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R UOLO , I DENTITÀ , R IFLESSIVITÀ DEL MUSEO ETNOANTROPOLOGICO

Per i musei che oggi vogliono dirsi etnoantropologici non si tratta di difendere e dare testimonianza nelle sale, in maniera chiusa, di una sorta di matrice autentica: dato che l’identità locale è un processo in costante evoluzione allora necessariamente il museo deve trovare una sua dimensione in tale processo dinamico, deve tenere aperto un canale di scambio e di relazioni con l’esterno, a partire dalla sua collezione ma senza fossilizzandosi su essa.46

Infatti nell’ultimo caso, per chi scrive, si ha un museo che si limita ad informare, a conservare in modo molto tecnico e formale, dove si va solo per recuperare “i bei tempi passati”, nel primo caso siamo in presenza di un museo che forma, dove si va per riconiugare il passato con il presente e il

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CIRESE A.M., Oggetti, segni, musei, Torino, Piccola Biblioteca Einaudi, 1977. Il volume rappresenta un momento importante per la museologia e la museografia antropologica, oltre ai citati saggi, contiene, non in ordine cronologico, saggi relativi a sue riflessioni su diverse mostre visitate e poi altri saggi sull’arte popolare. Per dare l’idea della situazione italiana basti dire che dopo il volume di Cirese del 1977, si deve aspettare Massimo Tozzi Fontana con I musei della cultura materiale nel 1984, G. Bronzini con Homo

laborans nel 1985, Roberto Togni Per una museologia delle culture locali nel 1988, gli Scritti etnografici di

Giuseppe Šebesta nel 1991 e il 1996 Il bosco delle cose di Pietro Clemente per avere altre opere di ampio respiro in materia.

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Cirese aveva frequentato la Scuola di Perfezionamento in scienze etnologiche diretta da Raffaele Pettazzoni a Roma e aveva avuto un importante momento di formazione in Francia ma non in campo specificatamente museografico, aveva visitato il Musée de l’Homme e il Musée des Arts et des Traditions

populaires di Parigi. La sua riflessione inizia nel 1967 dopo aver visitato molti musei europei tra cui il museo

di Skansen in Svezia, e quello in Romania, il Museo della Scienza di Monaco. Per approfondimenti si veda il capitolo relativo alla storia dei musei.

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Paolo Mantegazza in un articolo del 1902 intitolato Gli oggetti metaforici in Etnologia lega alla musealizzazione le indagini sulle dinamiche acculturative , Aldobrandino Mochi, nello stesso periodo, parla dell’oggetto come prezioso documento espressione dell’anima popolare, Luigi Pigorini, nell’allora Regio Museo Preistorico Etnografico, considera gli oggetti strumenti utili per la comparazione evoluzionista, Lamberto Loria dedica alcune riflessioni alle modalità di raccolta delle collezioni, nel 1912 pubblica il

Bollettino della Società di Etnografia italiana, poi diventata Lares che raccoglie diversi articoli in materia.

Solo a titolo di esempio, si cita, l’articolo del 1933 di Carlo Arù il quale enfatizza il ruolo educativo e divertente dei musei e si inspira a quelli svedesi; nel dopoguerra Paolo Toschi denuncia la rimozione del patrimonio demoetnoantropologico, le politiche culturali che non ne consentono la giusta visibilità e tutela,

ma mai in maniera organica e puntuale. Per maggiori dettagli si veda: MARIOTTI L., Antropologia museale. I

luoghi del dibattito, della formazione, del mestiere, in Ricerca folklorica, n.39, 1999, pp. 101-116.

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Cfr. MAGGI M., Musei alla frontiera. Continuità, divergenza, evoluzione nei territori della cultura,

futuro; il museo-cassaforte ha perso ogni contatto con la comunità e il territorio che vuole rappresentare ma i musei DEA sono, per antonomasia, luoghi di contatto, dove si dovrebbe cercare di creare coesione sociale. Non più scrigno di memorie, ma una ridefinizione identitaria che lo vede in prima linea nella crescita civile e sociale della comunità.

Quello che contraddistingue ogni istituzione museale, di conseguenza anche i musei DEA, è il fatto che appartengano contemporaneamente sia al circuito della tutela e conservazione dei beni culturali, sia a quello della loro gestione e mediazione47; acquisire, conservare, documentare, ricercare, comunicare, interpretare, esporre, rendere accessibili: ogni museo è quotidianamente impegnato in queste attività. Per svolgerle al meglio, oggi, il museo deve definire il suo ruolo in modo preciso, e il suo ruolo non è certamente facile perché, come suggerito da Daniele Jalla48, deve essere, contemporaneamente, un presidio attivo di tutela e uno spazio per la mediazione culturale locale. Essere un presidio attivo di tutela comporta una cooperazione interistituzionale, difficile da raggiungere, ma è innegabile il ruolo strategico che il museo può giocare, attivamente, sul campo: progetti di catalogazione, monitoraggio dei beni, consulenze, acquisire beni, fare ricerca, collaborare alla formazione di operatori, comunicare i risultati dei suoi lavori alla comunità di riferimento. Si deve aggiungere che molti musei DEA svolgono questo ruolo, ma tra mille difficoltà, grazie alla buona volontà di singoli e volontari, e a rapporti personali e non formali; questo ruolo è fondamentale se il museo non vuole perdere il rapporto con il territorio.

Essere uno spazio per la mediazione culturale locale non significa solo organizzare mostre e divenire un luogo di attrazione turistica, significa creare uno spazio per la crescita e l’arricchimento personale, per la socializzazione e lo svago; è necessario che i musei siano dinamici e, proprio per questo, i musei etnoantropologici possono avere, anche in questo caso, un ruolo potenzialmente essenziale: possono essere più facilmente di altri un polo locale di attività di valorizzazione del patrimonio culturale della comunità perché più predisposti a leggere il territorio e interpretare le sue aspettative (attuali) e le sue risorse.

Il museo antropologico non può più limitarsi alle sue funzioni di conservazione, documentazione e restauro, l’immaterialità deve essere necessariamente presente in tutte le sue accezioni, è necessaria una rappresentazione dinamica dei vissuti, una sintesi dell’interpretazione fatta dall’antropologo nel suo studio di campo. Il museo demoetnoantropologico deve educare al relativo e al rispetto: è il luogo “delle differenze culturali, il luogo dove conoscere l’altro e l’arcaico, per poi passare a riconoscere criticamente sé stessi, la propria cultura, acquisendo

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Le ragioni di tale ambivalenza si rimandano al secondo e al terzo capitolo del presente lavoro.

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quell’autocoscienza storiografica che è il messaggio ultimo del circuito museografico, oltre che l’irrinunciabile premessa ad ogni convivenza civile”.49

Se si vuole ripercorrere brevemente il dibattito teorico sul ruolo del museo DEA, si deve innanzitutto ricordare che, nel panorama europeo degli anni Sessanta, è la Nuovelle Museologie francese a dettare le linee guida anche per la museologia e la museografia etnografica italiana: la figura più importante è senza dubbio Georges Henri Rivière 50, il quale aveva una forte concezione del legame esistente tra museo e patrimonio culturale. Il legame tra museo e contesti si collegherà con Rivière a quello di ambiente, tanto poi da portare il museologo francese alla collaborazione nella nascita del concetto di ecomuseo e di musei della comunità.51 Sarà poi Hugues de Varine52 a sviluppare ulteriormente il discorso, dagli anni Settanta ad oggi, con una museologia nella quale il patrimonio culturale è qualcosa di più di un insieme di oggetti e di cose, è un qualcosa da conservare e da trasmettere rimanendo consapevoli delle sue trasformazioni, dando interesse alla’identità locale, alla partecipazione attiva della comunità; il museo, per de Varine, si fonda sul territorio,sul patrimonio e sulla popolazione locale che tale patrimonio deve curare e gestire. Gli abitanti non sono il pubblico, il museo parla la loro lingua, si rivolgono al museo come mediatore, sono coinvolti in prima persona nella tutela.

Per quanto riguarda il quadro internazionale invece si deve segnalare l’attività del canadese Freeman Tilden53, che si sintonizza alla museologia di Rivière, parla di interpretazione di patrimoni culturali, non dimenticando mai che chi va al museo non cerca una lezione, ma un momento ricreativo. L’importanza del suo lavoro è proprio quello di aver evidenziato come non esista un pubblico, ma “i pubblici” ognuno con aspettative e necessità comunicative diverse. Importante anche il saggio di Duncan Camerun: Il museo: tempio o forum del 197154, che introduce il concetto, poi molto citato da museologi italiani, del museo forum, luogo di dibattito e di sperimentazione, con un occhio di riguardo nei confronti della realtà sociale. In passato i musei erano più simili a templi che custodivano oggetti carichi di valore e significati, i visitatori davano per scontato che, se l’oggetto era in un museo, non solo è autentico ma con un alto valore, si andava al museo per

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LATTANZI V., Il museo etnografico nelle derive della modernità, in KEZICH G., TURCI M. (a cura di),

Caratteri, rappresentazioni e progetti dei musei antropologici, demologici ed etnografici, pag.91.

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Allievo di Paul Rivet, nominato conservatore del Musée National des Arts et Traditions Populaires (MNATP) nel 1937. Per avere un’inquadratura generale sulla figura di Rivière e la sua attività si vedano: GORGUS N., Le magicien des vitrines, Parigi, Fondation Maison des sciences de l’Homme, 2003; DUCLOS J.,

Depuis Rivière…, in Le Monde alpin et rhodanien, n.35, 2005, pp. 139-150. La rivista è edita dal Centre

alpine et rhodanien d’Ethnologie di Grenoble.

51

Si veda pag. 70 del presente capitolo.

52

Per un approfondimento si veda: DE VARINE H., Le radici del futuro, Bologna, Clueb, 2005.

53

Per approfondimenti si veda: TILDEN F., Interpreting our heritage, North Carolina, Ed. Chaper Hill, 1957.

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Il saggio è presente in diverse opere, si segnala: RIBALDI C. (a cura di), Il nuovo museo, Milano, Il Saggiatore, 2005, pp.45-63.

confrontare la propria percezione della realtà con quella oggettivata e socialmente condivisa che il museo rappresentava; il museo forum riafferma la sua funzione sociale e si apre al confronto, alla sperimentazione, al dibattito pubblico, accogliere attività inedite.

La citata relazione di Cirese segna un punto di svolta fondamentale nel panorama italiano perché evidenziava l’esistenza, in quel periodo storico, di due correnti museologiche: la ricostruzione integrale attraverso, ad esempio, la forma dei musei all’aperto, e quella del museo, utilizzando l’espressione coniata da Cirese , come “metalinguaggio”. Il museo come metalinguaggio non contempla una ricostruzione, ma una riflessione critica sull’oggetto esposto: “Il museo è altra cosa dalla vita; è perciò assurdo volerla introdurre in modo immediato. […] Per aderire alla vita, il museo deve trasporla nel proprio linguaggio e nella propria dimensione, creando un’altra vita che ha le proprie leggi forse omologhe a quelle della vita reale, ma comunque diverse da esse”.55

Quindi i musei sono una cosa diversa dalla vita: “per definizione immobilizzano ciò che è mobile, cristallizzano ciò che è destinato a trasformarsi […] e sottraggono l’uomo al complesso di cose che viceversa avevano senso con lui e per lui”56 e per passare dal vivo vitale al vivo museografico Cirese individua supporti tecnici che si aggiungono a pannelli e alla conservazione degli oggetti decontestualizzati creando il metalinguaggio: fotografie, film, supporti magnetici, uniti all’ indagine delle connessioni più profonde attraverso l’attività di ricerca. Interessante anche il rapporto tra modalità di conoscenza e di esposizione: “conoscere significa sempre introdurre una discontinuità nell’indistinta continuità del reale, per rintracciare le linee di continuità che legano i fatti e le cose al di sotto della superficie percepibile al livello del vissuto” il museo quindi nelle scelte dell’allestimento deve essere vivo e per farlo deve “rompere l’unità superficiale di ciò che è empiricamente contestabile, per ritrovare linee di unità più profonde e sostanziali ed altrimenti non percepibili”.57

Per Giuseppe Šebesta, i cui interessi sono focalizzati principalmente sulla museografia più praticata che teorizzata, il museo è una lingua ben distinguibile; parla di museo non come “cassaforte” ma “propulsore”, un luogo che consenta di conoscere il proprio passato per affrontare il presente, che chiarisca l’identità del gruppo58 e rappresenti, nel suo caso, l’esperienza materiale dell’uomo trentino.

È noto il suo interesse verso i cicli agrari, i canali tecnologici, le fasi di trasformazione, il suo desiderio di “rivivificare il lavoro delle mani” attraverso i laboratori che recuperano la manualità; in

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CIRESE A.M., Oggetti, segni, musei, Torino, Piccola Biblioteca Einaudi, 1977, pag. 43.

56

Ivi, pag. 40.

57

Ivi, pag. 49.

58

Per dettagli si veda ŠEBESTA G., Scritti etnografici, Trento, MUCGT, 1991; KEZICH G.,MOTT A., Guida

sintesi, vede il museo come un laboratorio di ricerca storico-tecnologica con un allestimento e un modo di comunicare che ancora resta peculiare del museo di cui fu il fondatore: il Museo degli Usi e Costumi della Gente Trentina a San Michele all’Adige (MUCGT). In particolare i cosiddetti canali chiusi: sezioni specifiche dove viene esposto e proposto un discorso in senso evolutivo- temporale; inoltre parla di cellule museo (es. forgia nel canale del ferro) con all’interno vetrine per contenere i manufatti-prodotti realizzati, in forma di semi-lavorati disposti in serie; per approfondire si utilizzano anche i nuclei museo che evidenziano tipi di lavoro (es. la bottega del calzolaio, dello stagnino…). Inoltre abolisce quasi del tutto le didascalie in favore di riferimenti iconografici, gli oggetti, smontati, dissezionati, messi in ordine seguendo la filiera di riferimento, sono offerti senza parole.

Negli anni successivi il dibattito teorico subisce un’impennata e si creano le basi della museologia etnoantropologica: Tozzi Fontana59 individua tre tipologie di museo, il museo- collezione (stampo positivistico), il museo-vita (rappresentazioni realistiche di vita e lavoro) e il museo-discorso ciresiano, ne allarga però il concetto estendendolo non solo ai musei ma anche alla salvaguardia in sito, alla creazione di parchi auto documentativi, sottolineando la differenza di linguaggi e modelli espositivi tra mostra permanente (rappresenta il fulcro del rapporto tra museo e pubblico) e esposizione temporanea.60

Bronzini61 invece si occupa principalmente dello sviluppo e progettazione di musei locali, la sua museografia è sia teorica che attenta all’allestimento, condivide il lavoro di Cirese e approfondisce il ruolo del museo intendendolo soprattutto come luogo del dialogo con le tradizioni vive, presta attenzione alle tecnologie di comunicazione e parla poi di territorialità culturale del museo, di stratificazione di ogni cultura popolare. Il museo ri-offre la visibilità particolareggiata di un patrimonio culturale e lo rende collettivo, il museo demologico non è composto “solo da cose ma da rapporti con le cose”62 ma deve anche avere una funzione aggiuntiva e specifica, quella di tramandare e di far ritrovare noi stessi nelle cose passate. I musei di tradizioni popolari raramente hanno delle collezioni uniche, gli oggetti appartengono alla quotidianità quindi sono le pratiche e il contesto ad avere importanza: Molto interessante il fatto che già alla metà degli anni Ottanta, lo studioso sottolineasse l’importanza di un museo aperto alle trasformazioni e aderire al tessuto sociale, mantenere un contatto con la realtà storica contemporanea se vuole essere testimone critico e protagonista.

59

Responsabile dei programmi di cultura materiale dell’Istituto per i beni artistici, culturali e naturali dell’Emilia Romagna.

60

Cfr. TOZZI FONTANA M., I musei della cultura materiale, Roma, NIS, 1984.

61

Scomparso nel 2002, era docente emerito all’Università di Bari e direttore, della rivista Lares.

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BRONZINI G.B., Homo laborans. Cultura del territorio e musei demologici, Galatina, Congedo Ed., 1985, pag. 28.

Roberto Togni63 ha una grande attenzione nei confronti dei musei etnografici e nell’attività didattica, così come sottolinea l’inscindibilità tra cultura e ambiente, tra beni culturali e territorio, sottolinea la grande specificità geografica, storica, ambientale e culturale presente in Italia.64 È molto importante la riflessione di Togni perché focalizza l’attenzione sui musei come amici della collettività, quali centri di documentazione, di cultura, versi e propri luoghi di conservazione attiva di memorie, identità ma anche osservatori del territorio e occasioni di svago intelligente.65

Dagli anni Novanta in poi il dibattito si rivela estremamente fecondo sia in campo internazionale che italiano, un impulso notevole è stato garantito dal contributo della neonata Sezione di Antropologia museale in seno all’Associazione Italiana per le Scienze Etnoantropologiche (AISEA)66, e dalla rivista di Antropologia museale pubblicata da SIMBDEA67; l’importante partecipazione di specialisti del settore, curatori, accademici, operatori museali, nelle diverse occasioni di incontro68, hanno fatto emergere negli anni elementi particolarmente significativi per l’evoluzione del dibattito teorico.

In particolare si dà molta attenzione alle potenzialità che il museo DEA offre per comunicare le modalità con cui, in un dato territorio, si è sviluppato il rapporto tra uomo e ambiente dando luogo allo sviluppo di una specifica identità locale; il museo viene a costituirsi come ponte di collegamento tra conoscenza del proprio passato, comprensione del presente e progetti per il futuro, quindi stimolare una riflessione tra vecchie e nuove identità.

Il significato sociale dei musei etnoantropologici non si esaurisce nella conservazione, ma nella promozione di una riflessione e di un impegno sociale più ampio, “i processi attraverso i quali si costruisce senso e si contrattato o si discutono le identità, all’interno di istituzione come i musei, forniscono la costituzione, non scritta e in costante mutamento, della società civile”.69

63

Docente di museologia all’Università di Trento fino al 2008.

64

Cfr. TOGNI R., Per una museologia delle culture locali, Trento, Università Studi Trento, 1988. In

particolare il primo capitolo: Museografia e cultura popolare e contadina.

65

Cfr. TOGNI R., Musei e forze culturali locali contro la “desalinizzazione” delle Alpi, in Quaggiù sulle

montagne. Identità, immaginario, turismo, pascoli, Atti del Seminario Permanente di Antropologia Alpina SPEA 11, Annali di San Michele, n.22, 2009, pp. 361-369.

66

Nata nel 1992.

67

Società Italiana per la Museografia e per i Beni demoetnoantropologici, la rivista è nata nel 2002.

68

Soprattutto tra il 1993 e il 1997. Ad esempio il Seminario Nazionale di Antropologia museale intitolato

Caratteri, rappresentazioni e progetti dei musei antropologici, demologici ed etnografici, tenutosi a Roma e

a San Michele all’Adige (TN) tra giugno e luglio del 1993; Professionalità e Formazione, Esposizione e

Comunicazione del 1995 a Santarcangelo di Romagna; Sapere, Comunicare, Trasmettere a Siena nel 1997.

69

Cfr. KARP I., Musei e comunità: la politica dell’intervento culturale pubblico, in I. KARP, C. MULLER KREAMER,S.LAVINE (a cura di), Musei e identità: politica culturale delle collettività, Bologna, Clueb, 1995, pp. 7-29. La citazione è a pag. 16. Karp è il curatore delle raccolte di Etnologia africana presso la sezione di Antropologia del National Museum of Natural History alla Smithsonian Institution di Washington.

Carlo Nobili70 sottolinea l’importanza di sperimentare collaborazioni insolite, riprendendo l’idea del citato museo forum di Camerun, evidenzia l’esigenza di un museo che diventa così luogo di coralità, confronto, di dibattito, di sperimentazioni e dove la figura professionale dell’antropologo svolge il suo ruolo di mediazione tra gli oggetti (definiti dallo studioso i nativi) e gli utenti; per Nobili didattica in museo, significa educazione alla diversità, trasmissione dei valori culturali, inoltre presta attenzione a dividere l’utenza di un museo etnografico in pubblico locale che condivide la stessa cultura dei curatori, pubblico nativo esterno e pubblico nativo interno (le comunità a cui gli oggetti esposti appartengono). Nobili insiste molto sulla necessità che la presenza del curatore si palesi nell’allestimento, sottolineando l’aspetto interpretativo-riflessivo, della comunicazione museale.

La riflessione sull’aspetto riflessivo delle scelte museografiche e il ruolo del museo nella promozione delle differenze sono i cavalli di battaglia di un gruppo di studiosi che chi scrive definisce “linea Pigorini”71, infatti anche Vito Lattanzi72, ha da sempre una grande attenzione per l’aspetto riflessivo delle operazioni museologiche, non solo: è necessario osservare i contesti da cui provengono gli oggetti e ascoltare chi abita quei contesti, questo per lui significa elaborare “riflessi di identità”, il museo deve essere integrato alla realtà territoriale in cui è inserito, deve essere uno spazio di incontro, parla del museo etnografico come di una scuola aperta alla conoscenza delle differenze, luogo di confronto tra tradizioni più o meno locali e altre tradizioni culturali.73

La “linea Pigorini” evidenzia un dibattito teorico molto attento ai possibili risvolti del museo come centro di ricostruzione identitaria ma anche di didattica dei rapporti tra diverse culture (siano esse legate al nostro passato che al presente), ecco che così il museo non offre solo documentazione storica, ma offre la possibilità di comprendere i processi di circolazione culturale oggi quanto mai

70

Responsabile della Sezione America del Museo Nazionale Preistorico Etnografico “Luigi Pigorini”.

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Si tratta infatti di un gruppo di studiosi le cui attività ruotano attorno al Museo Nazionale Preistorico Etnografico “Luigi Pigorini” di Roma. Per approfondimenti sulla storia del Museo si veda pag. 41. Sito ufficiale: www.museo pigorini.it.

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Etnoantropologo, direttore della Sezione Culture del Mediterraneo, della Biblioteca Specializzata e Responsabile del Servizio Didattica del Museo Nazionale Preistorico Etnografico “Luigi Pigorini” di Roma,

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