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CAPITOLO I: stereotipi, pregiudizi e intolleranza Gli italiani negli Stati Uniti e l’immagine dell’italoamericano

1.2 La questione della whiteness

Pur nel tentativo di ricostruire una sorta di motivazione con fondamenti storici e legislativi rispetto all'insorgere e al perdurare di un sentimento anti-italiano negli USA tra XIX e XX secolo, ogni percorso descritto sin qui credo abbia al contempo una sua fondatezza ma, di contro, sia in parte incompleto.

La complessità di studiare un fenomeno come l'emancipazione degli immigrati italiani all'interno di un processo che li vede sia vittime che complici di intolleranze razziali, sta proprio nel fatto che queste due fasi non sono consecutive ma bensì sovrapponibili.

33 Le May, op. cit., p. 3 34 Vedi cap.IV

Le comunità italiane negli Stati Uniti non hanno infatti vissuto prima l'esperienza dell'esclusione e solo dopo hanno preso parte alla maggioranza escludente. No, hanno ambiguamente e soprattutto contemporaneamente tenuto il piede in due scarpe, finendo per zoppicare.

Come si diceva poco sopra infatti, lo stereotipo italiano, pur nascendo nel XIX secolo e rafforzandosi almeno fino alla Seconda Guerra Mondiale, resta presente nell'immaginario collettivo statunitense per tutto il '900 ed oltre. Le produzioni televisive cui si accennava ne sono la prova, così come il perdurare di azioni antagoniste condotte dall'OSIA nei confronti di molti mass media ed il contemporaneo elogiare gli obiettivi conquistati dagli italoamericani.

Questo accade poiché viene ritenuto fondamentale continuare a sottolineare che gli italiani hanno partecipato a far grande l'America, ma nell’evidenziare un po’ forzatamente questi pregi si sente in sottofondo un rumore di difetto, quasi sia necessario portare in primo piano aspetti positivi in contrasto con quelli negativi che ancora caratterizzano l'idea di italianità che si ha negli USA.

In questo lungo periodo di sovrapposizione tra essere discriminati e discriminare quindi, il tema della bianchezza è il centro del dibattito.

Questa centralità è dovuta essenzialmente a due fattori.

Il primo è tutto sommato di facile spiegazione: dal momento in cui non si viene considerati completamente bianchi in una società che riconosce piena possibilità di cittadinanza ai soli free white men, intolleranza ed esclusione divengono elementi quasi scontati nelle relazioni tra comunità.

Il secondo è forse di più difficile comprensione. Se infatti un gruppo sociale/etnico non è ritenuto bianco e quindi degno allo stesso modo degli american ethnics, dei Wasp, come può al contempo escludere altri individui, altre comunità che in un certo qual modo, se pur con gravità diverse, condividono lo stesso destino?

I due aspetti della questione possono essere spiegati al contempo, poiché sono profondamente intrecciati l'uno con l'altro.

Il tema della bianchezza, della whiteness come viene definita nella ricerca statunitense – l'unica ad essersene occupata in modo completo e complesso – è al centro di molte discussioni da diverso tempo, ma è con gli anni '90 del XX secolo che si comincia a far quadrare il cerchio.

Tra chi per primo ha voluto a proporre una lettura che tenga conto sia della questione del colore della pelle così come delle differenze etniche tra i diversi gruppi

sociali presenti negli USA, un ruolo chiave spetta a David Roediger.

Roediger ha proposto negli anni un'analisi che mette assieme alcuni elementi di fondamentale importanza, ovvero la gerarchia sociale che negli Stati Uniti avviene su base etnica/razziale e l'accesso al contesto lavorativo che ne deriverebbe.

L'origine di questa lettura risiede probabilmente in quel che lo stesso Roediger individua come elemento di base, ovvero che nella dialettica statunitense il concetto stesso di “lavoratore” è caratterizzato da due ulteriori specifiche: essere bianco e maschio 35. Va da se che l'essere nero – così come messicano, irlandese, donna –

escluda aprioristicamente dalla possibilità di definirsi un lavoratore, un working man. La conseguenza diretta è il non poter prendere parte alle istanze della classe lavorativa, esclusione che però in concreto non avviene. Oltre infatti ad esserci un sistema produttivo profondamente basato su lavoratori non-bianchi, dal momento in cui i flussi migratori si ingrossano per via dell'apporto di milioni di cittadini sud ed est europei, uno dei pilastri di questa distinzione vacilla, poiché entrano in gioco categorie intermedie.

Tant’è che l’esclusione non riguarda il mondo del lavoro tout court, al quale tutti in maniera diversa prendono parte se pur in livelli gerarchici assai differenti, quanto che non vi sia possibilità di rientrare nei benefit che ne conseguono, primo fra tutti l’iscrizione ai sindacati.

Essere dentro alle unions significava poter accedere a diritti, condizioni di lavoro migliori, possibilità di sedersi ai tavoli della contrattazione. Essere invece fuori voleva dire non contare nulla. Gli afroamericani, così come molti immigrati, non sono ammessi proprio in virtù del colore della pelle o della propria provenienza. La questione della lotta di classe diventa, negli USA, una questione di lotta di razza rendendo particolarmente difficoltoso distinguere dove inizia una e dove finisce l’altra 36.

Ed in questa complessità entra di prepotenza un ulteriore elemento, ovvero la presenza tra i lavoratori di figure considerate ibride.

Se infatti Roediger dedica buona parte della sua ricerca alla complessa storia dei lavoratori afroamericani 37, è nel momento in cui propone un nuovo concetto che il

35 David R. Roediger The Wages of Whiteness. Race and the Making of the Amercan Working Class, Londra- New York, terza edizione 2007, p.19

36 Herbert Hill, The Problem of Race in American Labor History, Reviews in American History, vol. 24, n° 2 06/1996, pp. 189 - 208

37 Si vedano ad esempio David R. Roediger, Elizabeth D. Esch The Production of difference. Race and the Management of labor in U.S. History, New York 2012 e David Roediger, Toward the Abolition of Whiteness. Essay on Race, Politics and Working Class History, Londra – New York, 1994

suo contributo diviene fondamentale qui, anche perché ci concede di ampliare la riflessione uscendo dal terreno della labor history, in cui lo storico statunitense colloca pressochè ogni suo ragionamento riguardo razza/etnia/bianchezza/diritti.

In un saggio del 1997, David Roediger e James Barrett, riprendendo un termine che, già comparso in Strangers in the Land di John Higham nel 1955 e poi di nuovo in un articolo di Robert Orsi per American Quarterly del settembre 1992, necessitava di una definitiva spiegazione: l’idea di inbetween people 38, intendendo con questo

termine i gruppi etnici che nella “visione” razziale statunitense non hanno una collocazione definita, ascrivibile alle due categorie white-man – black-man.

Questa condizione, non concede una stabilità da un parte o dall'altra su quella linea del colore di cui aveva ampiamente ragionato William Edward Burghardt Du Bois ad inizio ‘900, definendolo il problema del XX secolo 39.

Così come la questione della bianchezza, anche il concetto di linea del colore si rivela essere parte integrante in questa non semplice discussione. È la separazione tra persone dalla pelle chiara e persone dalla pelle scura, che avviene in ogni Paese del mondo dove si hanno divisioni 40. Ma alla inconsistenza di una separazione culturale,

si affianca negli USA, prima nel sud e pian piano anche nelle città del nord – che accoglieranno, a modo loro naturalmente, gli afroamericani che emigrano dalle piantagioni in cui erano stati schiavi con le proprie famiglie – una separazione fisica. Interi quartieri destinati alla sola abitazione dei bianchi così come dei soli neri. A Chicago, la Black Belt era la zona del South Side dove erano confinati gli americani di ascendenza africana. La linea a questo punto non cambia ma più semplicemente si amplia di significato.

Per ciò che riguarda gli italiani, non si tratta per così dire di uno status meticcio, da stabilirsi su base biologica, quanto piuttosto di una oggettiva impossibilità ad identificare in maniera univoca un determinato gruppo. Ciò si verifica poichè i nuovi immigrati, provenienti dal sud come dall'est Europa, vengono collocati nella gerarchia sociale non solo sopra agli afroamericani – che risulteranno per molti decenni l’ultimo gradino – ma al contempo sotto i bianchi, gli american ethnics, perché di questi ultimi non possiedono caratteristiche imprescindibili: la lingua, la fede religiosa e soprattutto un’ascendenza centro-nord europea.

38 James R. Barrett, David R. Roediger, How White People Became White. In R. Delgado, & J. Stefancic, Critical White Studies: Looking Behind the Mirror Philadelphia 1997, pp. 402-406.

39 W.E.B. Du Bois, The Soul of Balck Folks, Oxford 2007. 40 Ivi, p. 15.

Gli italoamericani sono probabilmente il gruppo che più di altri risente di questa confusione.

Come si diceva poco sopra, già la Dillingham Commission aveva contribuito a creare una parte dell'ambiguità, non accorpando gli italiani in un unico gruppo, come avrebbe avuto senso fare data la medesima appartenenza nazionale, ma suddividendoli tra nord e sud e caratterizzandoli in maniera differente, affidando alla genetica, quindi alla biologia, la presenza o meno di caratteristiche comportamentali. A questi fattori si associavano questioni culturali, religiose, linguistiche, così da conferire al termine “razza” una molteplicità di significati e al tempo stesso una incredibile varietà di possibili interpretazioni41.

Questa presunta scientificità era inoltre avvalorata da altri enti governativi, che operano in anni precedenti così come successivi al lavoro della Commissione, come l'Immigration Service e la Pubblic Healt Service all'interno dei quali gli impiegati in agivano su “base scientifica”, determinando con le loro scelte il destino di chi tentava di entrare sul suolo americano42.

Entra in gioco, e lo vedremo meglio più avanti, la selezione su basi scientifiche, che in prima istanza esclude al momento dell’ingresso e, per i più fortunati che riescono ad infrangere la barriera d’accesso, ha comunque un impatto sul destino di chi riesce a passare la selezione.

L'ambiguità di cui si fa portatore il concetto di inbetween people è quindi molto complesso. Ad esempio su di un piano normativo, anche in fase di naturalizzazione entrano in gioco dettagli di cui si fatica a comprendere la reale utilità. Quando ad esempio la scrittrice ed intellettuale Louise Desalvo si ritrova tra le mani il certificato di naturalizzazione della nonna, divenuta in età avanzata cittadina americana, si stupisce nel leggere come l'ufficiale preposto abbia compilato due campi in maniera antitetica. Dove vi era da segnare il colore compare white, mentre in corrispondenza di carnagione – complexion – trova scritto dark.

Lo stupore della Desalvo non è tanto relativo all'apparente contrasto di queste due definizioni, ne tanto meno da quale strana e complessa legislazione sia derivato il modulo da compilare. Il suo dubbio maggior è su come l'ufficiale, su quale base diremmo, abbia attribuito questa carnagione scura alla nonna. Escludendo che vi sia stata una volontaria dichiarazione della donna così come che l'impiegato lo abbia

41 Amy L. Fairchild, Science at the Borders: Immigrant Medical Inspection and the Shaping of the Modern Industrial Labor Force , Baltimora 2003, pp. 190-220

chiesto direttamente, quel che resta è vi sia stata una deduzione, mettendo assieme alcune caratteristiche del richiedente, ovvero essere di origini italiane e soprattutto del meridione:

<< […] Qui, dunque, su un documento che mia nonna ha conservato fino alla morte, che mia madre ha conservato fino alla morte, che io conserverò fino alla morte, c’è la prova che la bianchezza della mia gente era provvisoria, che i rappresentanti del governo usavano il loro potere per creare e non per documentare la differenza nell’aspetto fisico>>43.

La condizione di inbetweeness emerge nell'intera storia dell'emigrazione italiana negli USA. Proprio per questo il termine avanzato da Roediger e Barrett è di fondamentale importanza per lo studio dei processi di emancipazione che si stanno approfondendo in questo capitolo.

Nell'articolo del 1997 si trova citata una delle interviste dell'ICOHP, realizzata a Joseph LoGiudice, che abbiamo già incontrato prima. È uno dei passaggi che più spesso si trovano, uno dei pochi ripresi dalle diverse testimonianze del progetto, anche perchè probabilmente uno dei più densi di significato.

LoGiudice riporta un ricordo d'infanzia, dopo la Prima Guerra Mondiale, quando viveva tra Oak Street e Townsend

« […] a man running down the middle of a street and hollering “I'm white, I'm white”. That I remember. But he was so dirty that he thought people would mistake him for being colored and shoot him down. And...but actually he was a coal worker » 44.

Essere bianco è di fondamentale importanza, essere nero è visto addirittura come un rischio per la propria incolumità. Ma stare nel mezzo, non avere una collocazione ben precisa posiziona gli immigrati italiani ad un crocevia, dove non è scontato quale strada intraprendere anche perchè, lo abbiamo visto, vi sono situazioni in in cui non è l'immigrato a decidere.

Soprattutto non c'è chiarezza relativamente a come si è definiti, percepiti. Questo accade in quanto la bianchezza non è obiettiva, ma risulta essere un aspetto che si acquisisce, diventare bianchi e divenire americani si intrecciano.

43 Louise DeSalvo, Colore: bianco/carnagione: scura, in Guglielmo-Salerno, op. cit., pp. 17- 28 44 LoGiudici, p. 2

<< No one was white before he/she came to America>>45, affermava lo scrittore ed attivista afroamericano James Baldwin; così fanno anche Roediger e Barrett e come loro Matthew Frye Jacobson , uno dei più attenti interpreti di questa tematica.

È infatti in uno studio dello stesso Jacobson 46che si possono ritrovare pressoché

tutti gli elementi necessari per comprendere non solo come si sia evoluta tale idea – o ideologia? - ma anche come questa abbia influenzato i processi di inclusione degli immigrati europei, inclusi gli italiani.

Anche in questo caso, mi preme sottolinearlo, non si ravvisano molti studi italiani che abbiano messo su di un medesimo piano d’analisi la parabola dell’esperienza italoamericana e la questione della bianchezza. Non intendo qui che non si sia tenuta in considerazione l’arbitrarietà, influenzata dai molti fattori che già si sono visti, con cui gli immigrati italiani vennero talvolta inscritti in una categoria ibrida, come quella di in-between people, altre volte addirittura più pienamente apparentati agli americani di ascendenza africana 47. Mi riferisco più concretamente a riflessioni

dedicate alla comprensione di come questo aspetto della storia dell’immigrazione italiana negli USA non sia stato considerato imprescindibile dalla storia stessa. È un ragionamento complesso, che deve tenere assieme, tra l’altro, il disinvolto utilizzo di termini quale “razza”, “etnia” e molto meno spesso “nazionalità”, che si accompagnano ad altri due, ovvero “colore” e “carnagione”, che abbiamo già incontrato. I due rischi maggiori in cui potrebbe però incappare sono da un lato ritenere casuale l'utilizzo di un termine anziché un altro, vedendoli come intercambiabili o semplicemente soggetti ad una arbitrarietà ingiustificata. Disinvolto infatti non significa fortuito. Allo stesso tempo, ed è questo il secondo rischio, non si deve nemmeno fraintendere oltre misura il significato che, oggi, attribuiamo a questi termini, ritenendoli fuori luogo e politicamente scorretti. La questione è molto più complicata di come può sembrare, prefigurando un orizzonte davvero complesso in cui muoversi.

Proprio per via di questa difficoltà nello stabilire una linearità di riflessione attorno all'argomento, è di stretta utilità tenere in conto tutto quanto attiene al tema della bianchezza, che si può pienamente considerare il contenitore in cui ricade quel

45 James Baldwin, On being White and Other Lies, in David R. Roediger, Black on White. Black Writers on what it Means to be White, New York 1998, p. 178

46 Matthew F. Jacobson, Whiteness of a Differenti Color. European Immigrants and the Alchemy of Race. Cambridge 1999

47 Si veda Stefano Luconi. Black Dagoes? Italian Immigrants’ Racial Status in the United States: an ecological view. In Journal of Transatlantic Studies, 07/2016, pp. 188-199

che si è già menzionato. E, sempre per questo motivo, l’assenza o quanto meno l’esiguità di ricerche negli studi italiani è un tassello mancante non di poco conto.

Per avere più chiaro perché ritenga così rilevante la whiteness quale elemento cardine per la piena riuscita nello sviluppo delle basi teoriche di questa ricerca, gli studi di Matthew Frye Jacobson sono da ritenersi indispensabili, configurandosi come il macroinsieme capace di raggruppare il resto.

Una delle prime distinzioni, o meglio ancora chiarimenti che è necessario fare, è che il tema della whitness è il tema della razza. Mi spiego: il colore della pelle è su di un piano, la bianchezza dell'individuo su di un altro. Il primo è riferibile ad una condizione obiettiva, dovuta alla pigmentazione della cute. È qualcosa di dato per sempre, sin dalla nascita. Già la Dillingham Commissison ad esempio, pur descrivendo i siciliani quale gruppo la cui pelle era scura, si premurava di sottolineare come non appartenessero ad una razza diversa da quella del resto degli italiani. Non è quindi in questo senso che il termine white veniva utilizzato nonché stigmatizzato da James Baldwin, ma in quanto radice di ben altro, di quella bianchezza che, invece, si acquisisce.

Whitness è per tanto una condizione che si lega alla razza, modificandone altresì il significato attraverso uno slittamento che porta da una situazione innata – essere ad esempio italiano – ad una che si deve acquisire, la bianchezza.

Non si nasce infatti, negli USA, bianchi ma lo si diventa, nel senso appunto che se da un lato c'è una condizione obiettiva di colore della pelle, dall'altra quel colore non è sufficiente ad essere un free white man negli Stati Uniti, tant'è che << one might be both white and racially distinct from other whites >> 48.

Sempre da una distinzione arriva poi un secondo elemento utile. Oltre a Roediger, Jacobson ricorda come anche Theodore Allen, sociologo statunitense, si sia occupato della questione della bianchezza ponendola in relazione alla razza 49. Secondo

Jacobson però, in entrambe i casi bisogna porre attenzione a dove si colloca la questione della whiteness, poiché sia la lettura in chiave di labour history di Roedigher che quella più economica di Allen restano troppo in superficie, non vanno fino in fondo e per questo non sono in grado di fornire una spiegazione esaustiva50.

Non è quindi sufficiente intendere la bianchezza quale privilegio per poter accedere a benefici sul piano lavorativo e conseguentemente economico, bisogna

48 Jacobson, op. cit., p. 6

49 Teodhore Allen, The Invention of White Race, 2 voll. New York 1994 50 Jacobson, p. 17-18

piuttosto comprendere che divenire bianchi significa accedere ad una piena partecipazione sociale, politica. In poche parole essere accettati completamente, diventare americani.

Così come per il pregiudizio anti-italiano, anche per l'affermarsi della questione della whiteness ci sono dei riferimenti di tipo storico, una periodizzazione insomma, che risulta utile per poter inquadrare meglio come gli immigrati italiani vi trovino collocazione.

La prima fase si è in parte già accennata. Quando infatti, sul finire del XVIII secolo, le colonie che si erano confederate stabiliscono alcuni punti fermi per chi decida di stabilirsi nel Paese, pur richiedendo pochi requisiti tra cui risiedere sul territorio degli Stati Uniti per almeno un anno, giurando davanti ad un magistrato la volontà di farlo con fedeltà, i nuovi arrivati sarebbero comunque soggetti alla regola “suprema” di dimostrarsi free white person. Il diritto a divenire cittadino degli USA è subordinato all'essere bianco, quanto per white non si intenda, come detto, il colore obiettivo della pelle ma piuttosto quello che viene attribuito di volta in volta. Poiché è il significato stesso del termine che è di difficile interpretazione. Con ogni probabilità si poteva considerare white person chiunque fosse abilitato a divenire cittadino, ed era considerabile tale solo chi, maschio, << could help put down a slave rebellion or partecipate in Indian war >> 51 .

Già da questo momento è chiaro come, per stabilire chi sia bianco e quindi adatto a diventare un libero cittadino americano, sia necessario stabilire chi resterà al di fuori di questa categoria, dovendo per tanto individuare “l'altro” cui opporsi, e questo “altro” sono gli schiavi provenienti dall'Africa e i nativi che ancora popolano ampie