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Potrebbe forse sembrare strano il fatto che, nel bel mezzo di un’argomenta- zione puramente dialettica e razionale, ci sia il richiamo a una realtà che per- tiene all’ambito dell’irrazionalità, come può essere il caso di un bambino che ha paura dei mostri o il caso dell’incantamento, l’unico modo per calmarlo e convincerlo. Possibile che il metodo per combattere la sua paura sia qualcosa di altrettanto irrazionale?

In questa sezione approfondirò le tre parti di cui si compone l’immagine, ovvero bambino, mostri e incanto.

Il ‘fanciullino’

In questo capitolo mi ripropongo di analizzare l’immagine del fanciullo, dai motivi della scelta alle conseguenze del suo utilizzo.

Prima di tutto il fanciullo evoca concetti di purezza, di ingenuità, di speranza, ma anche di mancanza di responsabilità, incapacità di comprensione. Le ca- ratteristiche nell’antichità sono chiaramente sia positive che negative. I bam- bini venivano visti come fisicamente e mentalmente deboli, incapaci, man- chevoli di coraggio, sono ingenui e facili da persuadere. Da Platone e Aristo- tele vengono spesso accostati alle donne, agli schiavi e agli animali, ma anche ai malati, agli ubriachi, ai malati di mente e ai malvagi. Ci sono però anche caratteristiche positive a loro attribuite: fisiche, come il loro profumo e la loro morbidezza, ma anche psicologiche, come la malleabilità della loro mente80. Troppo difficile sarebbe in ogni caso tirare le fila di un discorso che spazia dai ritrovamenti archeologici alle fonti letterarie, per dipingere tutte le sfu- mature che il fanciullo poteva avere nell’immaginario di Platone e dei suoi contemporanei81.

80 cfr. Golden (1990), 5

81 Bastino i riferimenti agli ottimi studi di Golden (1990) sui concetti di bambino e di

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Sicuro è che l’immagine qui proposta da Platone assomma in sé caratteristi- che sia positive che negative. Quelle negative sono senza dubbio la credulità e l’ingenuità, che portano all’aver paura di qualcosa di facilmente smasche- rabile, mentre le caratteristiche positive sono la genuinità della mente del bambino, ancora malleabile e tutta da formare.

La mente del bambino è quindi facile da modellare e da convincere con l’in- canto del fatto che non ci sia nulla di cui aver paura, così come dovrebbe esser semplice convincere i discepoli con argomenti razionali.

Se entriamo dentro al procedimento stilistico e letterario e ne analizziamo le singole parti, possiamo anche provare a cambiare i tasselli che lo compon- gono, per scoprire quali meccanismi facciano funzionare l’immagine. Quest’analisi dal sapore vagamente strutturalista82 ha l’unico scopo di fare riflettere sui meccanismi che si mettono in moto nella creazione di un’imma- gine letteraria a cui sono sottesi dei contenuti filosofici83.

Ad esempio, se la paura del dissolvimento dell’anima va combattuta, perché allora non scegliere un parallelo diverso, come un nemico da uccidere? Per quanto possa essere efficace – e ne sono esempio i molteplici modi di dire legati a lessico bellico, come vincere o combattere le proprie paure – è piuttosto lontano dal concetto che vuole esprimere Platone. Il punto di partenza è che le paure vanno educate con la ragione e non sgominate con la forza, perché la riflessione e la persuasione sono processi sotterranei, sottili in senso eti- mologico: avvengono sotto l’ordito evidente del dialogo e non possono es- sere diretti e improvvisi come un fendente di spada.

82 In senso lato: ogni elemento ha un suo significato, che però risalta maggiormente

e acquista un significato più completo dall’accostamento di quelli che gli stanno in- torno

83 Gli esempî che propongo sono da intendere solo come tali, scelti tra miriadi di altri

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Così si decide di creare un’immagine più complessa, dove non si trova sem- plicemente una paura di un certo tipo, ma si trova un soggetto che ha paura in un certo modo.

Si può allora fare un tentativo diverso, ruotando il punto di vista e concen- trarsi più specificamente sul soggetto invece che sul processo astratto dell’avere paura, ovvero prestare attenzione non tanto al modo in cui si ge- stisce o si risolve la paura, quanto invece puntare su chi sia a provarla. La domanda da porsi dovrebbe quindi essere: “chi prova facilmente paura?” In questo caso viene scelto un bambino, ma al suo posto avremmo potuto mettere degli animali, anche notando con Aristotele che l’anima di un bam- bino non possiede grandi differenze rispetto a quella di un animale84. Si po- trebbe modificare l’immagine di Platone con animali come conigli o pecore, ad esempio, che non erano né sono reputati certo emblemi di coraggio. Tuttavia anche questo non rispecchia gli intenti di Platone, dal momento che la reazione di paura da parte degli animali, per quanto insensata, è dettata solamente dall’istinto. Gli animali reagiranno potenzialmente sempre allo stesso modo, senza imparare che ci sono paure con basi reali e altre invece infondate.

La domanda che ci siamo posti non è quindi sufficiente: Platone non sta cer- cando un referente generico della paura, ma sta cercando un mezzo per il suo obiettivo, ovvero la descrizione di un metodo di persuasione e di ricerca razionale. Perciò bisogna modificare almeno in parte la domanda, in: “chi prova facilmente paura, ma può essere convinto che non ce ne sia il biso- gno?”.

A questo punto l’unica risposta possibile è il bambino.

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Il bambino è il simbolo di una mente da formare e da educare, che si spaventa con facilità ma che al contempo è possibile anche consolare e convincere del fatto che non c’è da avere timore.

Si trova così ad essere il discepolo modello per eccellenza: malleabile e sem- plice da persuadere, il bambino è innocente nella sua ignoranza. Non è igno- rante perché non ha voluto formarsi, ma lo è perché ancora non ha avuto modo e tempo di farlo.

Adesso che si sono stabilite le motivazioni della scelta del bambino, è bene considerare perché sia stato scelto questo tipo di bambino, il παῖς, visto che la lingua greca è ricca di termini che indicano sfumature diverse dell’età in- fantile.

Il primissimo stadio è βρέφος, ma indica un neonato, più che un bambino, mentre il primo vero concetto per indicare il bambino è l’aggettivo νήπιος: se fosse etimologicamente connesso con il concetto di incapacità di articolare il linguaggio85, si potrebbe accostare all’infans latino. Il secondo significato dell’aggettivo – “folle”, “insensato” – è condizionato dal contesto: si utilizza infatti solo per definire degli adulti, che nel loro modo di fare o di reagire creano una dissonanza tra la loro età e l’infantilità del gesto. Per quanto l’uti- lizzo in questo secondo significato sia legato a un contesto ben definito, la seconda accezione dell’aggettivo denota una di quelle caratteristiche nega- tive a cui si faceva riferimento poco più sopra, legate alla mancanza di com- prensione e di ragionevolezza tipica dei bambini86. Inserire qui un bambino irragionevole, che non vuol sentire ragioni, sarebbe stato per Platone contro- producente, visto il parallelo che sta creando.

85 Cfr. Chaintraine s.v. νήπιος

86 Un esempio indimenticabile dell’utilizzo in questo senso è in Il. 16 1-11, dove

Achille rimprovera a Patroclo di piangere come una bambina. V. 7-8: τίπτε δεδάκρυσαι Πατρόκλεες, ἠΰτε κούρη/νηπίη

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Oltre a παῖς si trova il diminutivo παιδίον che insiste sul fatto di essere un bambino piccolo, non più di sette anni secondo Ippocrate87. Da considerare anche un dettaglio non trascurabile, cioè che prima dei sette anni non c’era formazione scolastica88. In ogni caso un diminutivo rischierebbe di rendere l’immagine troppo precisa e “familiare”, vanificando l’intento di Platone di proporre una situazione quanto più generica possibile.

A questo punto c’è il ben più maturo μειράκιον, l’adolescente: anche troppo maturo per dover essere incantato, ha ormai sviluppato una mentalità che non può più essere influenzata dalle favole di paura.

Si può quindi concludere che, nonostante la scelta di παῖς possa essere mo- tivata da un punto di vista lessicale, non è per forza necessario trovare questa motivazione al di fuori della generalità del concetto di παῖς, ovvero: il so- stantivo utilizzato da Platone indica un bambino generico, di mezzo, che è troppo piccolo per capire da solo concetti più grandi di lui ma che è allo stesso tempo già abbastanza grande per essere condotto al ragionamento e alla comprensione da qualcuno.

Oltre ai contenuti dell’immagine, da analizzare è senz’altro anche la forma.

87 LSJ s.v. παιδίον “up to 7 yrs., acc. to Hp. ap. Ph.1.26”. Il riferimento è per Ippocrate

presso Filone Giudeo, ma 1.26 non è chiaro a quale passo si riferisca. Si trova tuttavia un passo del De opificio mundi, 105, dove si trova una citazione di Ippocrate: ὁ δ’ ἰατρὸς Ἱπποκράτης ἡλικίας ἑπτὰ εἶναί φησι, παιδίου, παιδός, μειρακίου, νεανίσκου, ἀνδρός, πρεσβύτου, γέροντος, ταύτας δὲ μετρεῖσθαι μὲν ἑβδομάσιν, οὐ μὴν ταῖς κατὰ τὸ ἑξῆς. λέγει δ’ οὕτως· „Ἐν ἀνθρώπου φύσει ἑπτά εἰσιν ὧραι, ἃς ἡλικίας καλέουσι, παιδίον, παῖς, μειράκιον, νεανίσκος, ἀνήρ, πρεσβύτης, γέρων· καὶ παιδίον μέν ἐστιν ἄχρις ἑπτὰ ἐτέων ὀδόντων ἐκβολῆς· παῖς δ’ ἄχρι γονῆς ἐκφύσιος, ἐς τὰ δὶς ἑπτά· μειράκιον δ’ ἄχρι γενείου λαχνώσιος, ἐς τὰ τρὶς ἑπτά· νεανίσκος δ’ ἄχρις αὐξήσιος ὅλου τοῦ σώματος, ἐς τὰ τετράκις ἑπτά· ἀνὴρ δ’ ἄχρις ἑνὸς δέοντος ἐτέων πεντήκοντα, ἐς τὰ ἑπτάκις ἑπτά· πρεσβύτης δ’ ἄχρι πεντήκοντα ἕξ, ἐς τὰ ἑπτάκις ὀκτώ· τὸ δ’ἐντεῦθεν γέρων.“

88 Debarbieux (1990), 151: Le premier age de la vie, celui du παίδιον n’est pas encore

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La paura della dispersione dell’anima che viene introdotta da Simmia come paura tipica dei πολλοί89 diventa nella risposta di Socrate quella tipica dei bambini, tralasciando l’accenno ai “molti” e riferendosi invece esplicita- mente ai suoi due discepoli. Da queste basi si sviluppa la similitudine90 pro- posta da Cebete che diventa subito dopo nella replica di Socrate una meta- fora.

Si assiste perciò a una discesa in profondità, a una complicazione progressiva del testo da un punto di vista letterario, attuata per gradi in modo da per- mettere al fruitore di seguire l’immagine nel modo migliore possibile per af- ferrarne i referenti. L’utilità didattica di questa immagine infatti sta tutta nella semplicità di comprenderne i referenti, il fanciullino che sta all’uomo come la paura vana della maschera sta alla paura vana della morte.

Per quanto si possa essere tentati di definire questa immagine “allegoria” per il potere evocativo che possiede, il fanciullino dentro di noi resta comunque una metafora, giacché manca lo sviluppo narrativo tipico dei piani concet- tuali a cui rimanda l’allegoria.

La metafora è più spesso un meccanismo attraverso il quale si mettono in relazione due oggetti, anche facendoli stridere, con effetto immediato. Ma in questo caso si tratta di una metafora per così dire “densa”, perché si lega contemporaneamente a più significati, e non solo a due oggetti.

La presentazione dell’immagine del fanciullino è, se vogliamo, come un mito in scala, più limitato, snello e semplice, ma con delle caratteristiche ad esso facilmente collegabili: è un espediente letterario con un fine preciso, utile a persuadere, a insegnare, ha un effetto di piacevolezza spronando ad azioni

89 77b: εἰ μέντοι καὶ ἐπειδὰν ἀποθάνωμεν ἔτι ἔσται, οὐδὲ αὐτῷ μοι δοκεῖ, ἔφη, ὦ

Σώκρατες, ἀποδεδεῖχθαι, ἀλλ᾽ ἔτι ἐνέστηκεν ὃ νυνδὴ Κέβης ἔλεγε, τὸ τῶν πολλῶν, ὅπως μὴ ἅμα ἀποθνῄσκοντος τοῦ ἀνθρώπου διασκεδάννυται ἡ ψυχὴ καὶ αὐτῇ τοῦ εἶναι τοῦτο τέλος ᾖ.

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capaci di oltrepassare ogni tipo di persuasione razionale91 e precede un’espo- sizione dialettica.

Come il mito rischia di essere fonte di incomprensione se preso alla lettera, allo stesso modo anche questa immagine va analizzata solo in chiave meta- forica: non ritengo ci sia nessuna parte dell’anima chiaramente limitata che viene indicata come fanciullino, né tantomeno credo che fosse questo l’obiet- tivo di Platone, ovvero accennare a una suddivisione all’interno dell’anima. Ritengo invece che l’immagine sia qui proposta non tanto per mettere in evi- denza il soggetto della paura, quanto per spostare invece il riflettore sull’og-

getto della paura.

È l’oggetto infatti che importa davvero ai dialoganti, ovvero la paura della morte. Per dimostrare come sia priva di fondamento l’idea del dissolvimento dell’anima al primo soffio di vento dopo la morte del corpo, Platone la asso- cia alla paura delle maschere da parte degli unici che possono temerle. È in questo frangente che l’immagine del bambino risulta utile, ma resta su di un secondo livello, perché si tratta solo di uno strumento, subordinato al vero centro focale dell’immagine.

Evocare l’immagine del fanciullino è quindi collaterale alla presentazione della paura vana come paura delle maschere mostruose: un primo livello in- fluenza l’altro. Ai fini del messaggio che Platone vuole veicolare, il livello più importante è senz’altro la paura: è a quel nucleo che tende il discorso, e per presentare un’immagine completa di tutti i referenti, aggiunge il secondo livello, quello del soggetto, l’unico soggetto compatibile con la paura di ma- schere mostruose. Quello che bisogna cercare di andare a comprendere è l’hyponoia sottesa all’immagine proposta92.

91 Most (2012), 18: “capable of surpassing any form of rational persuasion”

92 Lear (2006), 27: “It is the deeper sense or hidden meaning: it is that which lies at

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Prendendo spunto dagli otto criteri proposti da Most93 per riconoscere il mito platonico, ho notato alcuni punti che potrebbero risultare interessanti ai fini di una nuova definizione non certo del passo in esame in qualità di mito, ma almeno di accostarne alcune caratteristiche per una comprensione che ne tenga conto.

Non è senza dubbio un monologo, né tantomeno trae le mosse da fonti orali, il paragone con i bambini è palese a tutti e facilmente verificabile, a diffe- renza dei miti, che non possono essere verificati empiricamente. Allo stesso modo non è la tradizione a rendere l’immagine autorevole, ma la consuetu- dine e la quotidianità: è una “favola creativa”94, l’opposto delle eredità della tradizione.

Tuttavia ci sono almeno due elementi che possono essere applicati facil- mente anche al passo del Fedone: il primo è che preceda o segua un’esposi- zione dialettica – e in questo caso rispetta entrambi i requisiti, visto che segue la dimostrazione dell’anamnesi e precede quella dell’affinità al divino, en- trambe sezioni intensamente dialettiche – mentre il secondo è l’effetto “psi- cologico” che viene sottolineato anche attraverso espedienti testuali che ri- mandano alla piacevolezza e che si trovano in corrispondenza di una sezione mitica come possiamo vedere in Prot. 320c (Δοκεῖ τοίνυν μοι, ἔφη, χαριέστερον εἶναι μῦθον ὑμῖν λέγειν.), in Symp. 193e (καὶ γάρ μοι ὁ λόγος ἡδέως ἐρρήθη), in Resp. X 614b (Λέγοις ἄν, ἔφη, ὡς οὐ πολλὰ ἄλλ' ἥδιον

Indeed, it is an “under-thought” in another sense: it enters the psyche beneath the radar of critical thought.” Cfr. LSJ s.v. ὑπόνοια

93 Most (2012), 24: (a) Myths are a monologue, which those listening do not interrupt;

(b) they are told by an older speaker to younger listeners; (c) they “go back to older, explicitly indicated or implied, real or fictional oral sources”; (d) they cannot be em- pirically verified; (e) their authority derives from tradition, and “for this reason they are not subject to rational examination by the audience”; (f) they have a psychologic effect: pleasure, or a motivating impulse to perform an action “capable of surpassing any form of rational persuasion”; (g) they are descriptive or narrative; (h) they pre- cede or follow a dialectical exposition. Per quanto queste otto caratteristiche non siano certamente riconosciute in modo compatto dalla critica, applicarle in modo flessibile potrebbe portare a dei risultati innovativi.

94 Betegh (2009), 79: creative fable – i.e., a narrative that is the product of imagina-

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ἀκούοντι.) e anche in Phd. 108d (ἡδέως οὖν ἂν ἀκούσαιμι). È presente in- fatti subito prima dell’introduzione dell’immagine anche in 77d (ὅμως δέ μοι δοκεῖς σύ τε καὶ Σιμμίας ἡδέως ἂν καὶ τοῦτον διαπραγματεύσασθαι τὸν λόγον ἔτι μᾶλλον).

Potrebbe essere una semplice suggestione, ma non bisogna certo per questo evitare di menzionare la possibilità di una simile interpretazione.

Sarebbe senz’altro esagerato dire che questa immagine ben delimitata sa- rebbe potuta diventare un mito, ma contiene comunque in nuce alcune carat- teristiche che possono avvicinare i due espedienti. Non verrà mai rimarcato abbastanza che in Platone concetti importanti o comunque con un significato cruciale per la comprensione approfondita dell’opera nel suo insieme ven- gono presentati con ausilio di simboli ed espedienti letterarî.

La progressiva complicazione dell’immagine equivale anche a un allontana- mento per gradi della paura da chi è accusato di provarla: Cebete.

Infatti un motivo per cui il personaggio Cebete fa riferimento a questa ‘entità’ all’interno di sé potrebbe essere la sola ragione di allontanare un poco da sé stesso l’idea della paura, insieme alla responsabilità di non saperlo scacciare, come se chi veramente avesse bisogno dell’incanto e dello speciale tratta- mento socratico non fosse proprio Cebete, ma “un qualche fanciullino” al suo interno95.

Tuttavia bisogna anche aggiungere che Cebete accetta il raffronto proposto da Socrate senza lamentarsene, non si sente sminuito96, ma anzi approfondi- sce e rilancia divertito l’immagine.

95 È questa l’interpretazione per esempio di Stern (1993), 74: «Cebes seems to want

to put some distance between himself and this fear»

96 Erler (2003), 112: “empfindet Kebes dies offenbar nicht als Herabsetzung; er pro-

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C’è psicologia del personaggio e attenzione allo spessore psicologico, alle motivazioni che giustificano gesti e reazioni dei partecipanti al dialogo, se si legge il passo in questo senso.

Se vogliamo seguire un’ulteriore suggestione, la metafora del fanciullino può forse essere comparata prima con la presenza fisica e poi richiamata dei figli di Socrate. Alla fine, infatti, quando viene chiesto a Socrate quali siano le sue disposizioni anche nei confronti dei suoi figli, assomma ogni richiesta ai suoi discepoli in un “niente di diverso da quello che dico di solito”, ἅπερ ἀεὶ λέγω, ἔφη, ὦ Κρίτων, οὐδὲν καινότερον. La richiesta di Socrate è una semplice esortazione, un protrettico ad avere cura gli uni degli altri.

Anche se a Critone può sembrare che Socrate non abbia fatto altro se non chiacchiere vuote per rincuorare allo stesso tempo gli allievi e sé stesso, παραμυθούμενος ἅμα μὲν ὑμᾶς, ἅμα δ᾽ ἐμαυτόν, è un’impressione errata dall’inizio alla fine, che si concretizza nella domanda su come dovranno sep- pellirlo, che sembra vanificare tutto quello che è stato discusso fino a quel momento.

La suggestione è perciò questa: possibile che sotto ai παίδες introdotti di nuovo in conclusione del dialogo si celino anche le paure dei suoi allievi? A favore di questa suggestione va senz’altro la risposta aberrante di Socrate (115b-c) che non fa riferimento alla sua famiglia di sangue ma a quella che ha creato con i suoi discepoli, oltre che quello alla cura di sé che richiama la μελέτη. ὅτι ὑμῶν αὐτῶν ἐπιμελούμενοι ὑμεῖς καὶ ἐμοὶ καὶ τοῖς ἐμοῖς καὶ ὑμῖν αὐτοῖς ἐν χάριτι ποιήσετε ἅττ᾽ ἂν ποιῆτε, κἂν μὴ νῦν ὁμολογήσητε: ἐὰν δὲ ὑμῶν μὲν αὐτῶν ἀμελῆτε καὶ μὴ 'θέλητε

Prendendovi cura di voi stessi, fa- rete cosa gradita a me, ai miei e a voi stessi, qualunque cosa facciate, an- che se ora non lo giurate: qualora non vi curiate di voi stessi e non vo- gliate vivere seguendo le orme di

48 ὥσπερ κατ᾽ ἴχνη κατὰ τὰ νῦν τε εἰρημένα καὶ τὰ ἐν τῷ ἔμπροσθεν χρόνῳ ζῆν, οὐδὲ ἐὰν πολλὰ ὁμολογήσητε [115ξ] ἐν τῷ παρόντι καὶ σφόδρα, οὐδὲν πλέον ποιήσετε

quel che abbiamo detto or ora e in precedenza, nemmeno se adesso giurate e spergiurate, farete qual- cosa di buono.

Un’altra interpretazione suggestiva è quella di Rowe97, che vede nell’imma- gine del fanciullino un gioco di Cebete: se le anime dovranno poi rinascere, questo non implica forse il fatto che dentro di noi c’è un potenziale bambino? I bambini vengono scelti come simbolo metaforico per trasferire un messag- gio paideutico anche da Lucrezio, che tuttavia sceglie le tenebre al posto dei mostri98. Le paure dei bambini sono paure vuote, prive di reale motivazione, che si risvegliano solo quando cala il buio, ovvero la mancanza di raziocinio. Quelle che di quando in quando colpiscono noi sono però più gravi, perché ci accadono alla piena luce del giorno, ovvero nonostante la ragione che ab- biamo sviluppato da adulti. L’utilizzo dell’immagine del bambino in questi passi gemelli è studiato da Erler99, che lo mette in relazione con una strategia comunicativa che si esprime in un rapporto terapeutico con il lettore. Come tutte le cose, si ha paura di ciò che non si capisce, perciò si deve cono- scere ed educare così quel bambino dentro di noi, perché ‘bambino’ significa prima di tutto mancanza di esperienza e necessità di educazione, com’era dopotutto inteso da Epitteto prima e da Simplicio poi.

97 Rowe (2010), n.76: «Cebes perhaps responds here with a joke of his own: if our

souls are to be reborn, into new bodies, won’t there be a potential baby in all of us?»

98 Lucr. II. 55-58 = III. 87-90 = VI. 35-38 99 Erler (2003)

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I μορμολύκεια

Nella traduzione “di servizio” che ho proposto nelle pagine precedenti, mi sono sempre riferita ai μορμολύκεια come all’”uomo nero” o ai “mostri”. In realtà queste entità sono qualcosa di diverso e di molto particolare. Fanno

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