzione e formazione e, quindi, caratterizzata da vantaggi connessi all'esperienza professionale, destinati a venire meno in conseguenza del loro mancato esercizio in un apprezzabile periodo di tempo (Cass. n. 18405del 2016; Cass.

n. 19600 del 2017). Oppure ancora, è stato osservato che il pregiudizio per perdita di chance, il quale si identifica nella definitiva perdita della possibilità di conseguire un vantaggio economico, da valutarsi, peraltro ex ante, ovvero al momento dell'illecito, potrà essere configurato solo nell'ipotesi in cui il lavoratore dimostri quali aspettative (anche di carriera) siano state concretamente frustrate dal suo demansionamento.

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Sul punto, si evidenzia una significativa decisione della Suprema Corte che, confermando la sentenza della Corte territoriale in ordine alla domanda di risarcimento del danno da parte di un lavoratore trasferito dal settore delle relazioni sindacali, di cui era referente, al dipartimento fondo pensioni, settore per nulla aderente alla sua pregressa competenza e professionalità, ha ravvisato un danno da perdita di chance sul presupposto causale che, se non fosse intervenuto il demansionamento, lo stesso lavoratore avrebbe acquisito l'esperienza e la maturità tale da poter conseguire la superiore qualifica di dirigente “per come era avvenuto per una significativa quota dei funzionari del suo grado a ridosso del periodo in considerazione” (Cass. n. 6110 del 2012).

In un altro caso, la Corte di Cassazione ha riconosciuto il danno da perdita di chance a due lavoratrici alle quali era stata sottratta una posizione di responsabilità nei rispettivi settori di competenza, a causa dell'unificazione degli stessi e dell'assegnazione della titolarità del nuovo ambito ad un soggetto esterno. Nel caso in esame, in particolare, i giudici di legittimità, una volta accertata la privazione illegittima della direzione di unità operativa, hanno osservato che “se è vero che la nuova posizione organizzativa era unica a seguito dell'accorpamento delle aree e che le aspiranti

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erano due, sicché entrambe non avrebbero potuto contestualmente congiuntamente ricoprire la posizione organizzativa unica risultante dall'accorpamento, è anche vero che entrambe le lavoratrici avevano una chance (da ritenersi, in assenza di elementi di valutazione, in parti uguali) di poter conseguire la posizione organizzativa, ciò che naturalmente implica una percentuale di probabilità che comunque va riconosciuta, essendo certo che la posizione organizzativa, in assenza dell'illegittima nomina del terzo, sarebbe spettato ad una delle lavoratrici aspiranti” (Cass. n.

18207del 2014)

Ancora, in una diversa fattispecie, la Corte di cassazione ha riconosciuto la correttezza del risarcimento del solo danno patrimoniale ad una lavoratrice assegnata ad un gruppo di lavoro in posizione subordinata rispetto ad un altro lavoratore con qualifica inferiore alla sua e con compiti meno importanti rispetto a quelli precedentemente svolti, sul presupposto che risultava provata la menomazione della sua capacità professionale, parametrando altresì il rispettivo pregiudizio con la remunerazione che le sarebbe spettata per l'espletamento dell'attività di coordinamento del gruppo per la quale era stata assunta ( Cass. n. 17978 del 2018).

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I DANNI NON PATRIMONIALI

La sentenza della Cassazione Sez. U., 24 marzo 2006, n. 6572 rappresenta una sentenza-decalogo sul tema in questione.

Il primo problema che si pone è rappresentato dal quesito della persistente validità di tale pronuncia a seguito del pronunciamento delle sezioni unite del 11.11.2008, n. 26972. La domanda è se l’assetto delineato nel marzo 2006 sia ancora in vita. La scure si è abbattuta con particolare forza sul danno esistenziale come categoria autonoma, ossia proprio su quella categoria che occupa il centro della scena nella sentenza n. 6572/06. Successivamente alla pubblicazione di tale sentenza in dottrina si è scritto che la Suprema Corte, con la sentenza n. 26972/08, ha escluso che possa parlarsi di una categoria generale del danno esistenziale. Una volta superati gli schemi dell'art. 2059 c.c., secondo alcuni il danno esistenziale avrebbe esaurito il suo compito.

La tesi non appare persuasiva.

Se tutte le esigenze di tutela fossero soddisfatte dalla interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c., sarebbero inutili non solo il danno esistenziale, ma anche il danno biologico e il danno morale. E in effetti, coerentemente, la sentenza della Cassazione n. 26972/08 avalla la tesi della inesistenza delle

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sottocategorie cominciando dalla categoria del danno biologico. Il fatto è che però il danno biologico è espressamente previsto dalla legge: ciò dovrebbe essere sufficiente a dimostrare che la n.

26972/08 non ha inteso eliminare la rilevanza del contenuto delle sottocategorie, ma ha voluto assegnare loro un diverso ruolo. In particolare ha voluto incidere sul rapporto tra le voci, postulando un passaggio da un paradigma di separatezza ad uno di interferenza/sovrapposizione. Venendo in particolare al danno esistenziale, al quale la pronuncia n. 26972/08 dedica una particolare attenzione, in dottrina si è affermato correttamente che, quando la sentenza del 2008 fa riferimento ad esso come categoria autonoma della quale non è dato più discorrere, sembra riferirsi ad un qualcosa di diverso dal danno esistenziale inteso come tipologia di conseguenze dannose. La legge n. 6572/06, parlando di danno esistenziale come pregiudizio al fare areddituale di natura non meramente emotiva, si riferisce al danno esistenziale come classe di danni-conseguenza; ragiona a valle, riflette sul momento squisitamente risarcitorio in cui si deve stabilire se determinati accadimenti sono da considerare come ripercussioni negative sul valore-uomo.

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Sul piano delle conseguenze dannose la n. 26972/08 non si pone in contrasto con gli assunti della n. 6572/06. Secondo alcuni commentatori la Cassazione nella decisione n. 26972/08 non afferma di voler superare la sentenza n. 6572/06 nella parte in cui discorre di danno esistenziale descrivendone il contenuto, premurandosi di chiarire che da ciò non si può dedurre l’esistenza del danno esistenziale come autonoma categoria. Il rischio del danno esistenziale inteso come tipologia di evento lesivo sta nell’elusione del requisito dell’ingiustizia. Contro questa autonomia delle conseguenze dannose da una previa lesione di un diritto costituzionalmente qualificato si scagliano i fulmini della sentenza della Cassazione n. 26972/08. Ma una volta verificata la lesione di un previo e specifico diritto, e quando si ragiona sulle conseguenze dannose, si profila il riconoscimento esplicito da parte d ella sentenza n. 26972/08 della risarcibilità dei pregiudizi di tipo esistenziale.

Tale assunto è dimostrato da numerose pronunce di legittimità e di merito che si richiamano sia alla n. 6572/06 sia alla n. 26972/08, non ravvisando evidentemente profili di contrasto.

Ravvisa una linea di continuità tra n. 6572/06 e n. 26972/08 la decisione della Cassazione del 16 febbraio 2012, n. 2257 la quale,

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dopo avere ricordato la massima della n. 6572/06, ha posto in chiaro che tale principio è stato in sostanza confermato anche nel quadro generale della accezione unitaria del danno non patrimoniale successivamente tracciata dalle stesse Sezioni Unite del 2008 n.

26972. Sul fatto che la n. 26972/08 non abbia sconfessato l’impianto disegnato dalla n. 6572/06 con specifico riguardo al rapporto di lavoro anche la dottrina pare convenire, là dove ha scritto che le sentenze delle Sezioni Unite del 2008 non hanno radicalmente cambiato nulla rispetto a prima

In linea generale, una discontinuità sostanziale tra n. 26972/08 e n.

6572/06 è negata da più di uno studioso. Se il principale obiettivo della n. 26972/08 era il superamento dell’automatismo, certo vi è una forte unità d’intenti con la n. 6572/06. La sentenza n. 26972/08 incide sul piano dell’ingiustizia e in generale sul rapporto tra le voci dei danni-conseguenza. Ma secondo alcuni non è ravvisabile alcuna contraddizione tra i due pronunciamenti delle Sezioni Unite per quanto riguarda specificamente la tematica dei danni da demansionamento.

Ciò premesso, va osservato che la giurisprudenza di legittimità ha da tempo riconosciuto che dall'illegittima attribuzione ad un lavoratore di mansioni inferiori rispetto a quelle assegnategli al

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momento dell'assunzione può derivare non solo la violazione dell'art. 2103 c.c., ma anche la violazione del diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, tutelato dagli artt. 2 e 3 della Costituzione, nonché il danno da demansionamento, che attiene alla lesione di un interesse costituzionalmente protetto dall'art. 2 della Costituzione, avente ad oggetto il diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro secondo le mansioni e con la qualifica spettategli per legge o per contratto, con la conseguenza che i provvedimenti del datore di lavoro, che ledono tale diritto illegittimamente, vengono immancabilmente a ledere l'immagine professionale, la dignità personale e la vita di relazione del lavoratore, sia in tema di autostima e di eterostima nell'ambiente di lavoro ed in quello socio-familiare.

A ciò, si deve altresì aggiungere che la Corte costituzionale aveva ritenuto come “incontroverso che dalla violazione da parte del datore dell'obbligo di adibire il lavoratore alle mansioni cui ha diritto possono derivare a quest'ultimo danni di vario genere:

danni a quel complesso di capacità e di attitudini che viene definito con il termine professionalità, con conseguente compromissione delle aspettative di miglioramenti all'interno o all'esterno

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dell'azienda; danni alla persona ed alla sua dignità; danni alla salute psichica e fisica” (Corte cost. n. 113 del 2004)

Tali principi sono stati ribaditi dalle sezioni unite del 2006, le quali, riconducendo i pregiudizi scaturenti da demansionamento nei due poli del danno patrimoniale e del danno non patrimoniale, hanno riconosciuto, all'interno del secondo, la piena risarcibilità del danno biologico, in tutti i casi in cui il lavoratore abbia, per l'appunto, subito un danno di natura psico-fisica, nonché del danno definito come esistenziale nel quale riconducono una pletora di lesioni (danno all'identità professionale, all'immagine, alla vita di relazione o comunque connesso alla lesione di un diritto fondamentale del lavoratore costituzionalmente tutelato). I giudici di legittimità, una volta rilevato che nel rapporto di lavoro, oltre allo scambio di prestazioni, sussiste anche il diretto coinvolgimento del lavoratore come persona, hanno fatto ricadere all'interno della voce di danno esistenziale “ogni pregiudizio che l'illecito datoriale provoca sul fare areddituale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per la espressione e la realizzazione della sua personalità nel mondo esterno”, precisando, altresì, che lo stesso “si fonda sulla natura non meramente emotiva

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ed ulteriore (propria del danno morale), ma oggettivamente accertabile del pregiudizio, attraverso la prova di scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l'evento dannoso”.

La giurisprudenza ne ha fatta costante applicazione, al fine di ristorare i diversi pregiudizi subiti dal lavoratore a seguito dell'inadempimento datoriale.

Sul punto va ricordata una recente sentenza della Corte di cassazione , la quale ha riconosciuto il risarcimento del danno non patrimoniale alla professionalità di un giornalista che, dapprima impegnato in attività di cronaca nera, giudiziaria e successivamente politica, era stato via via dequalificato con l'assegnazione di servizi di scarsa rilevanza ed estranei al suo settore di competenza, nonché lasciato per lunghi periodi inattivo, con esclusione, inoltre, da qualsiasi incarico utile al conseguimento di una promozione. (Cass.

n. 3474 del 2015). Nel caso specifico, i giudici di legittimità hanno infatti osservato che “l'attività del giornalista si può svolgere in numerosi settori e che in ognuno di questi, per la rilevanza che assume detta attività di informazione, è richiesta una specifica competenza suscettibile di accrescersi nel tempo per effetto di una acquisita esperienza, e di una sempre più compiuta riflessione sulle

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problematiche da affrontare al fine di fornire alla collettività un servizio sempre migliore anche a seguito di nuove conoscenze e di più affinate capacità”. Pertanto “va rimarcato come in professioni intellettuali, come quella del giornalista, anche a parità di qualifica e di retribuzione, può verificarsi una violazione del disposto dell'art. 2103 c.c., con conseguente vulnus della “professionalità”, come nel caso in esame in cui viene concretizzato appunto un vulnus della sua personalità a seguito di una cesura dello sviluppo delle professionalità acquisite sino a quel momento della propria carriera lavorativa, con conseguente possibile risarcimento della sua immagine”. In altri termini, quindi, la Suprema Corte ha riconosciuto una lesione nella professionalità del lavoratore — e, lato sensu, anche alla sua immagine — per essere lo stesso stato relegato allo svolgimento di servizi secondari e per non essere stato compiutamente valorizzato, dal datore di lavoro, nel bagaglio di competenze acquisito nel corso della sua carriera.

Analogamente, è stato accertato un danno all'immagine e alla reputazione, ad esempio, di un dirigente per l'illegittimità pubblicazione nel sito internet datoriale del provvedimento di revoca delle deleghe a lui conferite, circostanza ulteriormente aggravata dall'inottemperanza del datore di lavoro dell'ordine

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cautelare di immediata rimozione, così come nel caso in cui il datore di lavoro non abbia adempiuto all'ordine di assegnazione del lavoratore a mansioni confacenti il suo grado di professionalità, costringendolo, in tal modo, a subire “un pesantissimo svilimento della sua figura umana e professionale a causa del persistente, oggettivo, inadempimento” (App. Torino n.

64 del 2017).

Il danno esistenziale è stato riscontrato nel caso in cui, a seguito del demansionamento subito, nel lavoratore si fosse inverato uno stato di stress-depressivo, tale da aver influito negativamente sulle sue abitudini e scelte di vita.

In un caso affrontato dal Tribunale di Brindisi, infatti, il giudice di merito, precisando che il danno da dequalificazione non debba necessariamente sfociare in una patologia, ha riconosciuto il danno non patrimoniale lamentato da una lavoratrice sul presupposto che l'inadempimento datoriale le avesse causato “un isolamento totale e, quindi, non comunicava dei fatti quotidiani, ma esclusivamente dei problemi lavorativi, tanto da non coltivare più amicizie d'alcun genere”, pregiudizio che risultava supportato anche da “fatti specifici quale ad es. quello dell'incapacità a guidare l'auto; della anticipata richiesta di pensionamento; della

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difficoltà di comunicazione con i familiari” (Trib. Brindisi n. 561 del 2012). Condizionamenti che, a detta del giudice pugliese, hanno provocato un danno ingiusto alla lavoratrice, la quale, se non fosse stata illegittimamente demansionata, non avrebbe subito alcuna modifica peggiorativa delle proprie abitudini di vita, al punto da non dover essere costretta a formulare la domanda di pensionamento anticipato.

Per quanto attiene, invece, il profilo del danno biologico, si evidenzia come lo stesso possa sussistere, ad esempio, nel caso in cui venga accertato uno stato di stress cronico e il cui nesso causale, per mezzo di adeguata consulenza tecnica, sia imputabile alla reazione al demansionamento subito e, quindi, all'illegittima condotta datoriale.

Sempre con riguardo al nesso causale, in particolare, si evidenzia come la Corte di cassazione abbia avuto modo di chiarire che “la predisposizione alla malattia psichica (accertata anche in sede di consulenza) nel lavoratore demansionato, non può essere addotta dal datore di lavoro per escludere la propria responsabilità nell'insorgere della malattia e dunque non risarcire il danno biologico” (Cass. n. 10138 del 2018)

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L’ ONUS PROBANDI con particolare riferimento alla PROVA PRESUNTIVA

La richiamata sentenza a Sezioni Unite n. 6572/2006 ha composto un altro significativo contrasto giurisprudenziale in tema di danni da demansionamento.

In particolare, il quesito, di cui la Suprema Corte era stata investita, riguardava la disciplina dell'onere probatorio, ovvero se in caso di demansionamento il risarcimento del danno fosse da considerarsi in re ipsa oppure necessitasse di essere dimostrato, nella sua concretezza, da parte del lavoratore.

Sul punto, infatti, vi erano due differenti linee interpretative, le quali, pur essendo concordi nel ritenere che l'illegittimo esercizio dello jus variandi potesse pregiudicare una molteplicità di aspetti patrimoniali e non patrimoniali, divergevano proprio in ordine al regime della prova. Il pomo della discordia risiedeva nell'adesione dell'uno e dell'altro filone giurisprudenziale alla dogmatica distinzione tra danno-evento e danno-conseguenza, distinzione che ha spesso portato a risultati applicativi non sempre coerenti con il sistema della responsabilità civile.

Invero, il primo orientamento affermava che “in materia di risarcimento del danno per attribuzione al lavoratore di mansioni inferiori rispetto a quelle in relazione alle quali era stato assunto,

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l'ammontare di tale risarcimento può essere determinato dal giudice facendo ricorso ad una valutazione equitativa, ai sensi dell'art. 1226 c.c., anche in mancanza di uno specifico elemento di prova da parte del danneggiato, in quanto la liquidazione può essere operata in base all'apprezzamento degli elementi presuntivi acquisiti al giudizio e relativi alla natura, all'entità e alla durata del demansionamento, nonché alle altre circostanze del caso concreto” (Cass. n. 1015 del 2004). Così, i giudici di legittimità, cassando la sentenza della Corte di merito che aveva rigettato la domanda di risarcimento del danno proposta da un lavoratore demansionato da progettista a semplice addetto di magazzino, perché priva di allegazione circa l'ulteriore danno subito rispetto a quello retributivo, hanno argomentato che all'autonoma valutazione equitativa del pregiudizio “non ostano né l'eventuale insuccesso di una CTU disposta al fine di quantificarlo in concreto alla luce di criteri lato sensu oggettivi, né l'eventuale inidoneità e/o erroneità dei parametri risarcitori indicati dal danneggiato, dovendosi, per converso, ritenere contraria a diritto un'eventuale decisione di non liquet fondata, appunto, sull'asserita inadeguatezza dei criteri indicati dall'attore o sulla pretesa impossibilità di individuarne alcuno, risolvendosi tale pronuncia nella negazione di quanto,

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invece, già definitivamente acclarato in termini di esistenza di una condotta generatrice di danno ingiusto e di conseguente legittimità di una richiesta risarcitoria relativa ad una “certa res lesiva””.

Il secondo filone interpretativo, invece, in senso opposto, sosteneva che “il prestatore di lavoro, che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno (anche nella sua eventuale componente di danno alla vita di relazione o di cosiddetto danno biologico) subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita, lesione idonea a determinare la dequalificazione del dipendente stesso, deve fornire la prova dell'esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l'inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una valutazione equitativa” (Cass. n. 10361 del 2004). In particolare, veniva osservato che il danno non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo al lavoratore, che denunci il danno subito, di fornire la prova in base alla regola generale di cui all'art. 2697 c.c.

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Come già anticipato, a comporre il contrasto giurisprudenziale sono intervenute le Sezioni Unite con la sentenza n. 6572/2006, la quale, sposando il secondo orientamento, ha sancito la necessità della dimostrazione di un evento ulteriore ed autonomo rispetto al mero inadempimento, in quanto il risarcimento assolve alla funzione di reintegrare un pregiudizio conseguente all'effettiva diminuzione del patrimonio in senso lato del lavoratore. Sicché, i giudici di legittimità hanno così enunciato il principio di diritto per cui

“dall'inadempimento datoriale non deriva automaticamente l'esistenza del danno, ossia questo non è, immancabilmente, ravvisabile a causa della potenzialità lesiva dell'atto illegittimo.

L'inadempimento infatti è già sanzionato con l'obbligo di corresponsione della retribuzione, ed è perciò necessario che si produca una lesione aggiuntiva, e per certi versi autonoma”.

La Corte di cassazione, inoltre, ha chiarito che “non può non valere, anche in questo caso, la distinzione tra “inadempimento” e

“danno risarcibile” secondo gli ordinari principi civilistici di cui agli artt. 1218 e 1223 c.c., per i quali i danni attengono alla perdita o al mancato guadagno che siano “conseguenza immediata e diretta” dell'inadempimento, lasciando così chiaramente distinti il momento della violazione degli obblighi di cui agli artt.

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2087 e 2103 c.c., da quello, solo eventuale, della produzione del pregiudizio. D'altra parte mirando il risarcimento del danno alla reintegrazione del pregiudizio che determini una effettiva diminuzione del patrimonio del danneggiato, attraverso il raffronto tra il suo valore attuale e quello che sarebbe stato ove la obbligazione fosse stata esattamente adempiuta ove diminuzione non vi sia stata (perdita subita e/o mancato guadagno) il diritto al risarcimento non è configurabile.

La citata decisione, quindi, conclude affermando che “si rende indispensabile una specifica allegazione da parte del lavoratore, che deve in primo luogo precisare quali danni ritenga in concreto di aver subito, fornendo tutti gli elementi, le modalità e le peculiarità della situazione in fatto, attraverso i quali possa emergere la prova del danno”, non essendo sufficiente né la mera esistenza alla dequalificazione, né la richiesta generica di ristoro di tutti i danni subiti, in quanto il giudice non può in alcun modo prescindere dalla natura del pregiudizio lamentato dalla parte.

Ciò considerato, la Suprema Corte ha esaminato, altresì, le singole ipotesi in cui il danno da demansionamento può declinarsi, evidenziando che il pregiudizio patrimoniale “non può essere riconosciuto, in concreto, se non in presenza di adeguata

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allegazione, ad esempio deducendo l'esercizio di una attività (di qualunque tipo) soggetta ad una continua evoluzione, e comunque caratterizzata da vantaggi connessi all'esperienza professionale destinati a venire meno in conseguenza del loro mancato esercizio per un apprezzabile periodo di tempo”. Inoltre, con riferimento al danno da perdita di chance, ha precisato ulteriormente che “delle ulteriori potenzialità occupazionali o di ulteriori possibilità di guadagno, va data prova in concreto, indicando, nella specifica fattispecie, quali aspettative, che sarebbero state conseguibili in caso di regolare svolgimento del rapporto, siano state frustrate dal demansionamento o dalla forzata inattività”; il pregiudizio non patrimoniale, sotto la sua componente di danno biologico « non può prescindere dall'accertamento medico-legale, mentre con riguardo alla componente di danno esistenziale è necessaria la prova che il demansionamento abbia inciso in senso negativo nella sfera del lavoratore, alterandone l'equilibrio e le abitudini di vita.

Peraltro, è soprattutto con riguardo alla prova di quest'ultimo profilo di danno che la Corte di Cassazione si sofferma maggiormente, chiarendo che lo stesso può “essere verificato mediante la prova testimoniale, documentale o presuntiva, che dimostri nel processo “i concreti” cambiamenti che l'illecito ha

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apportato, in senso peggiorativo, nella qualità di vita del danneggiato”, sottolineando, altresì, che all'onere probatorio possa assolversi attraverso tutti i mezzi che l'ordinamento processuale pone a disposizione. In particolare “considerato che il pregiudizio attiene ad un bene immateriale, precipuo rilievo assume rispetto a questo tipo di danno la prova per presunzioni purché, secondo le regole di cui all'art. 2727 c.c., venga offerta una serie concatenata di fatti noti, ossia di tutti gli elementi che puntualmente e nella fattispecie concreta (e non in astratto) descrivano: durata, gravità, conoscibilità all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro della operata dequalificazione, frustrazione di (precisate e ragionevoli) aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti la avvenuta lesione dell'interesse relazionale, gli effetti negativi dispiegati nella abitudini di vita del soggetto; da tutte queste circostanze, complessivamente considerate attraverso un prudente apprezzamento, si può coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno”.

In conclusione, la Corte di Cassazione, mettendo fine al contrasto giurisprudenziale in ordine alla sussistenza, in caso di demansionamento, di un danno in re ipsa, sancisce, da una parte,

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l'onere di specificare il pregiudizio di cui si chiede il ristoro, non potendo il giudice sopperirvi nemmeno in forza dei poteri istruttori propri del rito del lavoro di cui all'art. 421 c.p.c., dall'altra parte, l'onere per il lavoratore di provare, anche per il tramite di presunzioni, la sussistenza di un pregiudizio da risarcire che abbia inciso negativamente sulla sua sfera patrimoniale o non patrimoniale.

In tale meccanismo, quindi, l'accertamento dell'inadempimento del datore di lavoro dell'obbligo di cui all'art. 2103 c.c. rappresenta il presupposto necessario ma non sufficiente a fondare la domanda di risarcimento del danno, posto che dal mero inadempimento a cui fa fronte, nel regolamento contrattuale, l'obbligazione di corrispondere la retribuzione non possono farsi discendere in via automatica ulteriori conseguenze pregiudizievoli.

Invero, sul punto, la giurisprudenza successiva , nel dare concreta applicazione ai principi sopra esposti, ha avuto modo di precisare che “in tema di prova del danno da dequalificazione professionale ex art. 2729 c.c., non è sufficiente a fondare una corretta inferenza presuntiva il semplice richiamo di categorie generali (come la qualità e quantità dell'attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la gravità

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del demansionamento, la sua durata e altre simili), dovendo il giudice di merito procedere, pur nell'ambito di tali categorie, ad una precisa individuazione dei fatti che assume idonei e rilevanti ai fini della dimostrazione del fatto ignoto, alla stregua di canoni di probabilità e regole di comune esperienza” (Cass. n. 17163 del 2016).

Perciò, non sarà sufficiente il mero richiamo generico agli indici presuntivi già indicati dalla Suprema Corte, ma gli stessi dovranno essere concretamente dimostrati.

Così, in applicazione dei principi esposti, la Corte di Cassazione ha ritenuto raggiunta la prova del danno patrimoniale e non patrimoniale alla professionalità di un lavoratore-quadro sul

presupposto che si “era trattato di un

grave demansionamento, durato a lungo nel tempo, nella totale indifferenza della filiale, non essendo mai stato utilizzato il lavoratore nelle mansioni di sua competenza, né riqualificato per diverse mansioni. Si era trattato, inoltre, di un demansionamento evidente agli occhi dei colleghi e del pubblico che accedeva all'ufficio, presumibilmente, data la sua posizione nel centro della città ed attesa la sua ampia operatività, frequentato anche da familiari e conoscenti dell'interessato” (Cass. n. 18405

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del 2016). In questo caso “ricorrevano, tutti gli elementi indicati come significativi a livello presuntivo in ordine alla sussistenza di danno derivato da demansionamento: gravità dello stesso con privazione dell'occasione di crescita professionale e di carriera, significativa durata, sua evidenza agli occhi dei colleghi e del pubblico, con riflessi altresì sulla serenità della vita familiare”.

Una eccessiva prudenza del giudice nell'utilizzare la prova presuntiva può condurre a vuoti di tutela risarcitoria. Per converso, un suo uso troppo disinvolto e poco meditato può determinare effetti distorsivi, soprattutto quando ciò si accompagni al ricorso all'equità pura. Infatti l'equità pura è spesso l'esito inevitabile dell'utilizzo sbrigativo della prova per presunzioni. Per evitare il rischio del soggettivismo giudiziario, occorre in primo luogo usare con oculatezza le massime di esperienza. Presumere non significa invertire l'onere probatorio: significa limitare lo sforzo probatorio a determinati fatti noti e idonei a dare l'avvio ad un ragionamento fondato su regole d'esperienza per giungere alla dimostrazione di un fatto ulteriore.

Occorre capire quale sia nel caso specifico il fatto ignoto che si tratta di provare con la presunzione semplice. Spesso la giurisprudenza, pur affermando la possibilità e il rilievo

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della prova presuntiva, rigetta la domanda di risarcimento del danno esistenziale per mancanza di prova, senza, tuttavia, spiegare che cosa sarebbe stato necessario dimostrare, ossia senza chiarire in che cosa consiste il fatto ignoto che sarebbe stato necessario provare. E anche in questo caso si comprende quanto sia erroneo l'assunto del carattere meramente descrittivo delle categorie. È fondamentale avere bene in mente prima il tipo di danno che si reputa risarcibile, perché solo sulla base di questo presupposto è possibile comprendere quali siano i fatti tipici idonei a fungere da fatti-base di una presunzione: come si è correttamente affermato in dottrina “descrivere i danni-conseguenza implica un selezionare e non un mero fotografare”.

Se per un verso la prova presuntiva costituisce un mezzo di prova di rango non inferiore agli altri, in quanto di grado non subordinato nella gerarchia dei mezzi di prova e dunque non più debole della prova diretta o rappresentativa, per altro verso, però, alla prova presuntiva non può essere attribuita una forza maggiore rispetto alle altre prove dirette. La parte danneggiata ha l'onere di fornire la prova diretta di tutto ciò che può costituire fatto-base. Vi è dunque uno sforzo probatorio indefettibile della parte onerata. È questo che distingue la prova presuntiva dal danno-evento e

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dal danno in re ipsa. In relazione ad essi lo sforzo probatorio si arresta alla lesione del diritto. Con la prova presuntiva l'onere probatorio va oltre, estendendosi a circostanze ulteriori, benché possa trattarsi di circostanze vicine all'evento lesivo. La vicinanza delle circostanze che possono costituire la base dell'inferenza, persino l'appartenenza di queste al medesimo contesto in cui è accaduto l'evento lesivo, non significa piena coincidenza.

Dal danno in re ipsa la prova presuntiva si differenzia in quanto il fatto noto da cui desumere il fatto ignoto del danno non può essere la semplice lesione del diritto. Il fatto noto, come correttamente evidenziato in dottrina, “non può essere l'ingiustizia sic et simpliciter ma, quanto meno, l'ingiustizia circostanziata, ossia l'ingiustizia colta nelle sue circostanze, esaminata nel suo contesto particolare, l'ingiustizia verso quella persona con quelle caratteristiche. Questa è la soglia minima invalicabile, al di sotto della quale si cade nel danno in re ipsa o nel danno-evento”.

Occorre evitare, in altri termini, che la prova presuntiva sia risucchiata in particolare dentro il principio del libero convincimento. La presunzione impone al giudice un procedimento logico di valutazione: non opera all'esterno del principio del libero convincimento, sottraendo spazio ad esso, ma all'interno del

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medesimo principio, disciplinandolo e così impedendo che sia in concreto declinato come dispositivo senza criteri e non controllabile, sostanzialmente rimesso alla valutazione intuitiva ed arbitraria del giudicante. La prova presuntiva ha un duplice destinatario: il primo è la parte, esigendo dalla stessa uno sforzo probatorio circoscritto alle cose normali ed agevolmente dimostrabili, esonerandola quindi, non dall'onere della prova, ma dall'ultimo anello della catena probatoria. Il secondo destinatario è il giudice, al quale chiede uno sforzo logico. Il giudice deve appurare se, accaduto un fatto, è normale o è più normale che non che ad esso segua il fatto in cui consiste il danno non patrimoniale.

Il primo elemento da valutare nel ricorso alla prova presuntiva va ravvisato nella normalità dell'inferenza che dal fatto noto conduce al fatto ignoto.

Il quid della prova presuntiva è la normalità. Quanto più il danno appare conseguenza normale di un fatto noto, tanto più il giudice deve fare ricorso alla prova presuntiva. Più è normale, più è presumibile. Il secondo fattore da considerare è la difficoltà probatoria. È frequente in giurisprudenza l'affermazione secondo cui per il danno non patrimoniale è

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“particolarmente rilevante il ricorso alla prova presuntiva trattandosi di accertare il pregiudizio ad un bene immateriale”.

La prova presuntiva non può essere aprioristicamente rifiutata dal giudice quando costituisce l'unico strumento di prova disponibile o quando altri mezzi di prova appaiono eccessivamente difficili sul piano processuale. Al riguardo è di rilievo la massima secondo cui

“per il principio della libera prova il giudice non può esigere, ove non sia imposto dalla legge, un mezzo di prova diverso da quello disponibile, salvo valutarne il risultato, una volta esperito, secondo il proprio prudente apprezzamento. E la prova per presunzioni è uno strumento normativamente concesso al giudice dagli art. 2727 e 2729 c.c., che permette di arrivare alla conoscenza di un fatto per il quale non sia possibile dare una diretta dimostrazione”

Peraltro la prova presuntiva non può costituire uno strumento per esonerare la parte dalla prova diretta quando questa sia possibile e, può aggiungersi, agevole. Quando è possibile ed agevole, va data prova diretta; in questi casi, la prova presuntiva può essere considerata inidonea, a meno che il nesso tra fatto noto e fatto ignoto attinga il grado della certezza o della quasi-certezza. Il

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principio opera anche all'interno del ragionamento presuntivo, nel senso che la parte ha l'onere di dare prova diretta di tutti i fatti, la cui prova è agevole idonei a rendere attendibile l'inferenza.

Un terzo elemento cui porre attenzione è la qualità dei beni compromessi.

A prima vista si direbbe che tale elemento non può incidere sull'utilizzabilità della prova presuntiva. Le prove, si potrebbe rilevare, operano sul piano cognitivo e non assiologico. Tuttavia di fronte a gravi compromissioni di beni fondamentali, anche sotto il profilo probatorio può non essere irrilevante il rischio del vuoto di tutela derivante dal mancato ricorso alla prova presuntiva, quanto meno quando la prova diretta è impossibile o difficile.

L'assunto potrebbe essere il seguente: quanto più importante è il bene compromesso, tanto meno tollerabile appare il rischio di vuoto di tutela, che può determinarsi a causa di uno standard probatorio troppo rigoroso. Tale assunto appare come una raffinata variante del danno in re ipsa che conferma il dato secondo cui le determinazioni dei giudici, anche in punto di prova, sono condizionate da considerazioni di tipo valoriale.

A questo punto si ritiene opportuno segnalare un recente indirizzo giurisprudenziale che, introducendo tra i pregiudizi scaturenti

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dal demansionamento la lesione del «quotidiano diritto di professionalizzarsi lavorando», sembra facilitare in maniera significativa, pur formalmente richiamandosi all'insegnamento delle Sezioni Unite del 2006, l'onere probatorio a carico del lavoratore.

Tra le pronunce più rappresentative sul punto, si evidenzia la sentenza della Cassazione n. 12253 del 12 giugno 2015, n. 12253, la quale, occupandosi del demansionamento di una annunciatrice televisiva rimossa dall'incarico e posta in situazione di pressoché assoluta inoperosità, ha statuito che “il divario rispetto ai compiti in precedenza assolti, sconfinante nella totale erosione delle funzioni, unitamente alla durata della dequalificazione, con un depauperamento che si aggrava vieppiù con il decorso del tempo, rendono plausibile il convincimento espresso dal giudice del merito circa l'esistenza di un danno inferto alla professionalità della lavoratrice, atteso che la duratura assegnazione a mansioni non equivalenti ha impedito alla stessa di esercitare il quotidiano diritto di professionalizzarsi lavorando, cagionando, secondo un criterio eziologico di normalità sociale, il progressivo impoverimento del suo bagaglio di conoscenze e di esperienze, con pregiudizi attinenti allo svolgimento della vita professionale del lavoratore”. I giudici di legittimità, quindi, avuto esclusivo riguardo alle modalità

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del demansionamento ed al suo perdurare nel tempo, hanno ritenuto corretto presumere una condotta datoriale dannosa, individuando il danno da risarcire nella lesione al giornaliero dispiegarsi dell'attività lavorativa, quale diritto idoneo a produrre una crescita automatica del bagaglio professionale del lavoratore.

Tale diritto, dunque, sembrerebbe non necessitare di una allegazione e di una prova concreta inerente alle possibilità di arricchimento perdute, ma il solo fatto di lavorare (ovvero non lavorare), senza poter utilizzare le proprie competenze e, implicitamente, depauperando il bagaglio acquisito, implica un nocumento meritevole di essere ristorato.

Allo stesso modo, facendo applicazione dei principi sopra esposti, la Corte di cassazione, esaminando la domanda risarcitoria avanzata da un lavoratore che da attività di natura tecnica era stato adibito a mansioni meramente esecutive, ha affermato che “dal riconoscimento costituzionale della personalità morale e della dignità del lavoratore deriva il diritto fondamentale di questi al pieno ed effettivo dispiegamento del suo professionalizzarsi espletando le mansioni che gli competono”, per poi concludere “la sentenza impugnata, seppur sinteticamente, indica gli elementi di fatto in base ai quali il giudice di merito ha ritenuto accertato

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un danno alla professionalità, avuto riguardo all'attribuzione di compiti esecutivi privi di particolare qualificazione, idonea non solo ad impedire il naturale sviluppo professionale, curato per anni anche con la partecipazione a corsi di formazione e addestramento, ma anche a compromettere irrimediabilmente il bagaglio di conoscenze tecniche già acquisite” ( Cass. n. 3422 del 2016).

Facendo leva nuovamente sul diritto a professionalizzarsi svolgendo le mansioni per le quali si è stati assunti, quale elemento di per sé idoneo ad arricchire, quotidianamente, le competenze del lavoratore, i giudici di legittimità, valorizzata anche la durata del demansionamento, hanno ritenuto sussistente la prova presunta di un danno di natura patrimoniale meritevole di essere risarcito.

Ancora, più recentemente, la Corte di cassazione ha avuto modo di confermare la decisione del giudice di prime cure di accertamento di un danno alla professionalità fondata esclusivamente sulla

“significatività della dequalificazione anche alla luce dell'elevato inquadramento dell'attore sulla continuità, sul progressivo accentuarsi e sulla lunga durata” (Cass. n. 330 del 2018).

Nel caso di specie, la Suprema Corte ha evidenziato che “il divario rispetto ai compiti di responsabile di un'agenzia bancaria in precedenza assolti, poi adibito “alla preposizione di un gruppo

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(privo di specifica esperienza) destinato a scomparire e tenuto in piedi per funzioni di parcheggio”, sconfinante nella totale erosione delle funzioni in quanto “collocato in una stanza da solo, privo di computer per mesi e di cose da fare”, unitamente alla durata pluriennale della dequalificazione, con un depauperamento che si aggrava vieppiù con il decorso del tempo, rendono plausibile il convincimento espresso dai giudici del merito circa l'esistenza di un danno inferto alla professionalità del lavoratore, atteso che la duratura assegnazione a mansioni non equivalenti ha impedito allo stesso di esercitare il quotidiano diritto di professionalizzarsi lavorando, cagionando, secondo un criterio eziologico di normalità sociale, il progressivo impoverimento del suo bagaglio di conoscenze e di esperienze”. Risulta evidente, quindi, come, nei casi sopra esaminati, la Corte di cassazione, senza mai tradire, sotto il profilo contenutistico, l'impostazione che vede il danno quale conseguenza dell'inadempimento datoriale, accolga una definizione di prova decisamente elastica, volta probabilmente a tutelare, in via semplificata, le fattispecie più gravi di violazione dell'art. 2103 c.c.

Infine si ritiene opportuno segnalare, sempre all'interno di fattispecie che possano comportare significative modifiche alle mansioni del lavoratore, la sentenza della Corte di cassazione del 18

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maggio 2012, n. 7963 , la quale, specificatamente, ha affrontato un'ipotesi in cui il lavoratore era stato posto in condizione di assoluta inoperosità. Il caso esaminato dai giudici di legittimità riguardava il demansionamento subito da un lavoratore a seguito della mancata reintegrazione nel suo posto di lavoro, con conseguente impossibilità dello stesso di prestare la propria attività lavorativa (Cass. n. 7963 del 2012). I giudici di merito, applicando i principi in ordine all'onere della prova in materia di demansionamento, avevano tuttavia escluso la risarcibilità dei danni lamentati dal lavoratore, sul presupposto che gli stessi erano privi di qualsivoglia allegazione e dimostrazione concreta.

Ebbene, di contro, la Suprema Corte, riformando la decisione dei giudici territoriali, ha osservato che “il comportamento del datore di lavoro che lascia in condizione di inattività il dipendente non solo viola l'art. 2103 c.c., ma è al tempo stesso lesivo del fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché dell'immagine e della professionalità del dipendente, ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza; tale comportamento comporta una lesione di un bene immateriale per eccellenza, qual è la dignità professionale del

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lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo e tale lesione produce automaticamente un danno (non economico, ma comunque) rilevante sul piano patrimoniale (per la sua attinenza agli interessi personali del lavoratore), suscettibile di valutazione e risarcimento anche in via equitativa”. Sicché, la Corte d'Appello non si sarebbe attenuta ai suddetti principi “ove ha escluso categoricamente che la forzata inattività conclamata possa essere di per sé fonte di danno, facendo riferimento, a supporto di tale statuizione, alla giurisprudenza di questa Corte riguardante la fattispecie del “demansionamento professionale” in senso proprio, la quale presuppone l'adibizione del lavoratore a mansioni inferiori rispetto quelle di appartenenza e, quindi, comunque lo svolgimento di una attività lavorativa. Si tratta, come è evidente, di una fattispecie diversa da quella che viene in considerazione nel presente giudizio, alla quale si applicano regole differenti anche per quel che riguarda il tipo di prova posta a carico delle parti”.

Nella significativa decisione in esame, quindi, si evidenzia come la Suprema Corte abbia differenziato ontologicamente il demansionamento, che presuppone comunque l'espletamento di

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una attività lavorativa, dall'assoluta inattività, distinguendo, altresì, il conseguente carico probatorio.

Tale orientamento non appare condivisibile: occorre a tal fine nell’ottica di una compiuta valorizzazione del principio della autonomia tra danno ed inadempimento un forte richiamo ai principi della sentenza a sezioni unite del 2006. A tal fine appare decisiva la motivazione adottata dalla Suprema Corte nella sentenza 31 maggio 2010, n. 13281, in una ipotesi in cui un laureato in informatica assunto come analista-programmatore era stato adibito a mansioni di tipo amministrativo consistenti nell'inserimento nel sistema informatico dei dati relativi al carico e allo scarico delle merci, mentre in precedenza aveva curato lo sviluppo di programmi per la gestione degli acquisti dei materiali, occupandosi degli aspetti informatici relativi alla pianificazione e alla produzione, ha rigettato la domanda di risarcimento del danno per mancanza di prova. Al riguardo la Cassazione ha ribadito il principio secondo cui “mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all'esistenza di una lesione dell'integrità psico-fisica medicalmente accettabile, il danno esistenziale - da intendere come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accettabile) provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri

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le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno - va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravita, conoscibilità all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro dell'operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti l'avvenuta lesione dell'interesse relazionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) - il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico - si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell'art. 115 c.p.c., a quelle nozioni generali derivanti dall'esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove” (Cass., sez. un., 24 marzo 2006, n. 6572).

Ha precisato la Suprema Corte che “non basta affermare che nel campo dell'informatica, in continua evoluzione, il mancato

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esercizio dei compiti qualificati inerenti al settore produce pregiudizio alla professionalità, ma occorre precisare fatti e circostanze da cui si possa almeno presumere che in concreto vi sia stata perdita di cognizioni acquisite nel precedente incarico, ovvero impossibilità di un necessario costante aggiornamento di

cognizioni e conoscenze.

Così pure, devono essere precisate le ragionevoli aspettative di progressione professionale pregiudicate dal datore di lavoro, siccome, in ordine al pregiudizio della carriera, onere di chi invoca la tutela risarcitoria è la precisazione di quali opportunità e ragionevoli prospettive di progressione, in relazione alla situazione concreta e alle caratteristiche dell'organizzazione imprenditoriale, siano state pregiudicate. Anche gli effetti negativi prodotti nelle abitudini di vita del soggetto devono essere specificamente individuati con riferimento ad eventi precisi. Soltanto l'indicazione di fatti concreti, infatti, consente di risalire coerentemente al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno”.

Inoltre va esaminata la motivazione della recente sentenza n. 5431 del 25 febbraio 2019: “questa Corte (cfr. Cass., S.U. 6572 del 2006;

Cass., S.U., n. 26972 del 2008), data la peculiarità del rapporto di lavoro cui ineriscono gli obblighi posti dagli artt. 2103 e 2087 c.c.,

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ha qualificato come inadempimento contrattuale la violazione degli obblighi di tutela della professionalità, della salute e della personalità morale dei lavoratori; ha tuttavia precisato (cfr. anche Cass. 25743 del 2018; n. 1327 del 2015; n. 19785 del 2010) come dall'inadempimento datoriale non derivi automaticamente l'esistenza del danno, non potendosi quest'ultimo ravvisare immancabilmente a causa della potenzialità lesiva dell'atto illegittimo. Deve quindi ribadirsi la distinzione tra

"inadempimento" e "danno risarcibile" secondo gli ordinari principi civilistici di cui agli artt. 1218 e 1223 c.c., quindi tra il momento della violazione degli obblighi di cui agli artt. 2087 e 2103 c.c. e quello della produzione del pregiudizio, nei differenti aspetti che lo stesso può assumere. Ciò proprio in ragione del fatto che dall'inadempimento datoriale possono derivare, astrattamente, una pluralità di conseguenze lesive per il lavoratore (danno professionale in senso patrimoniale, danno biologico, danno all'immagine o alla vita di relazione, sintetizzati nella locuzione danno cd. esistenziale), che possono anche coesistere l'una con l'altra, con conseguente necessità di specifica allegazione e prova da parte di chi assume di essere stato danneggiato. La prova del danno da demansionamento e dequalificazione professionale può

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essere data dal lavoratore anche ai sensi dell'art. 2729 c.c., attraverso l'allegazione di elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti, potendo a tal fine essere valutati la qualità e quantità dell'attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione (Cass. n. 25743 del 2018; n. 19778 del 2014; n. 4652 del 2009; n. 29832 del 2008). Con particolare riferimento al danno professionale di natura patrimoniale, si è precisato (SU. n. 6572 del 2006) come lo stesso possa consistere sia nel pregiudizio derivante dall'impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità, ovvero nel pregiudizio subito per perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno. Ma questo pregiudizio non può essere riconosciuto, in concreto, se non in presenza di adeguata allegazione, ad esempio deducendo l'esercizio di una attività (di qualunque tipo) soggetta ad una continua evoluzione, e comunque caratterizzata da vantaggi connessi all'esperienza professionale destinati a venire meno in conseguenza del loro mancato esercizio per un apprezzabile periodo di tempo.

Nella stessa logica anche della perdita di chance, ovvero delle

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ulteriori potenzialità occupazionali o di ulteriori possibilità di guadagno, va data prova in concreto, indicando, nella specifica fattispecie, quali aspettative, che sarebbero state conseguibili in caso di regolare svolgimento del rapporto, siano state frustrate dal demansionamento o dalla forzata inattività. La Corte di merito si è attenuta ai principi appena enunciati nel momento in cui ha addossato al lavoratore l'onere di allegazione e prova degli indici presuntivi del danno patrimoniale subito in conseguenza della inattività durata per circa un anno ed ha ritenuto non adeguatamente assolto tale onere, sul rilievo che lo stesso lavoratore avesse espressamente formulato la domanda risarcitoria come relativa ad un danno in re ipsa; circostanza quest'ultima riconosciuta nel ricorso principale in esame che, peraltro, nel fare riferimento alla allegazione, comunque, di "una serie di elementi di fatto concatenati e noti", ai fini della prova presuntiva del danno patrimoniale, descrive la carriera del D.S. fino al 2003, prima come calciatore poi come allenatore e infine come responsabile del settore giovanile alle dipendenze della S.S.L., senza in alcun modo evidenziare le conseguenze negative, in termini di perdita di professionalità in relazione al tipo di attività svolta o di possibilità di reperimento di nuovi lavori, connesse all'accertato

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inadempimento datoriale… Non è utilmente invocata dal ricorrente principale la sentenza di questa Corte n. 7963 del 2012 che definisce il comportamento del datore di lavoro che lascia in condizione di inattività il dipendente non solo in contrasto con l'art.

2103 c.c. ma al tempo stesso "lesivo del fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché dell'immagine e della professionalità del dipendente, ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza (e tale da) comporta(re) una lesione di un bene immateriale per eccellenza, qual è la dignità professionale del lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo", in quanto tali aspetti ineriscono tipicamente al danno non patrimoniale, nella componenti di danno morale ed esistenziale, separatamente riconosciute nella sentenza impugnata”.

LA QUANTIFICAZIONE DEI DANNI DA DEMANSIONAMENTO

In conclusione, risulta opportuno svolgere alcune osservazioni

anche in ordine alla quantificazione

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del danno da demansionamento, con particolare riferimento ai criteri utilizzati dalla giurisprudenza per la sua liquidazione.

Se, per quanto attiene al danno patrimoniale risultante, ad esempio, da differenze retributive ovvero dalla mancata corresponsioni di emolumenti preclusi dall'inadempimento datoriale, non sorgono particolari problematiche, è con riferimento al danno non patrimoniale che la giurisprudenza si è maggiormente interrogata, stante la difficoltà di attribuire un valore oggettivo al “fare areddituale del lavoratore, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazioni propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità” oppure al danno morale, inteso come sofferenza provocata dall’inadempimento datoriale.

E’ evidente che la liquidazione dei danni non patrimoniali dovrà avvenire senza incorrere in duplicazioni delle poste risarcitorie.

Ciò considerato, per sopperire alle difficoltà in ordine alla quantificazione dei pregiudizi derivanti da demansionamento generalmente intesi (e, quindi, sia per il danno di natura non patrimoniale attinente alla sfera esistenziale, sia anche per quelle componenti di natura patrimoniale il cui ammontare non può essere precisamente determinato a mezzo di operazioni matematiche,

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