• Non ci sono risultati.

A fronte delle tante e ripetute dichiarazioni in favore della manutenzione, bisogna interrogarsi su quali siano le ragioni della sua sostanziale inosservanza, inadempienza.

Le mancate manutenzioni hanno contribuito a generare lo stato di grave e continuo deterioramento del patrimonio archeologico, storico, artistico e ambientale italiano.

Non sembrano esservi spiegazioni sostenibili per giustificare le carenze di manutenzione: dal punto di vista culturale sono state più volte ribadite, dal dibattito e dalla normativa cogente, l’importanza e l’esigenza di una manutenzione preventiva ma probabilmente bisognerebbe indagare le ragioni per cui le comunità locali non si sentono coinvolte in processi di riconoscimento dei valori culturali e identitari dei luoghi, tali da mobilitarsi in azioni di cura, mentre sarebbe auspicabile un loro coinvolgimento nell’individuazione delle risorse da valorizzare per evitare “una banalizzazione del concetto di identità locale”77; dal punto di vista

economico è facilmente immaginabile che i costi delle mancate manutenzioni sarebbero ben più

rilevanti di quelli di una pratica di prevenzione costante e assidua; dal punto di vista tecnico le conoscenze dell’attività ispettiva e delle pratiche di piccola manutenzione costituiscono un patrimonio ancora poco diffuso della cultura tecnica; infatti, le condizioni di degrado, spesso causate da carenti o errate manutenzioni, non sono in genere dovute a limiti nelle conoscenze scientifiche, ma a difetti e omissioni di tipo conoscitivo, previsionale, organizzativo.

Si potrebbe agire su diverse categorie di soggetti: i cittadini, innanzitutto, dovrebbero essere informati dell'importanza, anche sociale, di una corretta e ben pianificata manutenzione; le

imprese dovrebbero essere aiutate a crescere sul piano organizzativo e gestionale per potere

competere nel mercato europeo, offrendo servizi di qualità; le istituzioni pubbliche e culturali e le

Università potrebbero avviare progetti formativi orientati alla qualificazione di tecnici specializzati

sui temi della conservazione al fine di identificare nuovi profili professionali.

Quindi, le cause andrebbero ricercate in una scarsa volontà e insufficiente motivazione nell’applicazione di prassi operative piuttosto semplici; in una sottovalutazione delle situazioni di rischio in quanto si tende a non prendere seriamente in considerazione una situazione potenzialmente rischiosa proprio perché, non conoscendo o sottostimando i danni possibili, si tende a minimizzare le ricadute: la propensione è quella di sottostimare i rischi più piccoli, comuni e a sovrastimare i rischi più rari (es. danno sismico) senza considerare i piccoli e continui

77 A. RONCHI, Edificato storico e comunità locali. La partecipazione come strategia di conservazione preventiva, in Pensare la prevenzione. Manufatti, usi, ambienti. Atti del convegno di studi scienza e beni culturali (Bressanone 13- 16 luglio 2010).

danneggiamenti dovuti ad eventi quotidiani, che potrebbero essere alla lunga ugualmente devastanti; in una sottovalutazione del valore etico della cura: “Per costume ideologico, forse

peggio per una sorta di abitudine, siamo dunque orientati a valutare il concetto di cura non più nella sua natura di processo ma, anche per un’attardata eredità positivista, unicamente in rapporto al suo risultato, nel suo esito finale di fallimento oppure di guarigione […] Oggi curare non può che significare favorire una trasformazione in senso evolutivo e non più ricomporre una struttura originaria già data, e il centro dell’interesse non può più essere la patologia ma la fabrica”78.

A supporto dell’idea di scarso interessamento e volontà di agire verso un’operatività manutentiva programmata e assidua, si segnala un’indagine effettuata nel 2001 dal professore del Politecnico di Torino Luigi Bobbio rivolta a un piccolo campione di soggetti, esperti del settore, che avevano in cura dei monumenti79, per comprendere quali ostacoli o difficoltà

impedissero lo sviluppo di una manutenzione programmata e quali gli incentivi per poterli superare.

Il quadro desolante sottolineava la preminenza di altri fattori rispetto alla mancanza di incentivi da dare ai soggetti proprietari. Mostrava, infatti, da un lato scetticismo verso la manutenzione programmata, in quanto questa avrebbe consentito un risparmio solo nel lungo periodo (perché nel breve bisognava sommare la spesa di manutenzione a più urgenti interventi di restauro); dall’altro lato evidenziava i motivi per non fare conservazione programmata (per i politici come per gli architetti sarebbe stato preferibile puntare su grandi interventi per un ritorno di immagine, per maggior prestigio, per un guadagno più interessante).

Insomma, “L’incentivo è uno strumento utile, indispensabile per far fare a delle persone

delle cose che hanno già in mente di fare, ma non può essere sufficiente per far fare delle cose nuove che non vogliono o che non sanno fare”80, come a dire che non basta un contributo

finanziario per far attecchire una logica di manutenzione programmata e neanche attendere lo sviluppo di una conoscenza che guiderà l’azione in quanto “Learning by doing”81.

78 G. P. TRECCANI, In principio era la cura, in “Tema”, 3/1996, pag.138.

79 Si fa riferimento ad un articolo di Bobbio in cui il campione di 10 soggetti risulta essere composto da rappresentanti da una curia vescovile, due comuni, il FAI, l’Aler, una soprintendenza, l’Associazione dimore storiche, in L. Bobbio, Conservazione preventiva: strumenti tecnici, legislazione, incentivi , “TeMa” 3/2001.

80 L. BOBBIO, Conservazione preventiva: strumenti tecnici, legislazione, incentivi, in “TeMa”, 3/2001, pag. 73. 81 Ibidem, pag. 73.

Rimane, dunque, difficile l’applicazione operativa dei principi della manutenzione, sebbene in campo internazionale e nazionale sia stata riconosciuta e rivendicata la sua importanza.

Questo scollamento tra teoria e prassi è maggiormente evidente nel panorama italiano in cui si registra un’assenza di attività qualificate nel mercato dei beni culturali, sebbene si sia intrapresa una riforma in campo normativo, rendendo obbligatoria l’attività di manutenzione e riconoscendola con la prevenzione come attività portante del processo conservativo. “Le tre

definizioni dell'art. 29 del D. Lgs. 42/04 indicano le attività di conservazione, procedendo per gradualità dalla prevenzione alla manutenzione, fino al restauro, che viene correttamente considerato come l'extrema ratio dell'intervento di conservazione, finalizzato nel suo insieme al mantenimento dell'integrità materiale del bene, alla protezione e alla trasmissione dei suoi valori culturali. L'articolato recepisce pienamente l'avanzamento del dibattito scientifico degli ultimi due decenni in materia; dibattito che ha messo in evidenza il ruolo rivestito, nell'ambito dei provvedimenti conservativi, dall'attività di prevenzione e dall'attività di manutenzione, con particolare riferimento alla manutenzione programmata a scopo preventivo. La norma, peraltro, indica nella distinzione tra prevenzione da una parte, manutenzione e restauro dall'altra, la differenza tra l'azione preventiva volta a limitare le situazioni di rischio del bene nel contesto e gli interventi volti a mantenere l'integrità materiale del bene”82.

Altro problema riguarda l’ampia discrezionalità tecnica riconosciuta al responsabile del procedimento (R.U.P.) che non garantisce rigore e omogeneità di approccio: la pratica della tutela pertanto può essere soggetta a influenze di fattori esogeni. “L’arbitrarietà generata dalla

perdurante deregulation tecnica in fatto di tutela crea timore diffuso tanto nei confronti dell’Amministrazione titolare del potere di tutela quanto nelle procedure di appalto di interventi che ricadono nel campo di applicazione del Codice degli Appalti. Di qui, la tendenza a sfuggire ai controlli delle Soprintendenze, ma anche di aggirare di fatto la normativa degli appalti”83.

Questa condizione di disorientamento è alimentata dalla mancanza di una cultura della manutenzione che coinvolge tutti i soggetti partecipanti al processo, e dalla non responsabilizzazione dei gestori e degli utenti. “Per il comparto pubblico si rileva quasi

un’opposizione verso le pratiche conservative. Spesso e volentieri, per ragioni di carattere politico, ad una programmazione di pratiche manutentive di lungo periodo si preferisce ancora il

82 M. GUCCIONE, La conservazione (art. 29), in “Aedon”, 1/2004, pag. 3, 4.

83 S. DELLA TORRE, P. PETRAROIA, Norme e pratiche senza sistema, in “Economia della cultura”, 2/2008, pag.166.

grande restauro. Si pensa che la conservazione sia meno interessante, meno visibile e d’impatto sull’opinione pubblica […] Questa indolenza si ritrova in uno scarso livello di informazione delle amministrazioni pubbliche che non hanno la consapevolezza del loro ruolo e del patrimonio architettonico né le conoscenze e i mezzi per attuare una reale politica di conservazione. Le Regioni e i Comuni hanno grandi difficoltà a elargire finanziamenti e a pianificare budget e le Soprintendenze, troppo oberate di lavoro e scarne di personale, rincorrono unicamente il controllo dei restauri”84.

Quindi, l’utilizzo di gran parte dei capitali disponibili in grandi interventi o in emergenze, rappresenta un ulteriore ostacolo che rende difficoltosa la diffusione di una prassi basata sulla manutenzione assidua, la quale di certo potrebbe anche dipendere dalla ristrettezza di risorse economiche attualmente a disposizione, nonostante la legislazione statale e regionale preveda molteplici fonti di finanziamento rivolte ai Beni culturali (si veda il paragrafo 1.4.5).

84 A. CANZIANI, F. P. TURATI, Il patrimonio inaffidabile: la sfida della conservazione programmata, in V. Fiore, La cultura della manutenzione del progetto edilizio e urbano, Atti del convegno nazionale (Siracusa 24-25 maggio 2007), Lettera Ventidue, Siracusa 2008, pag.169.

2 LA MANUTENZIONE E LA TUTELA DEI BENI CULTURALI NEL PANORAMA

Documenti correlati