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Il quadro filosofico: il problema del nesso spazio-tempo

Per molti versi Il pensiero filosofico del Nove-cento è stato contrassegnato da una spiccata problematicità quanto al ripensamento – tal-volta in forme radicali, come nella fenome-nologia di Husserl, nell’ontologia di Heideg-ger, nella filosofia neo-marxista della storia di Benjamin, nella genealogia di Foucault o nella decostruzione di Derrida – del nesso tra tempo e spazio, con una sempre più spiccata accentuazione e problematizzazione dello spazio. È su questo presupposto che la tradi-zione filosofica novecentesca cui si è accen-nato ha guardato all’architettura come a un ambito in cui fosse possibile ritessere i fili di un discorso che abbandonasse le vecchie ge-rarchie metafisiche, e con un’operazione che esulasse dal tradizionale inquadramento che la filosofia, per sistema, ancora nel XIX secolo, assegnava all’architettura – solitamente con-siderata come la meno nobile delle belle arti in quanto la più legata alla materia – allo sco-po di aprire delle forme di confronto e di ana-lisi critica che si aprissero invece allo specifico dell’architettura, in una dimensione che per la filosofia non poteva essere che quella della filosofia della storia e di una riflessione sulla città all’epoca delle sue grandi trasformazioni occorse con la tarda modernità. Se una visio-ne metafisica consolidata che si ritrova per esempio in tutti modelli di sistema filosofi-co che si rifanno all’idea di classicità (quali, per esempio Hegel, o Schopenhauer) assegna all’architettura ruolo tutto sommato vicario e di complemento rispetto alle arti che sono espressioni più adeguate dello Spirito (anche dello Spirito del tempo) o della Vita, quali la poesia o la musica, ciò che mi interessa sot-tolineare qui è che, invece, nel corso del No-vecento è proprio il fatto che l’architettura o l’urbanistica abbiano a che fare con prassi di natura materiale o che si confrontino con la materia ciò che garantisce un rilancio della ri-flessione filosofica in termini che siano meno pregiudizialmente metafisici e, se possibili, lontani da astrattezze intellettualistiche. E che, su questa scorta, possa essere avviato un dialogo meno pregiudicato con le discipli-ne che implicano un pensiero dello spazio. In altre parole, il cambio di paradigma in

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autism-friend-suto. Se la fenomenologia di Husserl, con

l’in-tero plesso delle sue ramificazioni, ha avuto il grande merito di accentuare – e di proble-matizzare – il nesso teoria-prassi nel senso della concretezza, è anche vero che questo nesso ha posto anzitutto al centro un’analisi della dimensione spaziale a partire dal vissuto soggettivo e intersoggettivo, da caratterizzare come interrogazione rinnovata sul senso del rapporto sociale. Così, la fenomenologia, tra l’altro, ha dato grande rilievo a nozioni come quelle di intenzionalità, di corpo proprio, di corpo oggettivato e di “ambiente circostante” (Umwelt) che hanno permesso di intendere il rapporto tra il soggetto e lo spazio in termini dinamici, relazionali e d’interazione recipro-ca tra il corpo vissuto (il Leib) e gli oggetti collocati nello spazio, in particolare quegli “oggetti” sui generis che sono gli altri sogget-ti. Per la fenomenologia, ogni spazio acquista la sua dimensione di senso (razionale) solo grazie all’interrelazione vissuta in una rete di rapporti che sono anzitutto “viventi” e che è compito della descrizione filosofica portare sul piano dell’indagine riflessiva. In altre pa-role, l’importanza della fenomenologia come metodo d’indagine dello spazio consiste nel porre al centro dell’analisi le forme di rela-zione che compongono il “mondo-della-vita” (Lebenswelt) in quanto non-tematizzate. Lo sguardo teorico le sottopone a descrizione accurata ma non le fa diventare oggetto d’in-tervento di trasformazione tecnica. In questo senso, il privilegio del momento del theorein, dell’osservazione, richiede un esercizio della distanza che è connesso con il metodo stesso della epoché fenomenologica, ossia con quella sospensione del giudizio – anche dubitativa e scettica – mediante la quale si accede a una descrizione dell’oggetto che miri al massimo della concretezza. Ora, il momento di una

pratica della distanza come pratica teorica è

as-sunto come qualificante, oltre che come cor-rettivo necessario per ogni approccio di tipo empirico. Così, al significato svalutativo del termine “distanza”, come prodotto di un’ide-ologia economicistica volgare che nega ogni tipo di istanza sociale come “forma-di-vita” in quanto afferma surrettiziamente la negazione della società, possiamo invece contrapporre una “distanza” come necessaria tappa meto-dologica per la comprensione di fenomeni pluristratificati come quelli dell’abitare. Ma tale tappa è propedeutica per ritrovare – nel movimento stesso con cui l’osservazione diventa produzione di senso – tutta la polie-dricità dell’abitare come forma di vita e di relazione, da sempre inserito in una trama di rapporti intersoggettivi che sono il frutto dell’intervento plurisecolare di una comu-losofia del Novecento, ma solo una sua parte,

per quanto cospicua, nelle sue innumerevoli ramificazioni teoriche, è stata in grado di ri-definirsi in modo tale da poter aprire il suo di-scorso all’urbanistica. Ad altre discipline ciò è riuscito prima e meglio, come per esempio nel caso della sociologia, o dell’antropologia. Ma una filosofia dell’urbanistica, o – meglio – una filosofia della città – ancora non si è data un profilo quanto a sapere riconoscibile, dota-to di un linguaggio proprio e di una gramma-tica, oltre che di oggetti che – c’è da ricordare – non possono che appartenere in primo luo-go all’urbanistica stessa. Come si è detto per altri saperi nel corso del Novecento, sembra che il problema di una “scienza senza nome” si profili, anche in questo caso, in tutta la sua rilevanza. Data l’importanza crescente che ha assunto l’urbanistica come scienza della pro-gettazione dello spazio urbano – non da ulti-mo a causa del sempre più massiccio fenome-no di urbanizzazione globale e dello sviluppo delle cosiddette “megacities” – si dovrebbe anzitutto chiarire quale ruolo può svolgere la filosofia in tale campo, dal momento ch’essa non possiede degli strumenti “di primo livel-lo” che dunque siano anche operativi, ma pos-siede piuttosto degli strumenti di “secondo li-vello”; che possano permettere all’urbanistica di riconoscere l’esistenza di meta-oggetti di sapere, con la possibilità di assumerli come tali e di farli diventare a loro volta operativi nell’ambito dello specifico dell’urbanistica. Questo processo metodologico mi pare che debba essere posto anzitutto, allo scopo di rendere possibile un’interazione teorica tra filosofia e urbanistica che possa produrre de-gli effetti in termini di analisi progettuale, di forza teorica e di potenziale impatto pratico.

Proposte di lessico e di grammatica filosofica per l’urbanistica

Chiarito il presupposto di metodo che ci permette di legittimare – da non urbanisti, cioè da non specialisti rispetto allo specifico dell’urbanistica – un contributo in merito a una idea di progettazione degli spazi urbani in termini di prossimità, possiamo indicare ora alcune linee per la costruzione di un les-sico, con i suoi termini-chiave, che si ispiri ad alcuni percorsi filosofici del XX secolo, per poter pensare il nesso tra distanza e prossimi-tà, in modo tale che questi termini possano fungere da potenziali operatori teorici per un’urbanistica dell’inclusione e della cura. Ma procediamo, per quanto sinteticamente, con ordine. In primo luogo, indichiamo nel-la tradizione fenomenologica un orizzonte di pensiero che ci sembra ineludibile per ogni considerazione dello spazio come spazio vis-losofia verso una maggiore considerazione

dello spazio rispetto al tempo (che, tuttavia, non è stato obliterato dalle analisi filosofiche, che hanno dunque proceduto mediante una riarticolazione del nesso spazio-tempo) ha permesso di conseguire una prospettiva più concreta rispetto ai problemi della trasforma-zione della città tardo moderna e, nuovamen-te, in concomitanza con il recente e radicale mutamento dello spazio urbano avvenuto globalmente. Così, la perdita del presunto pri-vilegio metafisico della filosofia rispetto a saperi come l’architettura e l’urbanistica ha comportato un guadagno netto per il discorso filosofico che dal confronto con tali discipline ha quanto meno ricevuto un impulso a ricer-care – anzitutto sotto il profilo metodologico e in termini di elaborazione teorica e discor-siva. Non solo: questa ridefinizione della ge-rarchia dei saperi ha avuto anche un effetto di ritorno sulla stessa architettura (più che per l’urbanistica, a dire il vero) che talvolta ha tro-vato in nei percorsi della filosofia un motivo di interesse, d’ispirazione o perfino di spinta progettuale.

Per questa ragione, con questo mio interven-to – che vorrei legare specificamente al tema della cura come ricostruzione dello spazio urbano nell’epoca di un fenomeno che, nel caso dell’epidemia attuale di Covid-19 – vor-rei cercare d’indicare il terreno di un possibi-le incontro con una disciplina, come quella dell’urbanistica, alla quale spetta l’onere di

pensare lo spazio in termini che non

apparten-gano più alla tradizione del Novecento ma che, partendo da questa, possano permettere l’articolazione di un nuovo lessico dello spa-zio urbano nell’età in cui la densità della storia (con le sue drammaticità e le sue lacerazioni) viene erosa in nome dell’eterno presente del “sempre nuovo” in cui nulla cambia, se non le forme dello sfruttamento di ogni risorsa disponibile, di una distribuzione asimmetrica delle risorse, di una loro distruzione ciclica al solo scopo di garantire la riproducibilità di un sistema generatore di diseguaglianze. Dall’al-tezza della metafisica, con le sue astrazioni, la filosofia – in alcuni casi – ha saputo scende-re al concscende-reto del conflitto storico. Pertanto, dichiaro fin d’ora una presa di partito: se un dialogo con l’urbanistica – sapere così tradi-zionalmente lontano dalla tradizione filoso-fica – può avere un senso, è solo grazie al ri-conoscimento, da parte della filosofia, del suo impegnarsi concreto e storico, in modo tale da poter portare un contributo effettivo all’e-laborazione di un discorso teorico sullo spa-zio urbano che sia traducibile in termini di prassi d’intervento, o in quella che sia chiama generalmente “progettazione”. Non tutta la

fi-singolo in quanto soggetto supposto raziona-le, ma totalmente privato di ogni ancoraggio alla dimensione della storia, della comunità, della relazione sociale e del senso. Ripensare dunque il nesso tra prossimità e distanza si-gnifica interrogarsi anzitutto sui processi con cui la società è intesa unicamente come mac-china che consente solo interazioni esteriori e strumentali tra i soggetti, e non come am-bito in cui ne va della dimensione del senso e dell’appartenenza a un luogo. Non per nulla da più parti la sociologia ha denunciato la “solitudine del cittadino globale” (Bauman) come l’emergere di una configurazione iper-razionale dei rapporti sociali, che tende a de-sertificare la molteplicità relazionale che è tipica del “mondo-della-vita”.

L’importanza di un approccio fenomenolo-gico si deve dunque concentrare sulla para-dossalità dell’esperienza sociale e che dunque possa porsi il problema della progettazione di spazi inclusivi in quanto strutturati in modo tale da permettere il riconoscimento reciproco e la salvaguardia dell’alterità come precondizioni dell’inclusione (per cui l’in-clusione, in senso autentico, avviene là dove c’è gemmazione di relazioni intersoggettive non funzionalizzate e non strumentali). Se ti considera questo punto, diventa più facile capire quale impatto può avere una posizio-ne teorica come quella dell’antropologo ed etnografo francese Marc Augé che ha fatto degli ambienti urbani tardo-moderni – quel-la ch’egli chiama “surmodernité” – l’ambito in cui si sono radicati e progressivamente este-si i “non-luoghi” (“non-lieux”) quali forme di organizzazione dello spazio e dell’esperienza da parte in parte conformi all’egemonia del pensiero strumentale. I “non-luoghi” sono ambienti (dunque Umwelt fenomenologiche) artificiali che conservano soltanto una pro-messa di senso che costitutivamente non pos-sono mantenere perché essi proliferano sulla distruzione di ambienti in cui era precedente-mente presente una qualche “forma-di-vita”. Detto altrimenti, i “non-luoghi” sono simbo-li di una colonizzazione forzata dello spazio geografico e una distruzione del tempo sedi-mentato (dunque della storia del luogo, per-fino del suo genius loci) dal momento che tali sedimentazioni sono intese come degli osta-coli nella ricomposizione/ricostruzione della società come società supposta razionale, in re-altà amministrata secondo delle reti di potere diffuse, efficaci, vigilanti e normative. Quel-lo che forse Augé non è riuscito a dire nella sua importante e illuminante ricerca sulla società tardo-moderna, è che i “non-luoghi” assumono una luce ancora più inquietante sul panorama del nostro presente storico, dal to a ogni altra pratica teorica che non mette

al centro l’interazione intersoggettiva nello spazio paradossale della relazione ma, al con-trario, privilegia un approccio oggettivante alla corporeità, cioè assumendo quale unico oggetto il “corpo morto” (Körper) e non il cor-po vivente che in costante interazione con la propria Umwelt e che non può mai definirsi senza il ricorso all’interazione reciproca con gli altri soggetti. Mettere al centro della pro-gettazione lo spazio paradossale dell’intersog-gettività corporea consente così di rovesciare l’ordine dei fattori grazie a un pensiero del-lo spazio che rifiuta ogni approccio di tipo astratto e strumentale.

In secondo luogo, la fenomenologia indica bene che il reperimento della dimensione di senso della relazione sociale non può che av-venire mediante una presa in carico teorica della “distanza” e che se vi è “prossimità” è solo grazie alla funzione che esercita la “distanza”. Ecco, dunque il paradosso: per poter progetta-re degli spazi di prossimità, occorprogetta-re riconosce-re e salvaguardariconosce-re la “distanza” intersoggetti-va nel senso della peculiare irriducibilità di ciascuno rispetto a ciascun altro. Questo è un punto particolarmente difficile, dal momento che l’irriducibilità della singolarità soggetti-va o si rovescia nell’affermazione ideologica della presunta naturale insocievolezza degli uomini che si riverbera in un soggettivismo esasperato o trova il suo compimento in un pensiero della differenza e dell’alterità che possa riconoscere l’altro in quanto altro e non l’altro in quanto riflesso del soggetto come individuo. Come si può facilmente evincere, non si può né affermare né tantomeno pro-gettare l’inclusione senza entrare in questa dimensione paradossale dello spazio inter-soggettivo nella quale l’altro resta l’altro, ed è per questo che può essere incluso in uno spa-zio al quale – per ulteriore paradosso – già da sempre appartiene. Se la società neoliberale si è configurata come negazione della socie-tà, ovvero come ordine sociale implicante la centralità del soggetto e la negazione di qual-siasi altra “forma-di-vita”, non ci deve allora stupire se le nostre città con sempre maggio-re difficoltà hanno conservamaggio-re la dimensione della socialità come loro trama storica, ma con grande rapidità si sono evolute verso de-gli ambienti – molto spesso non comunicanti tra loro, progettati per essere utilizzati, e non vissuti né tanto meno abitati, come semplice ambito di intervento-pratico strumentale del soggetto – dunque in senso precipuamente funzionale – e mai come luoghi in cui ne va del senso dell’abitare sociale. Gli ambienti della società neoliberale, dunque, non posso-no che essere improntati all’esaltazione del nità nello spazio, anzitutto naturale, da essa

occupato. La pratica della distanza teorica, dunque, funge da preparazione alla scoperta (o riscoperta) del senso delle sedimentazio-ni temporali, storiche, che hanno permesso (o impedito) l’interazione tra gli uomini e il loro ambiente. Ogni considerazione dello spazio vissuto, dunque, non può che inqua-drarsi necessariamente in una prospettiva “in-situazione” che, di per sé, è sempre aperta alla temporalità storica – dal momento che è la temporalità storica che costituisce la ratio delle trasformazioni dell’ambiente circostan-te –, alla dimensione sociale e incircostan-tersoggettiva. Ciò che la fenomenologia insegna è che la dimensione sociale non può che essere para-dossale, implicando essa, sempre, una doppia reciproca relazione tra i soggetti: ogni sogget-to è oggetsogget-to per un altro soggetsogget-to, e ogni sog-getto può entrare in relazione con ogni altro soggetto mediante un riconoscimento

empa-tico, che gli permette di considerare il suo

al-tro (che per Husserl ha il privilegio teorico di precedere sempre l’Io) come altro soggetto, con il quale interagire e così costruire un mondo umano comune, e non semplicemente come un oggetto che si presenta nell’ambiente circostante. Inoltre, il senso della relazione intersoggettiva non può che essere ritrovato all’interno, e non all’esterno: cioè nell’ambito della riflessione e non in quello dell’azione. Se si assume questo spazio paradossale come punto di partenza in un possibile approccio fenomenologico alla progettazione urbanisti-ca, allora non si potrà che tenere conto delle implicazioni teoriche conseguenti. In questa sede mi limito a indicarne alcune, riservando-mi di approfondire in futuro ulteriori aspetti teorici. In primo luogo, in prospettiva feno-menologica, non vi può essere presa in carico dello spazio urbano senza considerazione dei soggetti implicati in esso, dal momento che non ci può essere un punto di vista “disin-carnato” o di “sorvolo” (Merleau-Ponty) sullo spazio. Adottare la prospettiva “geometrale”, cioè astratta rispetto alla considerazione dello spazio – una prospettiva che potremmo