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Il 'fanciullino' dentro di noi: paura e ragione in Phaed. 77e

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Academic year: 2021

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(1)

Dipartimento di Filologia, letteratura e linguistica

Corso di laurea in

Filologia e storia dell’antichità

T

ESI DI LAUREA

Il ‘fanciullino’ dentro di noi

Paura e ragione in Phaed. 77e

R

ELATORE

Prof. Mauro T

ULLI

C

ORRELATORE

Dott.ssa Maria Isabella B

ERTAGNA

C

ANDIDATO

Laura M

ARCHISIO

(2)

1

αὐτὰρ ἐμοὶ τὰ φίλ᾽ ἔσκε τά που θεὸς ἐν φρεσὶ θῆκεν ξ 227

(3)

2

S

OMMARIO

INTRODUZIONE ... 3

Testo e traduzione (77d 7-78a 9) ... 5

Storia del problema e della critica ... 7

Ricezione antica ... 7

Critica moderna ... 17

Deduzioni ... 22

L’IMPORTANZA DEL PASSO NEL SUO CONTESTO ... 24

Il tema trattato ... 33 La traditio lampadis ... 36 RAGIONE E IRRAZIONALE ... 38 Il ‘fanciullino’ ... 38 I μορμολύκεια ... 49 L’incantamento ... 55 CONCLUSIONI ... 65 BIBLIOGRAFIA ... 70

Edizioni, traduzioni e commenti... 70

Strumenti ... 72

(4)

3

I

NTRODUZIONE

In questa tesi mi propongo di analizzare una delle pagine più discusse del

Fedone e in particolare di trattare dell’immagine del ‘fanciullino’ dentro di

noi, esaminando motivazioni, obiettivi, significato e implicazioni di questo espediente letterario per la costruzione e il significato dell’intero dialogo. Dopo aver sottolineato l’importanza del passo anche in relazione alla sua posizione all’interno della struttura del dialogo, chiarendo il suo ruolo di in-termezzo, discuterò del legame tra l’immagine del fanciullino e quella dell’incantamento ad opera di Socrate, per dimostrare che entrambe concor-rono alla definizione della παιδεία socratica.

Il Fedone tratta delle ultime ore di vita di Socrate, passate in fitta conversa-zione con i suoi discepoli. Si trattano temi come il suicidio, di come il vero filosofo dovrebbe desiderare la morte, si discute dell’anima e del corpo, quindi si passa al tema dell’immortalità dell’anima. Cebete inizia a porre de-gli interrogativi sulla sostanza dell’anima, dal momento che alcuni hanno paura che sia come un soffio o fumo, e a quel punto è necessario procedere a diverse dimostrazioni (i contrari, la reminiscenza). Ma già s’incrina un poco la stringente dialettica per il primo emotivo inciso di Simmia, 76b10-12, sul fatto che l’indomani non ci sarà forse più chi saprà render conto dei ragiona-menti1. Socrate riesce a dimostrare che l’anima esiste anche prima di rina-scere con il corpo, ma non c’è un “uomo più ostinato a non dar fede ai ragio-namenti” di Simmia (77a8 ss.), perciò il maestro deve proseguire la dimo-strazione, ampliandola all’esistenza dell’anima anche dopo la morte del corpo. Tuttavia si accorge che Simmia e Cebete non sono così convinti e che, soprattutto, sembrano affetti dalla paura tipica dei bambini (δεδιέναι τὸ τῶν παίδων 77d7) che l’anima venga spazzata via da un alito di vento. A quel punto allora Cebete esorta Socrate a persuaderli non tanto come se fossero

1 Il lettore si può così preparare per la sezione poco lontana, oggetto dell’analisi qui

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4

loro ad avere paura, ma come se dentro di loro ci fosse un bambino spaven-tato da convincere a non aver paura della morte come degli spauracchi, i μορμολύκεια (77e2-7).

La risposta di Socrate è molto suggestiva: tutto quello che serve è incantare questo bambino ogni giorno (ἐπᾴδειν αὐτῷ ἑκάστης ἡμέρας 77e8) finché non sia del tutto convinto. La replica è immediata da parte di Cebete: dove mai potranno trovare un incantatore bravo come Socrate, ormai prossimo alla morte? “Ma l’Ellade è grande”, si sente rispondere, e i discepoli non si dovranno limitare a cercare un incantatore, senza fare economia nella ricerca, né in termini di spazio (giacché dovranno essere tenuti in considerazione an-che i barbari) né tantomeno in termini di dispendio di denaro e di fatica. In particolar modo non dovranno dimenticare di continuare la ricerca gli uni con gli altri, perché forse non sarà facile trovare qualcuno in grado di mettere in pratica l’incanto meglio di loro.

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5

Testo e traduzione (77d 7-78a 9)

Prima di dedicarmi al commento e all’analisi dell’immagine, è necessario presentare il testo integrale del passo, corredato dalla traduzione.

77d 7 e 5 78 5 ὅμως δέ μοι δοκεῖς σύ τε καὶ Σιμμίας ἡδέως ἂν καὶ τοῦτον διαπραγματεύσασθαι τὸν λόγον ἔτι μᾶλλον, καὶ δεδιέναι τὸ τῶν παίδων, μὴ ὡς ἀληθῶς ὁ ἄνεμος αὐτὴν ἐκβαίνουσαν ἐκ τοῦ σώματος δια- φυσᾷ καὶ διασκεδάννυσιν, ἄλλως τε καὶ ὅταν τύχῃ τις μὴ ἐν νηνεμίᾳ ἀλλ᾽ ἐν μεγάλῳ τινὶ πνεύματι ἀποθνῄσκων. καὶ ὁ Κέβης ἐπιγελάσας, ὡς δεδιότων, ἔφη, ὦ Σώκρατες, πειρῶ ἀναπείθειν: μᾶλλον δὲ μὴ ὡς ἡμῶν δεδιότων, ἀλλ᾽ ἴσως ἔνι τις καὶ ἐν ἡμῖν παῖς ὅστις τὰ τοιαῦτα φοβεῖται. τοῦτον οὖν πειρῶ μεταπείθειν μὴ δεδιέναι τὸν θάνατον ὥσπερ τὰ μορμολύκεια. ἀλλὰ χρή, ἔφη ὁ Σωκράτης, ἐπᾴδειν αὐτῷ ἑκάστης ἡμέρας ἕως ἂν ἐξεπᾴσητε. πόθεν οὖν, ἔφη, ὦ Σώκρατες, τῶν τοιούτων ἀγαθὸν ἐπῳδὸν ληψόμεθα, ἐπειδὴ σύ, ἔφη, ἡμᾶς ἀπολείπεις; πολλὴ μὲν ἡ Ἑλλάς, ἔφη, ὦ Κέβης, ἐν ᾗ ἔνεισί που ἀγαθοὶ ἄνδρες, πολλὰ δὲ καὶ τὰ τῶν βαρβάρων γένη, οὓς πάντας χρὴ διερευνᾶσθαι ζητοῦντας τοιοῦτον ἐπῳδόν, μήτε χρημάτων φειδομένους μήτε πόνων, ὡς οὐκ ἔστιν εἰς ὅτι ἂν εὐκαιρότερον ἀναλίσκοιτε χρήματα. ζητεῖν δὲ χρὴ καὶ αὐτοὺς μετ᾽ ἀλλήλων: ἴσως γὰρ ἂν οὐδὲ ῥᾳδίως εὕροιτε μᾶλλον ὑμῶν δυναμένους τοῦτο ποιεῖν.2

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6

« […] Tuttavia mi pare che a te e a Simmia piacerebbe occuparvi ancora un po’ di questo argomento, e che abbiate la paura dei bam-bini, ossia che in verità il vento la [scil. anima] possa spazzare via e disperdere nel momento in cui esce dal corpo; in particolar modo se ci si trovi a morire non con la bonaccia ma in una gran bufera.»

E Cebete, ridendo disse: «Prova a convincerci, o Socrate, proprio come se avessimo paura; anzi, ancora meglio, non come se fossimo noi ad aver paura, ma come se ci fosse un qualche fanciullino den-tro di noi che abbia paura di queste cose. È lui che dunque devi provare a convincere a non aver paura della morte come dell’uomo nero»

«Ma è necessario – rispose Socrate – incantarlo ogni giorno finché non l’abbiate incantato del tutto.»

«E dove mai, o Socrate, potremo trovare un buon incantatore per questi argomenti, una volta che tu ci avrai lasciato?»

«È grande la Grecia, Cebete, e vi sono brav’uomini. Ma altrettanto grandi sono anche le stirpi dei barbari, e bisogna che voi li scanda-gliate tutti quanti, andando alla ricerca di un incantatore di tal fatta, non badando né a spese, né a fatiche, perché non c’è cosa migliore nella quale voi possiate investire il vostro denaro. Bisogna poi che cerchiate tra di voi, gli uni con gli altri: giacché forse potreste non trovare facilmente qualcuno che sia in grado di far questo meglio di voi.»

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7

Storia del problema e della critica

Fare il riassunto delle posizioni critiche è sempre un ottimo punto di par-tenza per dare un’interpretazione completa e consapevole dei contributi pre-cedenti. La breve storia del problema che offro è divisa tra l’antico e il con-temporaneo, per non perdere di vista la ricezione del passo da parte di chi era più vicino cronologicamente e per considerare in che direzione invece si è spinta la critica moderna per l’esegesi e il commento di questo brano.

Ricezione antica

Quello che mi propongo di offrire con questo capitoletto introduttivo è una breve storia dell’immagine, del suo riuso e della sua comprensione nell’an-tichità.

Vista l’importanza e la fama del dialogo, questi capitoli sono stati oggetto di riflessione già nel mondo antico. Non potendo purtroppo usufruire di scolii3, né tantomeno di commenti nel senso ‘moderno’ del termine, dobbiamo in qualche modo fare affidamento su coloro che hanno ripreso dal Fedone l’im-magine del fanciullino impaurito per riutilizzarla: in questo modo infatti possiamo almeno comprendere in quale modo e con quali sfumature veniva recepita, anche se poi riadattata spesso ad altri scopi, una certa immagine o un determinato concetto.

In particolare della tematica del “fanciullino dentro di noi” spaventato dai “mostri” ci sono delle riprese posteriori che tradiscono la palese origine pla-tonica: mi riferisco in primo luogo a un brano di Epitteto, nel quale si riuti-lizza l’immagine facendo riferimento esplicito alla fonte, giacché Epitteto cita proprio Socrate, al commento di Simplicio a un passaggio del manuale di

3 Gli Scholia vetera non lasciano traccia di critica su questo passo, e tacciono anche gli

Scholia recentiora Arethae, che offrono solo brevi appunti di carattere sintattico o les-sicale; il commentario di Damascio attribuito a Olimpiodoro ha purtroppo una la-cuna da 74b a 78b. Per un buon punto della situazione sui commentarî antichi del Fedone cfr. Gertz (2011)

(9)

8

Epitteto, ma si trova anche un brano di Porfirio, una breve parte di un dia-logo di Enea di Gaza, un passaggio dal commentario di Elia alle Categorie di Aristotele e qualche riga di un’orazione di Temistio.

Alcuni passi denotano chiaramente un riutilizzo del passo del Fedone, ma anche un superamento che può essere approfondimento o cambio di dire-zione rispetto al messaggio sotteso all’immagine del fanciullino.

La ricezione di questa immagine può essere suddivisa in base alla modalità di riproposizione4: riutilizzo finalizzato a un nuovo contesto di riflessione personale dell’autore, anche associato a fini esegetici (Epitteto, Simplicio, Porfirio, Marco Aurelio, Enea, Elia e Psello) o puramente retorico-letterarî (Temistio). Il primo tipo di riuso consiste nella comprensione e nel nuovo adattamento di contenuti che, nel riferimento alla forma originaria, sono stati rielaborati. Il secondo tipo di riuso è invece un rimando alla forma originaria, senza andare oltre, senza un approfondimento dei concetti espressi, a fini retorici o di abbellimento formale.

Epitteto

Epitteto, vissuto a cavallo tra il I e il II secolo d.C., non scrisse nulla, ma il suo discepolo Arriano di Nicomedia trascrisse e pubblicò le sue lezioni, tra-mandate fino a noi sotto il titolo di Dissertazioni (o Διατριβαί). La filosofia di cui Arriano fa tesoro è quella stoica, e che non può fare a meno di attin-gere alla razionalità di Socrate. In questo passo, Diss. 2.1.15 ss., affronta la paura della morte e del dolore, dimostrando come siano paure del tutto ir-razionali.

ταῦτα δ᾽ ὁ Σωκράτης καλῶς ποιῶν μορμολύκεια ἐκάλει. ὡς γὰρ τοῖς παιδίοις τὰ προσωπεῖα φαίνεται

E queste cose ha fatto bene Socrate a chiamarle “mostri”. Come infatti ai

4 Non mi porrò l’obiettivo di dimostrare se e quanto sia cosciente il riutilizzo da

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9 δεινὰ καὶ φοβερὰ δι᾽ ἀπειρίαν, τοιοῦτόν τι καὶ ἡμεῖς πάσχομεν πρὸς τὰ πράγματα δι᾽ οὐδὲν ἄλλο ἢ ὥσπερ καὶ τὰ παιδία πρὸς τὰς μορμολυκείας. [16] τί γάρ ἐστι παιδίον; ἄγνοια. τί ἐστι παιδίον; ἀμαθία. ἐπεὶ ὅπου οἶδεν, κἀκεῖνα οὐδὲν ἡμῶν ἔλαττον ἔχει. [17] θάνατος τί ἐστιν; μορμολύκειον. στρέψας αὐτὸ κατάμαθε: ἰδοῦ, πῶς οὐ δάκνει. τὸ σωμάτιον δεῖ χωρισθῆναι τοῦ πνευματίου, ὡς πρότερον ἐκεχώριστο, ἢ νῦν ἢ ὕστερον. τί οὖν ἀγανακτεῖς, εἰ νῦν; εἰ γὰρ μὴ νῦν, ὕστερον. [18] διὰ τί; ἵνα ἡ περίοδος ἀνύηται τοῦ κόσμου: χρείαν γὰρ ἔχει τῶν μὲν ἐνισταμένων, τῶν δὲ μελλόντων, τῶν δ᾽ ἠνυσμένων. [19] πόνος τί ἐστιν; μορμολύκειον. στρέψον αὐτὸ καὶ κατάμαθε. τραχέως κινεῖται τὸ σαρκίδιον, εἶτα πάλιν λείως. ἄν σοι μὴ λυσιτελῇ, ἡ θύρα ἤνοικται: ἂν λυσιτελῇ, φέρε. [20] πρὸς πάντα

bambini le maschere sembrano orri-bili e spaventose per inesperienza, anche noi soffriamo qualcosa di si-mile, per quanto riguarda queste fac-cende, a quello i bambini nei con-fronti dei mostri.

Cos’è infatti un bambino? Inconsa-pevolezza. Cos’è un bambino? Igno-ranza. Perché nel momento in cui lo viene a sapere, anche in questo non è certo inferiore a noi. Cos’è la morte? Un mostro. Rifletti e analiz-zalo: vedi che non morde? Bisogna che il povero corpo sia separato dalla povera anima, com’era separato prima, adesso o dopo. Perché dun-que sei addolorato, se accade ora? Se infatti non succede ora, sarà dopo. Perché? Affinché si compia il ciclo dell’universo: infatti c’è bisogno di ciò che è presente adesso, di quel che sta per accadere e di quel che si è già compiuto.

Cos’è il dolore? Un mostro. Analiz-zalo ed esaminalo. Con difficoltà si muove la povera carne, dopo al con-trario con facilità. Qualora non ti soddisfi, la porta è aperta; se invece ti soddisfa, sopporta. Bisogna infatti

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γὰρ ἠνοῖχθαι δεῖ τὴν θύραν: καὶ πρᾶγμα οὐκ ἔχομεν.5

che la porta sia aperta per ogni cosa: e non abbiamo alcun problema.» In questo brano si spoglia la metafora platonica da entrambi i suoi poli: da una parte il fanciullino è inconsapevolezza e ignoranza, mentre dall’altra i mostri sono solamente il falso dolore della morte, una maschera vuota, dietro cui in realtà non c’è nulla. La riflessione si limita però al tema del bambino e non riguarda il fatto che questo bambino è dentro di noi, per quanto sia facile intuire la provenienza della riflessione.

È questo forse il brano più interessante e più completo, nonostante manchi almeno formalmente la parte del fanciullo all’interno di noi. È questo un evi-dente caso di ricontestualizzazione: attraverso un’esegesi mirata, Epitteto ot-tiene quello che vuole, ovvero proporre una riflessione sulla morte del corpo e sulle paure vane, partendo dalle parole di un illustre predecessore, Socrate – chiaramente attraverso gli scritti di Platone.

Simplicio

Altrettanto interessante è anche il commento di Simplicio al manuale di Epit-teto6; si tratta di una esegesi neoplatonica di un testo stoico databile alla prima metà del VI d.C.7 In questo testo si affrontano non una ma due distinte figure all’interno dell’animo umano che corrispondono l’una alla parte irra-zionale e istintiva, che manca di λόγος e la cui tensione è solamente ai piaceri, e l’altra alla parte razionale e riflessiva, la coscienza, che deve imbrigliare e fare da padrone alla sua parte contraria.

5 Seguo l’edizione Schenkl (1916). La traduzione è mia.

6 In particolare al capitolo 5, rr. 7-8: ἀπαιδεύτου ἔργον τὸ ἄλλοις ἐγκαλεῖν, ἐφ' οἷς

αὐτὸς

πράσσει κακῶς da cui Simplicio riprende il titolo della sezione per il suo commento

7 Cfr. Hadot (1966) p. 3 sgg per introduzione e Hadot (1990) pp. 275-304 sulla vita e

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11 Παιδεία μὲν γάρ ἐστι κυρίως ἡ τοῦ ἐν ἡμῖν παιδὸς ὑπὸ τοῦ ἐν ἡμῖν παιδαγωγοῦ ἐπανόρθωσις. Καὶ παῖς μὲν ἡ ἐν ἡμῖν ἀλογία, τὸ μὲν ὠφέλιμον μὴ ὁρῶσα, πρὸς δὲ τὸ ἡδὺ τεταμένη μόνον, ὥσπερ οἱ παῖδες· παιδαγωγὸς δὲ ὁ λόγος, ῥυθμίζων ἀεὶ καὶ μετρῶν τὰς ἀλόγους ἐν ἡμῖν ὀρέξεις καὶ πρὸς τὸ ὠφέλιμον ἀπευθύνων αὐτάς. Διὸ οἱ μὲν ἀπαίδευτοι, κατὰ τὴν τοῦ παιδὸς ὄρεξιν ζῶντες ἀνεπιστρόφως, πολλὰ ἁμαρτάνουσιν [αὐτοί], οὔτε εἰδότες διὰ τὸ ἀνεπίστροφον οὔτε ἑαυτοὺς αἰτιώμενοι. Οἱ δὲ ἀρχόμενοι καὶ τὸν παιδαγωγὸν ἤδη πως διανιστάμενον ἔχουσι καὶ τὸν παῖδα ὑπακούειν ἀρχόμενον· διό, κἂν ἁμαρτάνωσί τινα, καὶ τίς ὁ ἁμαρτάνων αἰσθάνονται καὶ ἐκείνῳ ἐγκαλοῦσι, καὶ οὐκ ἄλλῳ τινί. Οἱ δέ γε πεπαιδευμένοι καὶ τὸν παιδαγωγὸν καλοῦσι, καὶ οὐκ ἄλλῳ τινί. Οἱ δέ γε πεπαιδευμένοι καὶ τὸν παιδαγωγὸν ἔχουσι νήφοντα καὶ τοῦ παιδὸς ἤδη

L’educazione è infatti prima di tutto la correzione del fanciullo che è dentro di noi da parte del pedagogo che è dentro di noi.

Ed è un fanciullo l’irrazionalità den-tro di noi, che non vede l’utile, ma è solo tesa verso il piacere, come i bambini: mentre è un pedagogo la ragione, che dà sempre un ritmo e una misura ai desideri irragionevoli in noi e li dirige verso l’utile. Per questo quelli che non hanno avuto educazione, che vivono disat-tenti secondo il desiderio del fan-ciullo, errano molto, senza saperlo per via della mancanza di atten-zione, e senza darsi la colpa. Quelli che cominciano hanno già in qual-che modo il pedagogo al loro fianco (un po’ in disparte) e il fanciullo co-stretto ad ascoltare: perciò anche quando sbagliano in qualcosa, capi-scono chi sta sbagliando e ritengono responsabile lui e nessun altro. Chi invece è educato richiama anche il pedagogo, e nessun altro. Coloro che sono educati hanno un peda-gogo sia coscienzioso che padrone del fanciullino, e un fanciullo reso

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12 κεκρατηκότα, καὶ τὸν παῖδα φρενωθέντα καὶ τὴν ἑαυτοῦ τελειότητα ἀπολαβόντα κατὰ τὸ ὑποτετάχθαι τῷ παιδαγωγῷ συμφωνεῖν τε αὐτῷ· αὕτη γὰρ ἀρετὴ παιδός ἐστιν. 8

più saggio e che ottiene la perfe-zione che merita dall’essere subor-dinato al pedagogo e dall’essere in armonia con lui: è questa infatti la virtù del fanciullo.

Anche in questo caso si assiste a una esegesi indirizzata alla ricontestualiz-zazione e alla proposizione di un contenuto nuovo e originale.

L’immagine di Epitteto, che era stata platonica in origine, viene da Simplicio raddoppiata. Il felice riuso letterario dell’immagine del fanciullo a significare tutto quello che il fanciullo semanticamente porta con sé, in questo caso l’ἀλογία, porta Simplicio a elaborare un procedimento del tutto simile, ov-vero la creazione dell’immagine del pedagogo a portare il significato di ἐπανόρθωσις, di correzione, di educazione e di controllo degli istinti. Porfirio

Porfirio scrive nella seconda metà del III secolo d.C. un passo piuttosto com-plesso nel quale si trova un’evidente allusione a un παῖς dentro di noi da cui derivano le passioni, in contrasto con la ragione, l’intelletto. Il riuso da parte di Porfirio di questo passo mostra evidentemente che l’autore da Platone ha dedotto che il fanciullo dentro di noi è la nostra parte irrazionale, che tende all’hic et nunc e anche ai piaceri più vergognosi.

8 Commento di Simplicio a Epitteto XI.90 [70]. Seguo l’edizione Hadot (1966),

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13

In questo brano Porfirio si domanda se l’indagine intellettuale e la riflessione siano compatibili con i piaceri materiali come il mangiare cibi lussuosi o l’ac-compagnarsi a concubine, passioni istintuali proprie del “fanciullino dentro di noi”9.

Lo scopo di Porfirio in questo passo è dimostrare come la ragione sia fonda-mentale e come sia necessario astenersi dalle passioni più primitive e basilari, dagli istinti, per raggiungere una vita condotta secondo la ragione. È a questo proposito che ricontestualizza il fanciullino del Fedone, per significare che le passioni sono tipiche di una parte non razionale dell’anima.

Enea

Enea fu uno dei maestri della scuola retorica di Gaza del V secolo d.C. Disce-polo del neoplatonico Ierocle, scrisse un fortunato dialogo Teofrasto contro le teorie pagane della preesistenza e trasmigrazione dell'anima.

In questo passo Enea elenca i difetti del fanciullo interiore e il perché non dovrebbe stare al comando, ma anche i rimedi capaci di educarlo e guidarlo.

Οὐκ ἄρα τῷ ἐν ἡμῖν παιδὶ τὴν ἀρχὴν ἐπιτρεπτέον (15) ἢ μὴ θαυμάζειν εἰ πάντα ἄνω κάτω γένοιτ’ ἂν τὰ ἡμέτερα· πολλῶν γὰρ ὁ παῖς ἐπιθυμεῖ, ἀλλ’ ἀρίστη διάνοια καὶ θυμὸς ταύτῃ συμμαχῶν κωλύει καὶ συστέλλει τὰς μυρίας ἐπιθυμίας. Εἰ δὲ ἀγριαίνει ἡ τοῦ χείρονος δυναστεία, τοῦ ἀμείνονος γίγνεται

Infatti non bisogna concedere il co-mando al fanciullo dentro di noi al-trimenti non ci si deve meravigliare se tutte le nostre faccende finiscono sottosopra: il fanciullo infatti desi-dera tante cose, ma l’ottimo pen-siero e l’animo che le fa da alleato ostacola e restringe le miriadi di de-sideri. Se diventa selvaggio il

po-9 Porf. Abst. 1.41.5: εἰ δ’ ἐσθίων πολυτελῆ καὶ πίνων οἶνον τὸν ἥδιστον οἷός τε εἶ

πρὸς τοῖς ἀύλοις εἶναι, διὰ τί οὐχὶ καὶ παλλακίσι συνὼν καὶ δρῶν ἃ μηδὲ λέγειν καλόν; πανταχοῦ γὰρ τοῦ ἐν ἡμῖν παιδὸς ἦν ταῦτα τὰ πάθη, καὶ ὅσῳ αἰσχρά, οὐ πρὸς αὐτὰ φήσεις κατασπᾶσθαι.

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14 ταραχή, ἣν θεραπεύειν ἔστι· πολλὰ γὰρ τὰ φάρμακα, ἀγαθὴ τροφὴ καὶ παιδεία καὶ λόγος καὶ νόμος καὶ ἡ τῶν (20) καλῶν μελέτη καὶ συνήθεια καὶ ἐπι-στήμη καὶ ἡ τοῦ παντὸς τάξις.10

tere del peggiore, ne deriva il tur-bamento del migliore, che è possi-bile curare: molti sono infatti i ri-medi, un buon allevamento e un’educazione, la ragione e la re-gola, la ricerca delle cose belle e l’abitudine all’intimità, la scienza e l’ordinamento del tutto.

Anche in questo caso l’immagine del fanciullino che è nell’uomo significa la parte desiderativa, fuori controllo, della nostra anima. Significativi sono i “ri-medi” per l’educazione di questo fanciullino, che consistono nella forma-zione razionale e nella ricerca filosofica. La fonte originaria è chiaramente Platone, già sulla base di questo rimando piuttosto evidente al Fedone, ma in particolar modo lo si può sostenere per le numerosissime citazioni di Platone nell’intero dialogo11.

Elia

Elìa di Alessandria fu un filosofo neoplatonico cristiano del VI secolo d.C., di cui restano il commentario alle Categorie di Aristotele (già attribuito a Da-vid l'Armeno) e i prolegomeni all'Isagoge di Porfirio.

La riflessione che propone qui è molto lucida: dentro di noi c’è un fanciullo, indipendentemente dalla nostra età, che richiede cure e attenzioni. L’unico che si possa dire “educato”, πεπαιδευμένος è colui che si sia occupato del suo fanciullo interiore.

ἀπαίδευτος οὐχ ὁ μηδὲν εἰδὼς ἀλλ’ ὁ τὸν ἐν αὑτῷ παῖδα μὴ

E senza educazione non è chi non sa nulla ma colui che non ha ridotto

10 Theophrastus sive de animarum immortalitate et corporum resurrectione

dialo-gus 24.15, ed. Colonna (1958). Traduzione mia.

11 Gertz – Sorabji – Dillon – Russell (2012), 5-6: “Aeneas is not only well acquainted

with the Platonic dialogues; he exhibits considerable sophistication in utilising them for literary purposes”

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15 καταστείλας· ἔστι γὰρ παῖς ἐν ἡμῖν καὶ γέρουσιν οὖσι, τοῦτ’ ἔστιν ἡ ἄλογος ψυχή, ἣν δεῖ παιδεύειν· ὅθεν καὶ παιδεία εἴρηται ἡ ἀναγωγὴ ὡς τοῦ ἐν ἡμῖν παιδὸς οὖσα καταστολή, καὶ πεπαιδευμένος παρὰ Πλάτωνι οὐχ ὁ πολλὰ εἰδὼς καὶ ῥέων χρήσεις ἀλλ’ ὁ τὸν ἐν αὑτῷ παῖδα κατεσταλμένον ἔχων12

all’ordine il fanciullo dentro di sé: c’è infatti un fanciullo dentro di noi anche se siamo vecchi, e questa è l’anima irrazionale, che bisogna educare: è da qui che si dice “pai-deia” il tirare su come se fosse il sog-giogamento del fanciullo dentro di noi, e colui che è formato fino in fondo presso Platone non è chi sa tante cose, e chi ha un profluvio di esempi, ma chi ha ridotto all’ordine il fanciullo dentro di sé

Questo passo desta interesse per una certa insistenza sull’immagine di pro-venienza chiaramente platonica, vista la coda su chi Platone ritenesse vera-mente formato, e la nuova visione di παιδεία come un processo continuo che non riguarda solo i bambini ma anche e soprattutto noi maiusculi pueri come scrive Seneca13.

Temistio

Dopo aver presentato passi di autori antichi che interpretavano e riconte-stualizzavano il messaggio di Platone, propongo invece un brano di semplice “riuso estetico”.

Nella prima orazione di Temistio si trova infatti solo un riferimento en

pas-sant più per gusto di sfoggio letterario che per veicolare qualche reale

mes-saggio. Quello che si percepisce è senz’altro la volontà di riutilizzo dell’im-magine felice di una parte della nostra psiche personificata all’interno di noi. οὐδὲν γὰρ οὕτω παροξύνει καὶ

συναύξει τὴν ἀρετὴν ὡς βεβαία τῶν ἄθλων ἐλπίς.

Infatti niente affina e aumenta la virtù quanto la speranza certa del premio.

12 Eliae (olim Davidis) in Aristotelis categorias commentarium (Da 117.25) 118.4,

ed. Busse (1900), traduzione mia.

13 Sen. Ep. 24.13: Quod vides accidere pueris, hoc nobis quoque maiusculis pueris

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16

ἔστι γάρ τις ἐν ἡμῖν οὐ παῖς, ὥς φησιν ὁ Πλάτων, ἀλλ’ οἷόν τις εὐγενὴς νεανίας, φιλόνεικός γε ὑπεροχῆς ἐραστής14

C’è infatti in noi non un fanciullo come dice Platone, ma una sorta di ragazzo di nobile famiglia che ama le sfide e desidera primeggiare

Temistio fu un oratore e un filosofo molto colto del IV secolo: spesso nelle sue orazioni riutilizza e cita autorità filosofiche ma anche letterarie. Platone viene da Temistio utilizzato per entrambe le motivazioni.

In questo passaggio si assiste a una delle rare “correzioni” di Temistio a Pla-tone, che altrimenti viene generosamente citato e seguito dal retore15.

14 Temistio or. 1 p. 13 D (Harduin), ed. Downey-Schenkl (1965), traduzione mia. 15 Penella (2014). Sulla correzione, cfr. 54: “The only other explicit correction of Plato

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17

Critica moderna

Prima di presentare contributi critici relativi alla sostanza del passo, la prin-cipale osservazione da fare è l’interpretazione del brano non tanto dal punto di vista contenutistico quanto invece da quello più strettamente grammati-cale: i primi interpreti16 avevano infatti inteso ἐν ἡμῖν non in senso di stato in luogo, ma di partitivo, trovandosi così a tradurre non “dentro di noi” ma “tra di noi”. Da questo tipo di interpretazione ne è derivata quindi una ri-cerca tesa a riconoscere chi fosse il discepolo più infantile del gruppo, e arri-vando ad additare chiaramente Apollodoro, che viene a più riprese rappre-sentato come in preda alle lacrime17. Si seguì questa traduzione almeno fino all’edizione del 1810 di Wyttenbach, quando si diede maggior peso al signi-ficato filosofico dell’immagine platonica.

Giacché traduzione e interpretazione vanno sempre di pari passo, è evi-dente come una traduzione errata possa portare a una comprensione grave-mente inesatta del passo.

Nonostante il dialogo platonico sia molto commentato, su questo passo del

Fedone in particolare non c’è riscontro critico della portata che ci si

aspette-rebbe: nei commenti al Fedone non si trovano che poche righe nelle quali ci si concentra più sul concetto di incantamento che sulla metafora del fanciullino – probabilmente perché viene ritenuta palese e forse meno degna di atten-zione, in quanto immediatamente comprensibile. Quel che invece la rende particolarmente interessante è proprio la sua immediata facilità di compren-sione nonostante il salto da similitudine a metafora che si attua nel dialogo tra Cebete e Socrate e soprattutto nonostante il vasto ‘non detto’ che giace al di là dell’utilizzo dell’incantamento. Il ‘non detto’ trova il suo culmine –

al-16 A partire dalle prime traduzioni di Jean de Serre nell’edizione di Estienne, “sed

fortasse et adest aliquis inter nos puer qui haec reformidet” e di Ficino 1533 “non tanquam formidantibus nobis, sed forte est inter nos puer aliquis talia metuens”

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meno in questo brano – nell’affermazione di Socrate sul fatto che i suoi di-scepoli potranno trovare l’incantatore molto più facilmente tra di loro che all’esterno. Di fatto, una traditio lampadis da Socrate a Platone.

Uno dei pochi articoli esplicitamente dedicati a questo problema in Phd. 77e è di Young18. In questo articolo si sostiene che il passo del fanciullino sia un precedente del tipo di spiegazione – almeno dal punto di vista dell’utilizzo dell’immagine – della parte relativa alle qualità. A questa stringata e lucida analisi naturalmente fanno da supporto i passi paralleli proposti per difen-dere la tesi che il passo del fanciullino preceda il lungo brano da 100b1 a 105c7 in cui si parla delle qualità e del perché alcuni oggetti abbiano certe caratteristiche; la conclusione è che le qualità dipendono da qualcosa all’in-terno di noi. Come in questi passi, in cui si assiste allo stesso ‘salto cognitivo’ tipico delle metafore, in 77e si trova una qualità all’interno di noi, perciò Young afferma, con semplicità quasi spiazzante, che non c’è nulla di cui es-sere meravigliati se la paura da bambini che abbiamo dentro di noi viene descritta proprio come un bambino19.

Non semplice da trovare è stato un altro articolo puntuale sul fanciullino, “Il

παῖς di Cebes nel Φαίδων di Platone” di Williger20, accompagnato anche da una critica di Capone Braga21 e da una replica dell’autore22. Williger propone prima di tutto delle testimonianze alessandrine relative a come venga inteso il παῖς dentro di noi, citando Porfirio23 e Simplicio24. Introduce poi diversi argomenti atti a dimostrare perché sia insostenibile la tesi che a temere per

18 Young (1988)

19 Young (1988), 251: «Uncertain as to whether he and Simmias really have the fear,

then, Cebes refers the fear, not to himself and Simmias, but to something in them. And, since the fear in question is a children's fear, that something must be a child.»

20 Williger (1946) 21 Capone Braga (1946) 22 Williger (1947)

23 Lo stesso passo del De abstinentia 1.41 proposto anche qui, cfr. supra 24 In Epict. 5.70, cfr. supra

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la sopravvivenza sia la parte irrazionale dell’anima: 1) perché Simmia e Ce-bete non sono razionalmente persuasi nemmeno dopo la combinazione dei primi due discorsi sull’immortalità dell’anima, ovvero la reminiscenza e gli opposti, tanto che Socrate si offre di continuare la persuasione, 2) perché l’ar-gomento seguente, sull’affinità, non è affatto diretto all’anima irrazionale, ma si poggia su solide basi razionali, 3) i “forse” e gli “anche” utilizzati nel testo indicano che il fanciullino è qualcosa che può esserci o meno in un uomo, 4) gli incantesimi “non sono mai praticati per tranquillare l’anima ir-razionale, bensì quella razionale”25, 5) se questo inciso riguardasse l’anima irrazionale, sarebbe in contrapposizione e contrasto con le parti precedenti e seguenti, tanto da discordare con il senso dell’insieme, 6) perché l’anima ir-razionale dovrebbe aver paura della morte, visto che l’immortalità è propria dell’anima razionale?

Il punto di partenza della tesi di Williger è che l’anima razionale ha ancora dei dubbi che vanno fugati dagli incantesimi, perché le prime due dimostra-zioni dell’immortalità dell’anima erano basate sulle credenze religiose or-fico-pitagoriche della metempsicosi. Incantesimi che sono razionalmente fondati, logici e solidi. È la terza prova fornita da Socrate l’unica ad essere veramente filosofica nonché una vera dimostrazione, giacché la parte se-guente è solo confutazione di concezioni errate26.

Prosegue poi nell’approfondimento della tematica dell’incantesimo, basilare per una comprensione a tutto tondo del passo e del suo contenuto. Prende così in considerazione chiaramente il Carmide per gli incantamenti che ven-gono definiti “discorsi belli”, il celebre passo del Teeteto in cui viene definita l’arte maieutica di Socrate. Gli incantesimi quindi, sarebbero due, quelli ra-zionali e quelli religiosi, che si corroborano a vicenda. Infatti “la forza della

25 Williger (1946), 106

26 Williger (1946), 108-109: “Socrate non dà altre dimostrazioni, ma confuta opinioni

errate o manchevoli. L’ultima parte del dialogo è pertanto confutativa e chiaritiva e non dimostrativa”

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persuasione non è solo nell’argomentare razionale, bensì anche nel cre-dere”27.

Il vero dubbio filosofico è quello del bambino che, sempre curioso e in cerca di risposte, spinge alla ricerca e all’indagine, impedendo di accontentarsi di una verità apparente.

Williger viene però criticato da Capone Braga proprio a partire dall’imma-gine del fanciullino: come può essere simbolo della ragione assillata dal dub-bio, se nel fanciullo la ragione non è ancora sviluppata?

Offre quindi un passo di Plotino28 in cui si trova un fanciullino simbolo di paure irriflessive e quindi irrazionali che dev’essere acquietato “con minacce o con ragionamenti”, per poi attaccare Williger sull’affermazione che le prime due dimostrazioni presupponessero più che fondassero l’immortalità dell’anima. Il problema fondamentale, però, resta: come si può tranquilliz-zare con argomenti razionali la parte irrazionale dell’anima? Capone Braga prova a risolvere la questione presentando la persuasione del fanciullino come un atto egemonico della parte razionale dell’anima, che prevale sull’ir-razionale proprio attraverso il ragionamento.

La replica di Williger non fa che ribadire le conclusioni già proposte e sotto-linea il fatto che il fanciullino sia simbolo del dubbio della ragione, non della ragione assillata dal dubbio.

Oltre a questo acceso botta e risposta tra gli studiosi, si trovano passaggi più o meno sintetici in volumi di commento al Fedone, come l’edizione Cam-bridge curata da Sedley e Long. In relazione alla dimostrazione dei simili e

27 Williger (1946), 111 28 Enneadi 1.4.15, rr 15-20: Ἐπεὶ καὶ τὸ ἀπροαίρετον αὐτῷ καὶ τὸ γινόμενον πρὸ κρίσεως δέος κἄν ποτε πρὸς ἄλλοις ἔχοντι γένηται, προσελθὼν ὁ σοφὸς ἀπώσεται καὶ τὸν ἐν αὐτῷ κινηθέντα οἷον πρὸς λύπας παῖδα καταπαύσει ἢ ἀπειλῇ ἢ λόγῳ· ἀπειλῇ δὲ ἀπαθεῖ, οἷον εἰ ἐμβλέψαντος σεμνὸν μόνον παῖς ἐκπλαγείη

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dell’affinità, passo che si trova immediatamente dopo la sezione del fanciul-lino, si legge che è progettato per calmare quelle paure irrazionali che riman-gono nonostante l’evidenza delle dimostrazioni formali29. Di qui la dedu-zione immediata è che il passaggio del fanciullino, oltre a non essere parti-colarmente degno di nota, veicola un’informazione solo su una paura irra-zionale che resta appigliata alla mente dei discepoli nonostante le dimostra-zioni formali proposte da Socrate.

D’altro canto, invece, Trabattoni prende seppur brevemente nota del passo e afferma la sua importanza ai fini della comprensione della natura e degli scopi del testo, dal momento che ritiene che l’obiettivo di Platone sia far ca-pire come l’indagine filosofica non si attui attraverso argomenti incontrover-tibili, bensì attraverso costante persuasione30.

Per Burger invece la separazione operata da Cebete tra sé stesso e un fanciul-lino dentro di lui è funzionale all’eliminazione della paura tramite autoper-suasione, che si può attuare solo proiettando il dissenso interiore su qualcosa di esterno31. Prosegue affermando anche che i veri filosofi possono postulare la separabilità dell’anima dal corpo solo in virtù di questa proiezione32.

29 Sedley – Long (2010), xxxi: “It is designed to assuage irrational fears that remain

despite the force of those formal demonstrations”

30 Trabattoni 2011, XLIX: “la persuasione, a differenza della certezza o dell’evidenza,

è sempre soggetta al dubbio, e dunque deve essere rinforzata e confermata sempre e di nuovo.” Per questo l’obiettivo di questo dialogo (e in particolare di questo passo) non è trovare una certezza, ma fare ricerca, perché la filosofia “non procede come le scienze esatte”.

31 Burger (1984), 85: “Realizing that he can overcome his distrust only through

self-persuasion, Cebes must separate himself from the fear attributed to him”

32 Burger (1984), 85: “it was only, indeed, by projecting all internal dissension onto

the body as alien that the genuine philosophers could postulate the separability of the psyche as an autonomous being.”

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Deduzioni

Ritengo che, purtroppo, questo passo di raccordo abbia riscosso una minore attenzione critica per il motivo che si trova tra due importanti dimostrazioni dell’immortalità dell’anima: infatti il dubbio di Simmia e Cebete sorge dopo la dimostrazione che l’anima esiste anche prima della nostra nascita, ma prima della dimostrazione per simili; la critica perciò si trova a dover fare delle scelte prioritarie che tendono ad evitare o comunque a limitare l’atten-zione dedicata a questo passo.

Per quanto riguarda i passi di autori antichi citati, vanno tutti nella direzione di intendere il fanciullo come simbolo dell’irrazionalità e dell’irragionevo-lezza, da educare e far crescere. L’archetipo della metafora platonica viene sviluppato quindi in un raddoppiamento che vede dentro di noi un fanciullo da educare e un pedagogo che se ne prenda cura. Quando questo non suc-cede, viene comunque attribuito solo il peggio al fanciullo dentro di noi. La metafora resta in ogni caso mancante di una parte, perché non torna più la connessione tra paura della morte e paura irrazionale dei bambini. Nella ricezione moderna del passo invece si indaga o in ottica all’apparenza più ‘antropologica’, come Young, che sembra rifarsi ad alcune idee del bam-bino come simbolo di irrazionalità e dello sdoppiamento dell’individuo in qualità o in caratteristiche anche fisicamente separate, oppure in ottica stret-tamente ‘contenutistica’, andando alla ricerca di referenti ben precisi per ogni elemento chiave dell’immagine, come Williger o il suo commentatore Capone Braga.

In ogni caso si nota una certa varietà di interpretazioni che non sembra de-notare una linea critica principale ormai solida e riconosciuta nella compren-sione di questo passo, quanto invece una difficoltà di fondo nell’individua-zione precisa e nel commento delle tematiche nella loro interezza, che sma-schera e suggerisce un contenuto poliedrico.

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Partendo perciò da questo punto ritengo non solo che sia necessaria un’ana-lisi più accurata di questo passo, ma anche che il brano possa essere incasto-nato in modo migliore nel dialogo per offrirne una comprensione migliore.

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L’

IMPORTANZA DEL PASSO NEL SUO CONTESTO

Per motivare l’interesse nei confronti di questo brano così specifico e per di-mostrare la sua importanza, ritengo sia necessario contestualizzarlo con maggiore precisione: prima di tutto cercherò di dare una iniziale definizione di questa sezione come intermezzo33, dimostrando attraverso paralleli all’in-terno del corpus di Platone che il passo scelto si trova in una parte sensibile del dialogo, già per questo meritevole di attenzione. Poi andrò a chiarire altri temi che vengono trattati a fianco dell’immagine del fanciullino per mostrare che in questa sezione sono presenti diversi punti focali di interesse, che ren-dono quindi l’intera sezione degna di nota. In particolare discuterò della te-matica trattata, dell’immagine dell’incantamento e della possibile traditio

lampadis.

Bisogna prima di tutto considerare che un passo così denso di informazioni e artifici letterarî non si trovi nel “corpo” del racconto, bensì in una delle parti che in qualche modo spezzano il dialogo: chiamerò queste sezioni “in-termezzi”. Per “intermezzo” s’intende un’azione scenica più o meno breve34, collocata come cerniera fra due sezioni del dialogo, al cui interno l’autore inserisce un passaggio contenutistico o metodologico. Naturalmente già nella definizione di “azione scenica” si ritrovano tutta la vivacità e il movi-mento del teatro, che sia comico o tragico. Veniva già nell’antichità ricono-sciuta a Platone un’attitudine drammatica, e, secondo il gusto eziologico an-tico, fatta risalire a un passato da poeta in senso stretto, se si ricorda ad esem-pio il rogo della produzione poetica, nella biografia di Diogene Laerzio35.

33 Per quanto nella maggior parte delle edizioni del Fedone questa sezione sia

chiara-mente divisa dal resto del dialogo, non c’è univocità nella sua definizione come in-termezzo. Ci si scontra soprattutto con un problema di lessico, giacché si parla non solo di intermezzo, ma anche di interludio, digressione, excursus e parentesi.

34 Il lemma del Vocabolario Treccani, sotto la voce ‘intermezzo’, recita: “Breve azione

scenica, di carattere leggero e vario, che serve a riempire gli intervalli fra un atto e l’altro o fra due quadri successivi di una rappresentazione (tragedia o commedia).”

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L’intermezzo è quindi un intervallo, una pausa o un passo solo apparente-mente meno denso che separa parti in cui lo scambio dialettico o l’argomen-tazione appaiano costituire nuclei di primaria rilevanza. Per quanto questi brani possano a prima vista sembrare solo abbellimenti letterarî ai fini di una più piacevole fruizione dell’opera, in realtà svolgono spesso funzioni rile-vanti nella struttura del dialogo.

Nei dialoghi di Platone questi brani sono numerosi e hanno caratteristiche e realizzazioni molto differenti tra di loro, al punto da rendere particolarmente difficile una delimitazione rigorosa dell’intermezzo: tuttavia si possono tro-vare alcuni segnali di inizio e di fine sezione. La sezione 77d-78a del Fedone si trova esattamente a dividere due parti molto significative del dialogo, ov-vero la seconda e la terza dimostrazione dell’immortalità dell’anima.

Subito prima del passo in esame si trova infatti la dimostrazione che l’anima esiste prima della nostra nascita e il ragionamento viene condotto attraverso l’argomento dei contrarî (70c-72d) e della reminiscenza (73c-74e). Tuttavia per Simmia e Cebete questa dimostrazione manca della seconda parte: se an-che esiste prima di entrare in un corpo, an-che cosa vieta all’anima di dissiparsi quando se ne allontani? Socrate fa notare che in realtà il quesito è già poten-zialmente risolto, giacché basterebbe unire i due argomenti su cui si sono già trovati d’accordo perché non sembri mancare di una metà.

Il passo viene introdotto da ὅμως, che dà una sfumatura avversativa – in particolare perché si trova in combinazione con un δέ36 – e indica un supera-mento delle cose dette in precedenza, segnando quindi l’inizio di una nuova sezione. Questo superamento vuole rinviare a un nuovo argomento e con-centra l’attenzione del lettore sul dubbio che assilla Simmia e Cebete: non sono convinti del fatto che l’anima continui ad esistere anche dopo la morte.

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C’è quindi bisogno di persuaderli come se ci fosse, dentro di loro, un fanciul-lino spaventato.

Ancora più marcata è la fine della sezione, con l’affermazione di Cebete di ritornare a discutere dal punto in cui avevano lasciato (78a-b): ὅθεν δὲ ἀπελίπομεν ἐπανέλθωμεν, εἴ σοι ἡδομένῳ ἐστίν, “ma ritorniamo al punto da cui siamo partiti, se ti va”. Il punto da cui ripartono è la dispersione dell’anima, ovvero quello di cui si stava trattando immediatamente prima del nostro brano, tra 77b1 e 77d5, per introdurre la terza dimostrazione dell’immortalità dell’anima che si basa sull’affinità dell’anima con l’intelligi-bile e con l’incorruttil’intelligi-bile e non può quindi decomporsi.

Quali sono dunque le funzioni dell’intermezzo nei dialoghi di Platone? In Platone si possono imprevedibilmente, ma non stranamente, trovare con-cetti fondamentali espressi in momenti di passaggio tra sezioni del dialogo. In queste “pause” è facile anche notare l’uso di molte strategie letterarie37, come espedienti scenici38, metafore o similitudini atte a chiarire i concetti espressi e ad attrarre il destinatario.

La presenza di questi accorgimenti letterari sottolinea ancor più la rilevanza dell’intermezzo tra parti più consistenti del dialogo e il fascino che vuole esercitare sul destinatario. Già la sua caratteristica di parte intermedia lo fa tuttavia risaltare, donandogli una posizione privilegiata che può essere sfrut-tata per veicolare informazioni più sensibili39. Di qui deriva anche la sua uti-lità per cambi di argomento o passaggio: una pausa può certamente aiutare

37 Intese nel senso di maggiore utilizzo di figure retoriche, lessico meno comune,

contenuti più profondi e ‘sublimi’, maggiore ricerca di effetto patetico ed emotività.

38 In alcuni dialoghi ad esempio, per quanto riguarda la realizzazione e le

caratteri-stiche più strettamente “sceniche”, si assiste alla presenza di un coro di spettatori, come accade ad esempio nel Protagora e nel Gorgia, oltre che nel Fedone.

39 È per Dalfen 1989 un luogo deputato al discorso sulla comunicazione,

fondamen-tale per Platone; Brumbaugh (1988), 84: “use of a so-called digression to introduce a relevant, but more abstract, philosophical consideration” e 86: “a digression may digress to a higher dialectical level, from which one better understands the original lower level”

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ai fini di una svolta nel discorso, che sia l’introduzione di un nuovo perso-naggio o il raggiungimento di un’intesa su di un concetto.

È perciò un elemento a tutti gli effetti strutturale, che ha la sua importanza anche ai fini dell’economia generale del dialogo. Ritengo che non possano essere semplicemente divisi contenuto da contenitore, perciò queste sezioni – in quanto contenitori – hanno utilità nella divisione di sezioni e nello svol-gimento di alcune funzioni essenziali che andrò a discutere, ma hanno anche la caratteristica di abbellimento letterario per rendere l’opera più movimen-tata, e soprattutto – in quanto contenuti – offrono elementi fondamentali alla comprensione del dialogo nel suo insieme.

Le funzioni principali dell’intermezzo sono infatti quella metodologica, per ri-stabilire il giusto criterio di ricerca e chiarire alcuni aspetti del metodo dia-lettico, ad esempio nello scontro con i sofisti40; la drammatizzazione dell’aporia, alla fine della confutazione41, e strettamente legate a questo scopo sono

l’iro-nia e la richiesta di aiuto da parte di Socrate nel trovare argomentazioni più

40 Come in Prot. 334c7-338e e Gorg. 457c-461b, dove si assiste a dibattiti che mettono

in luce le caratteristiche della dialettica di Socrate.

41 Ad esempio Euthyphr. 11b-11e; Lach. 193d-194c; Alc. I 118b-124b. In Euthyphr. e

Lach. gli intermezzi non solo servono a sottolineare la critica ai falsi sapienti che non accettano responsabilmente l’instabilità della loro conoscenza, ma marcano anche un passaggio di livello nella discussione. Nel terzo caso invece Alcibiade si convince della necessità di seguire Socrate per la cura dell’anima. Oltre a essere incentrato sulla politica e sulla capacità di insegnamento, la sua natura è evidentemente pro-trettica e rappresenta una giuntura tra la parte confutatoria e quella maieutica.

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valide42; l’elemento protrettico43; valore di pausa narrativa, funzionale al proce-dimento dialogico44; segnale di attenzione nei confronti del fruitore del dia-logo e segnale di passaggio da una fase all’altra della discussione45.

In ogni caso, non ci sono intermezzi platonici privi di un significato effettivo: parto naturalmente dal presupposto che nello scritto di Platone nulla sia su-perfluo, ma tutto necessario46.

Gli intermezzi sono presenti in quasi tutti i dialoghi platonici, per quanto in realtà non ci sia unità della critica nella precisa individuazione e delimita-zione delle sezioni, vista la difficoltà nella divisione di un’opera che non è stata certo scritta con atti o scene.

Per sostenere la tesi dell’importanza intrinseca dell’intermezzo in questo particolare caso della sezione del fanciullino, proporrò alcuni passi a mio pa-rere significativi, per esemplificare in primo luogo l’importanza delle sezioni intermedie in Platone e per dimostrare come in questi passi si assista a una più accurata attenzione alle figure retoriche e agli strumenti letterari. I passi scelti si trovano nel Protagora, nel Fedro e nel Menone.

42 È questo il caso ad esempio di Euthyd. 290e-293a, che è un peculiare ritorno alla

discussione iniziale tra Socrate e Critone, che si risolve in un’aporia sia nel dialogo che nella cornice, e di Lys. 210e-211d: nell’intermezzo di notevole efficacia dramma-tica, oltre a un cambio di interlocutore, si assiste anche a una reimpostazione della discussione.

43 Theaet. 148e-151d, 172c-177c, il primo riguarda l’arte maieutica di Socrate e

pre-senta il metodo dialettico che porta alla nascita delle buone idee, il secondo è relativo alla figura del filosofo, sottolineando la sua libertà di spirito, culminando infine con l’ideale di assimilazione alla divinità; Alc. I 118b-124b

44 Importante effetto ritardante hanno per esempio il singhiozzo di Aristofane

185c-e, lo starnuto di Aristofan185c-e, 189a-c nel Simposio.

45 Rivestono la funzione di transizione ad un nuovo episodio ad esempio Phdr.

234c-237b, 241d-243e, 258e-259d, Phaed. 84c-85d, 88c-91c.

46 Reale 20142 XX: «Nel dialogo di Socrate ci possono essere elementi casuali e

con-tingenti; nel dialogo platonico, al contrario, tutto diventa “necessario”, e l’elemento apparentemente casuale diventa coefficiente essenziale e necessario in funzione dell’intero»

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Nel Protagora si assiste a diverse trovate sceniche47: ad esempio nella casa di Callia48 si assiste alla “parodo” iniziale con la passeggiata del sofista in avanti e indietro con chiaro riferimento a un coro, che poi sarà più presente nel corso del dialogo49, inoltre quello tra Socrate e Protagora sarà a tutti gli effetti un agone50.

L’intermezzo51 (334c7-338e) è situato subito dopo la macrologia52 di Prota-gora e la sua confutazione, ed è un momento di crisi del dialogo: Socrate minaccia di andarsene, perché Protagora non si presta allo scambio dialettico, perciò interviene subito Callia per trattenere Socrate, seguito da Alcibiade, Crizia, Prodico e Ippia. A quel punto, ormai alla fine della sezione, Socrate stabilisce i criteri secondo i quali la discussione dovrebbe proseguire. Questo brano intermedio riguarda in primo luogo il metodo da adottare, propo-nendo quello dialettico, e può quindi aprire la strada al successivo passo che consiste nell’esegesi dell’ode a Scopas di Simonide: strutturalmente suddi-vide le due macrologie, quella di Protagora e quella di Socrate, quindi costi-tuisce la chiave di volta tra due tappe del dialogo. Dopo l’intermezzo, infatti, si assiste a un cambio di comportamento del coro e di Socrate nei confronti del sofista.

Nel Menone si trova invece il celebre intermezzo della torpedine che ammalia e stordisce (79e5-80d), che rinvia alla stessa problematica dell’incantamento

47 Sulla presenza nel dialogo di un sottotesto comico, cfr. Nightingale 1995, 186ss. 48 Per Capra 2001, 42, l’ambientazione a casa di Callia è già un preciso segnale

indi-cante il registro comico del dialogo.

49 Prot. 314e2-316a5

50 Prot. 335a ὦ Σώκρατες, ἔφη, ἐγὼ πολλοῖς ἤδη εἰς ἀγῶνα λόγων ἀφικόμην

ἀνθρώποις, καὶ εἰ τοῦτο ἐποίουν ὃ σὺ κελεύεις, ὡς ὁ ἀντιλέγων ἐκέλευέν με διαλέγεσθαι, οὕτω διελεγόμην, οὐδενὸς ἂν βελτίων ἐφαινόμην οὐδ᾽ ἂν ἐγένετο Πρωταγόρου ὄνομα ἐν τοῖς Ἕλλησιν.

51 Capra 2001, 89 per quanto non lo definisca intermezzo, separa molto chiaramente

la sezione che sta tra le due rheseis, paragonando gli interventi di Callia, Alcibiade, Crizia, Prodico e Ippia, che tentano di incoraggiare i contendenti, a quelli del coro comico.

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presente nel passo del fanciullino: infatti troviamo qui l’effetto della dialet-tica di Socrate descritto con la successione di γοητεύειν, κατεπᾴδειν e φαρμάττειν, i tre verbi dell’incantesimo della parola socratica, che affascina e cura53. C’è una particolare insistenza poi sulla sfera semantica dell’aporia, che sottolinea la situazione di stallo nella discussione54. Una situazione che si trova bloccata, però, solo per poi ripartire: Socrate infatti alla fine del passo esprime tutta la sua disponibilità ad aiutare Menone nella ricerca, rendendo l’intermezzo aporetico uno strumento metodologico, dal momento che “l’aporia socratica non produce uno stallo, ma assolve a una fondamentale funzione purificatrice, liberando l’interlocutore dalle sue false credenze e preparandolo dunque a una ricerca autentica”55, ma anche uno strumento per esortare il fruitore ad imparare dal “risultato mancato” che è l’aporia, mostrando un chiaro intento protrettico56.

53 Sull’incantamento, cfr. in seguito più nel dettaglio. Lo stesso accade in apertura e

in chiusura del Carmide, con il rimedio per il mal di testa proposto da Socrate. In quest’ultimo dialogo c’è tuttavia un intermezzo particolare che segna chiaramente la divisione tra due parti distinte della discussione: l’intervento di Crizia, adirato ὥσπερ ποιητὴς ὑποκριτῇ κακῶς διατιθέντι τὰ ἑαυτοῦ ποιήματα, “come un poeta con un attore che recita male i suoi versi” (162d), in difesa dell’argomento trattato malamente da Carmide. In questo modo Platone toglie di mezzo il primo interlocu-tore e sposta il dialogo su di un nuovo livello, portando in scena Crizia e la sua ar-roganza. La competitività di Crizia lo porterà a un secondo, breve intermezzo incen-trato sull’aporia, la cui sfera semantica viene ripetuta almeno quattro volte in poche righe (169c-d2), per sottolineare non solo una nuova definizione dei ruoli e l’inizio del processo maieutico, ma anche il segnale dell’imminente trattazione di un argo-mento chiave del dialogo.

54 Men. 80 a1-3: σοι ὅτι σὺ οὐδὲν ἄλλο ἢ αὐτός τε ἀπορεῖς καὶ τοὺς ἄλλους ποιεῖς

ἀπορεῖν: καὶ νῦν, ὥς γέ μοι δοκεῖς, γοητεύεις με καὶ φαρμάττεις καὶ ἀτεχνῶς κατεπᾴδεις, ὥστε μεστὸν ἀπορίας γεγονέναι

55 Bonazzi 2010, 69 n 64

56 Bluck 1961, 15: «We may say that the reduction to aporia prepares the way for the

eliciting of the correct reply not only by eliminating false opinions and creating a desire to replace them by new ones, but also by offering positive hints or evidence of which use can be made in the search. […] This is a very important stage in the collecting process».

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È nel Fedro, poi, che si trovano diversi intermezzi significativi: il primo è una breve ma pregnante parentesi57 sulla promessa di Socrate di ottemperare alla richiesta di Fedro, ovvero esporre il discorso sull’amore, a patto però di es-sere velato58. Poco oltre c’è un interludio sulla necessità di una palinodia come quella di Stesicoro (242b-243e)59 per purificarsi dal peccato di aver de-finito Eros un male per l’uomo. Si trova infine un interludio teoretico su come dovrebbe essere fatto un discorso (258c-d), e una piccola appendice che contiene il mito delle cicale (258e-259d60), che conclude il dialogo con una nota mitica che costituisce il culmine e il fulcro dell’opera, come accade nel caso del canto dei cigni nel Fedone.61

Questa sezione, per quanto abbia un ampio ventaglio di interpretazioni cri-tiche62 a causa della complessità del tema trattato, ha una funzione piuttosto chiara e semplice da individuare: introduce un nuovo argomento di indagine, cambiando tema, e allo stesso tempo costituisce un elemento che stimola il

57 Può facilmente essere definita parentesi di commento e di attesa, dal momento che

si trova ad essere inserita tra il primo discorso di Lisia e il secondo discorso, questa volta di Socrate

58 235d-237b: in questa sezione i due interlocutori esaminano il testo di Lisia ed

espri-mono le loro considerazioni, mettendo l’accento sul rapporto con la parola e in par-ticolare la distinzione tra forma e contenuto.

59 Paralleli sistematici tra la palinodia e la citazione di Pindaro in 227b9–10 in Moore

2014

60 Passo anticipato dal coro di cicale descritto nel locus amoenus di 230c

61 Secondo Robin 1968, 68; 143: «Aussi, le mythe se diversifiant avec les besoins de

l’exposition, Platon ne se contente-t-il pas d’utiliser les légendes de la mythologie traditionnelle ou de les imiter, il n’hésite pas à créer lui-même pour susciter la pensée réfléchie en piquant l’imagination». A questo proposito, il dialogo di cui tratto non ha solamente l’interludio su cui si focalizza la mia analisi, ma ha altre sezioni che possono rispondere alla definizione di intermezzo. Una di queste è quella a cui ho accennato adesso, sul canto dei cigni, sacri ad Apollo. Questa sezione (84c-91c) si apre con il silenzio tipico della riflessione che segnala che “la prima parte del dialogo si è conclusa”, Reale 2000, 126 n.74 e contiene non solo la metafora del canto dei cigni e della zattera per attraversare il mare della vita, ma anche i dubbi di Simmia e Ce-bete (l’armonia della lira e il tessitore); prosegue con un altro tipo di silenzio, che sottolinea lo smarrimento dei presenti e si conclude con l’immagine del sacrificio dei capelli di Fedone. Si trova poi anche una parentesi che tende al comico (63d-e), nella quale si esorta Socrate a non infervorarsi. Gli scopi principali di questa interse-zione sono l’effetto ritardante e l’introduinterse-zione della dottrina della metempsicosi.

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proseguimento della ricerca, sottolineando allo stesso tempo la forte patina letteraria tramite l’accorgimento del mito.

Visti i paralleli proposti e le funzioni che l’intermezzo mostra di avere nell’opera di Platone, resta da definire quali siano invece le caratteristiche della sezione in esame, che si presenta come una parentesi, una breve pausa tra due parti fondanti e, potremmo dire, “l’anima” della prima parte del

Fe-done, nella quale si trovano due personaggi, Socrate e Cebete, ma, per quanto

sia proprio Cebete a proporre l’immagine del fanciullino, tutta l’attenzione viene assorbita da Socrate: è lui al centro della scena.

In questo brano si ritrovano quasi tutte le funzioni che ho elencato preceden-temente: anche se non è che un’allusione en passant, si fa cenno al metodo di ricerca, quello velato dall’immagine dell’incantamento, c’è senza dubbio il valore di pausa narrativa per separare le due complesse dimostrazioni dell’immortalità dell’anima e il passaggio da una all’altra, ma la funzione principale è un segnale di attenzione per il fruitore del dialogo, affinché non resti incompreso il messaggio protrettico dell’intera sezione. Questo brano, infatti, punta tutta l’attenzione sulla paura della morte e richiama quindi la memoria del fruitore alla cornice del dialogo sull’anima, ovvero l’ultimo giorno di vita di Socrate.

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Il tema trattato

In questo dialogo l’intermezzo riguarda uno dei temi fondamentali per quelle filosofie che mirino alla cura dell’uomo, ovvero la paura della morte, e già fin d’ora si nota come questa ‘pausa’ nel dialogo non possa non avere un certo peso, proponendo una riflessione, per quanto breve, su un tema così significativo.

L’attenzione alla paura della morte va di pari passo con la cura dell’anima e con la concezione dell’immortalità della stessa, dal momento che solo chi comprende le vere qualità dell’anima è in grado di non avere più paura della morte del corpo. Allo stesso tempo, per raggiungere questa capacità di com-prensione, si deve far ricerca con un metodo razionale: quello proposto non può che essere la dialettica.

Il tema trattato in questo intermezzo rende importante tutta la sezione per via della sua centralità nella cura dell’anima: chi ha paura della morte non può che vivere ossessionato dal momento della fine, perciò liberarsi di que-sta paura è il primo passo per una vita più felice.

La paura della morte è dovuta solamente alla mancata comprensione dell’immortalità dell’anima, perciò tutte le filosofie che miravano alla cura dell’anima e dell’uomo hanno dovuto scontrarsi con questo argomento, per far riflettere e soprattutto per tranquillizzare i loro discepoli. Discepoli che al tempo di Socrate potevano essere facilmente raggiunti nella pubblica piazza e che invece con il passare dei secoli si sono sempre più allontanati dalla possibilità di un colloquio vis-à-vis con il maestro, come nel caso dell’epicureismo63.

63 Così si giustifica la necessità della sua peculiare forma di trasmissione del sapere,

il trattato, le epitomi, le epistole e le massime: il bisogno di raggiungere e tranquil-lizzare i discepoli in un mondo troppo vasto per essere abbracciato.

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Prima ancora di pensare alla dottrina epicurea in merito alla morte, che ha preso questa paura e ne ha fatto uno dei cardini fondamentali del quadru-plice farmaco, si può pensare a tutti i pensatori greci che si sono occupati dell’immortalità dell’anima64: gli orfici, Pitagora e i pitagorici con il concetto di reincarnazione e metempsicosi; Omero, con l’immaginifico aldilà delle νέκυιαι; Talete sarebbe stato il primo a definire l’anima immortale65, anche se la testimonianza di Diogene Laerzio (1.24) è da prendere con prudenza; Anassimene, con l’aria come principio vitale; Eraclito e la sua anima com-plessa e insondabile per via della profondità del λόγος66.

In questo intermezzo, poi, insieme alla proposizione del dubbio sull’immor-talità dell’anima da parte di Simmia e Cebete, viene presentato anche il ri-medio ad esso collegato. Si assiste infatti alla tematizzazione della cura dell’anima attraverso gli incantamenti di Socrate, una capacità presentata an-che in altri luoghi dell’opera di Platone67. L’attribuzione di quest’abilità a So-crate trova le sue motivazioni prima di tutto nell’utilizzo degli incantamenti in ambito medico, rendendo così la cura una medicina a tutti gli effetti68. In secondo luogo è questo un punto molto sensibile che va a toccare il problema dell’apparente contrapposizione tra la razionalità del metodo socratico e l’ir-razionalità delle ἐπῳδαί69. È infine un argomento di primaria importanza per l’interpretazione letteraria di Platone, dal momento che questa raffigura-zione “terapeutica” del metodo socratico porta con sé molti interrogativi

64 Cfr. il fondamentale Rohde 1966, 335ss.

65Ἔνιοι δὲ καὶ αὐτὸν πρῶτον εἰπεῖν φασιν ἀθανάτους τὰς ψυχάς: ὧν ἐστι

Χοιρίλος ὁ ποιητής

66 Oscura come Eraclito è anche la problematica della αναθυμίασις dell’anima,

eva-porazione

67 Ad esempio Charm. 175a–176b; Menex. 80a–b; Phaed. 77e–78a; Theaet. 149c–d and

157c; Crit. 54d; Symp. 215c–e; Resp. 608a

68 Capra 2014, in particolare 14-15 69 Gaiser 1984, 45ss.

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sulle motivazioni di una scelta simile da parte di Platone, coinvolgendo an-che la concezione della ricerca filosofica come μεγίστη μουσική70, di cui si tratterà in seguito71.

70 Capra 2014, 15: «The twofold “therapeutic” characterization […] squares well with

an aspect of Plato’s writings that no reader can fail to notice: the dialogues abound in myths, metaphors, similes, ethopoeias, and so on; i.e. quintessentially poetic de-vices aimed, one might say, at influencing people’s minds and emotions».

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La traditio lampadis

In secondo luogo è in questo brano che si trova un’allusione particolare na-scosta sotto l’affermazione che sarà probabilmente più facile trovare un in-cantatore già nel gruppo dei discepoli piuttosto che altrove, per quanto l’El-lade sia grande. L’allusione a cui faccio riferimento è quella di una sorta di “passaggio di testimone” tra Socrate e Platone, in particolare di una traditio

lampadis, una consegna della fiaccola dell’ispirazione poetica da un maestro

a un allievo, da un precursore a un erede72, in occasione di un avvenimento cruciale nella vita di entrambi. L’evento non può che essere la morte di So-crate, un punto di svolta nella vita dei suoi discepoli e in particolare dell’al-lievo assente in quel giorno, Platone73. Capra74 collega l’assenza di Platone75 in carcere il giorno della morte di Socrate all’invito a cercare l’incantatore μετ᾽ ἀλλήλων: Platone, esplicitando la sua assenza, si mette in risalto: è que-sto un espediente che può forse essere legato al nome di chi sarà il successore capace di incantare le anime come Socrate.

72 Blondell 2002, 88: «Plato himself might paradoxically become not only Sokrates’

“father” – as his literary creator – but also the son and heir who makes possible his continued reproduction»

73 Cfr. e.g. Notomi (2013), 55: «This observation about the absence of the author

seems to underline the fictional – or at least indirect – nature of Plato’s report of the whole event»; cfr. anche n.17

74 Capra (2016), 131: “This is the one and only time that the name of Plato appears in

the dialogues”, senza contare le occorrenze dell’Apologia che lascia in nota.

75 Si trova qui una delle tre occorrenze del nome di Platone (Ap. 34a1 ὅδε δὲ

Ἀδείμαντος, ὁ Ἀρίστωνος, οὗ ἀδελφὸς οὑτοσὶ Πλάτων; Ap. 38b6 Πλάτων δὲ ὅδε, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, καὶ Κρίτων καὶ Κριτόβουλος καὶ Ἀπολλόδωρος κελεύουσί με τριάκοντα μνῶν τιμήσασθαι; Phaed. 59b10, Πλάτων δὲ οἶμαι ἠσθένει.), e di certo non può essere un caso.

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