• Non ci sono risultati.

Capitolo 3. Arte/Cultura/Creatività come “filler”

3.1 Arte/cultura/creatività

3.1.1 Questione terminologica

Il termine “arte” deriva dal latino ars (nell'antica Grecia “techne”) e designava il modo di eseguire destramente un lavoro osservando delle regole dedotte dalla tradizione e convalidate dall'esperienza. In senso lato dunque la capacità di agire e produrre secondo regole ed esperienze conoscitive e tecniche. L'arte così intesa nell'Antichità comprendeva l'arte della pittura, scultura, architettura, della ceramica, della sartoria, della geometria, della logica, della retorica. Oltre alle “belle arti” rientravano nella definizione tutte quelle attività legate al produrre, alla conoscenza delle regole, al sapere. Nel Medioevo con ars si intendevano le arti liberali, ossia la grammatica, la retorica, la logica, la geometria, la musica; la pittura e quelle che vennero poi definite “belle arti” non rientravano neppure in questa definizione, ma in quella di arti meccaniche, vulgares perché erano legate allo sforzo fisico. Tutti gli studiosi, filosofi - da Platone e Aristotele, passando per il Rinascimento in cui si definirono le “belle arti” (pittura,scultura, poesia, musica), fino alla nascita dell'Estetica nella seconda metà del Settecento con Alexander Baumgarten e Charles Batteux - disputarono sulla classificazione delle arti, sulla definizione e sulle caratteristiche, sui concetti di arte, bello, esperienza estetica, creatività, genio, gusto (Tatarkiewicz, 2006). Senza approfondire la storia del concetto dal punto di vista filosofico ed estetico (richiederebbe una trattazione ampia, non oggetto del presente studio), nel Rinascimento nasce la consapevolezza che arti quali la pittura, la scultura, la poesia e la

musica andavano distinte in quanto prodotti dal genio creativo; nel Settecento la teorizzazione del termine “belle arti”, include oltre alle precedenti l'architettura e la danza, e l'arte designava le attività e i prodotti della creazione del “bello” (l'artigianato rientrava tra le arti applicate); nell'Ottocento si riapre la questione sui criteri di appartenenza all'arte (volontà del genio libero o prodotto di regole, suscita emozioni o educa, deve avere una funzione o essere pura) e se i nuovi ambiti fotografia, cinema, architettura industriale, fossero da considerare arte o manufatti; fino al Novecento in cui si rinunciò ad una definizione chiusa per l'impossibilità di ridurre l'arte ad alcuna funzione. Con le avanguardie artistiche nasceva l'arte contemporanea e il concetto di “arte” tornò ad assume quel carattere ampio che aveva avuto in origine includendo tra le arti quelle visive, performative, dello spettacolo, del design, l'artigianato, della musica, dei film.

Anche per il tema “cultura” i diversi approcci, nel tempo, hanno prodotto numerosi concetti e definizioni della stessa. La radice del termine deriva dal latino colere, ovvero coltivare (riferita ad attività materiali ed immateriali), dalla quale deriva il significato di cura, educazione, acculturamento, conoscenza. Dalla stessa matrice etimologica latina deriva la parola culto, ovvero atto di venerazione, azione legata al sacro. Il termine “cultura” designa dunque, in antropologia, in etnologia e in sociologia, l'insieme dei valori, dei simboli, delle concezioni, delle credenze, dei modelli di comportamento e anche delle attività materiali che caratterizzano i modi di vita dei gruppi sociali (enciclopedia Treccani). Da una accezione individualistica del termine inteso come processo di formazione intellettuale del singolo individuo (ancora oggi permane questo significato riferendoci alla conoscenza di un particolare settore di unindividuo), si passa ad una concezione più allargata riferita al patrimonio (usi, costumi, valori, norme, attività) di un popolo. Il mutamento semantico dalla concezione illuministica di cultura come attività di tipo intellettuale alla concezione di cultura ampia di abitudini, modi di vita, conoscenze di una società, avviene all'interno dell'antropologia evoluzionista, trovando una definizione esplicita nel Primitive culture (1871) di E.B. Taylor48. All'inizio del '900 si ha un ulteriore passaggio dall'universalismo evoluzionista a quello relativista con Franz Boas, secondo cui la cultura rappresenta il complesso di “abiti” e prodotti materiali (di una comunità) legate alla loro peculiare espressione storica. Nel 1875, Matthew Arnoldo definisce la cultura

48 Secondo Taylor vi è una contrapposizione tra natura e cultura. La seconda comprende vari elementi (usi, costumi, norme, valori, conoscenze) che non sono determinati biologicamente, bensì appresi dagli individui e trasmessi socialmente.

“quanto di meglio è stato pensato e conosciuto nell'arte, nella letteratura, nella filosofia”, continua dunque a permanere accanto ad una definizione allargata antropologica una “ristretta”. Nel 1951 il sociologo Talcott Parsons definì la cultura come un sistema di simboli e significati, ovvero modelli di comportamento che la società ritiene validi e trasmissibili. La complessità di definire il concetto di “cultura” (come di “arte”) è dovuto alla metamorfosi che il termine ha assunto nel tempo in relazione alle diverse discipline (psicoanalisi, antropologia, sociologia, etnografia), determinando quell'allargamento e restringimento del campo semantico. Nel 1952 Kluckhohn e Kroeber (La Natura della Cultura, 1974) raccolgono 150 definizioni di cultura, da cui deducono undici categorie per sintetizzare la portata semantica del concetto: il modo di vivere di un popolo; l'eredità sociale che un individuo acquisisce nel suo gruppo di appartenenza; un modo di pensare, sentire, credere; un'astrazione derivata dal comportamento; una teoria antropologica sul modo in cui si comporta un determinato gruppo di persone; il sapere collettivo di un popolo; un insieme di orientamenti standardizzati per risolvere alcuni problemi; un comportamento appreso; l'insieme delle tecniche per adattarsi al proprio ambiente di riferimento; i meccanismi di regolazione normativa del comportamento; una matrice storica di un popolo. Queste categorie insieme rappresentano ciò che ancora oggi si intende con il termine “cultura”. Storicamente hanno contribuito a definire il concetto due serie di opposizioni: la prima vede una contrapposizione tra una visione ampia di cultura intesa come insieme di atteggiamenti mentali, norme, valori, credenze, rappresentazioni simboliche e quella ristretta che identifica il termine con le attività intellettuali e artistiche (musica, pittura, scultura, ecc), accezione in cui rientra anche l'“industria culturale”; la seconda opposizione che taglia trasversalmente la prima, vede da un lato l'analisi delle modalità di produzione, distribuzione e fruizione dei simboli e dall'altro quelle che si soffermano sul loro significato (Santoro, 1995). Cultura dunque come complesso di simboli, come sistema significante di un gruppo sociale, che genera dei processi socialmente condivisi che si possono studiare. La posizione assunta da alcuni studiosi di sociologia (Peterson, Anand) tende a superare queste dicotomie, tuttavia comprendendole senza eliminarle. Il polo cultura “alta” (d'élite) e “bassa” (popolare); e l'opposizione tra significato antropologico-sociologico di cultura come “modo di vivere”- sistema significante di tutte le attività sociali, e l'accezione ristretta riferita al solo ambito estetico, fino ad includervi le nuove forme di produzione culturale (fotografia, cinema, ecc.);

convergono nella prospettiva di produzione culturale (Santoro, 1995). In essa l'analisi non nega gli assunti tradizionali del rapporto cultura-società, piuttosto si concentra sui processi attraverso cui gli elementi specifici della cultura sono prodotti: creazione, commercializzazione, distribuzione, promozione, consumo di oggetti culturali. Peterson e Anand individuano sei ambiti interconnessi che influenzano il sistema di produzione culturale: la tecnologia di produzione, il sistema di leggi e regolamenti, la struttura dell'industria culturale, la struttura organizzativa, il quadro occupazionale e il mercato (Santoro, 2007). In questo senso “cultura” è il connubio di una dimensione immateriale – sapere, esperienze, elementi simbolici ed estetici – e una materiale – prodotti, organizzazioni, istituzioni, attori – di un territorio, di una comunità con le sue peculiarità storiche e geografiche. Su questo si ritornerà più avanti quando si tratterà della cultura come “valore aggiunto” e risorsa fondamentale per lo sviluppo economico e sociale. Anche in ambito europeo comunitario il termine “cultura” ha assunto una crescente rilevanza all'interno delle politiche, dei Trattati, e dei programmi dei fondi strutturali. In primis in ambito europeo si è sedimentata la nozione antropologica di cultura, nella sua accezione “inclusiva” comprendente i modi di vita e l'organizzazione di un popolo, ovvero la totalità del patrimonio culturale materiale e immateriale, trasmesso e ricreato da una generazione all'altra. Negli anni '90 si consolida il termine plurale di “culture” per sottolinearne l'intrinseca diversità delle identità all'interno dell'euro-zona. Con il Trattato di Lisbona (entrato in vigore il 1 dicembre 2009), nella quale il concetto pluralistico e dinamico di cultura è inteso come ricchezza (valori, competenze, tradizioni) delle diverse espressioni culturali che concorrono all'identità dei popoli, la Commissione europea definiva tre obiettivi: la diversità culturale e il dialogo interculturale (Programmi europei, capitale Europea della cultura); la “cultura” come catalizzatore di “creatività” per la crescita e l'occupazione (strategia obiettivo Europa 2020); la cultura come componente essenziale di sviluppo sociale-territoriale e di relazioni tra stati membri (Zagato, 2012). Anche il termine “creatività”, come i precedenti, è di complessa definizione in riferimento agli ambiti di applicazione disciplinari. Tra l'Ottocento e Novecento c'è chi l'ha messa in relazione all'economia in termini di industrie e servizi creativi (dalle industrie “dei contenuti” come l'editoria, al design, al settore informatico); chi l'ha analizzata in relazione alla struttura sociale urbana (la classe creativa di Florida); chi l'ha studiata in ambito linguistico, psicologico, psicoanalitico; chi in ambito estetico-filosofico l'ha concepita

come una facoltà del genio artistico (Santagata, 2009). L'origine del termine “creatività” ha a che fare con l'atto di “creazione”, inteso come qualcosa di nuovo, primigenio. Richiamando una dimensione divina, non fu applicato quasi mai in passato alle attività umane se non in ambito filosofico-artistico in riferimento ai grandi artisti e sopratutto in epoca romantica (il genio creativo rappresentava un'ispirazione divina che permetteva di creare senza regole, secondo il sentimento e la forza immaginativa). Solo in epoca moderna si è fatto un uso vasto del termine (a volte inappropriato, a volte anche abusato, specie nel contesto politico), accostando la parola “creatività” a qualsiasi settore e/o azione, assumendo il significato di originalità, capacità inventiva, disposizione mentale. Generalmente la creatività è stata definita dagli studiosi come l'insieme di atti, idee, che modificano un dominio esistente generandone uno nuovo; o come un funzionamento della mente che si attiva di fronte ad alcuni problemi trovando soluzioni ottime. Herbert Simon (1986) mettendo in relazione la “creatività” con l'ambiente esterno, sostiene:

Le azioni sono considerate creative quando producono qualcosa che sia originale, interessante o abbia valore sociale. Un elemento originale che sia interessante e di valore sociale rappresenta il fondamento della creatività49.

Dunque l' azione creativa come qualcosa di originale e che abbia valore in relazione al contesto sociale.

Charles Landry e Franco Bianchini nel libro The Creative City (1995) considerano la creatività come:

[…] il pensare un problema in modo nuovo e dai suoi principi primi; sperimentazione; originalità; la capacità di riscrivere regole, di essere non convenzionali, di scoprire tratti comuni tra cose che appaiono assolutamente differenti; di guardare alle situazione in maniera laterale e con flessibilità50.

Con “creatività” dunque si intende la capacità (individuale o di una società) di sperimentare, di trovare un modo nuovo ed originale di soluzione ai problemi, di creare collegamenti tra le cose.

49 Herbert Simon in Walter Santagata, Libro Bianco sulla creatività, Università Bocconi Editore, Milano, 2009, p.8.