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I rapporti italo-cinesi dall‟unità d‟Italia alla fondazione della

Escludendo l‟esordio italiano nella storiografia cinese avvenuto per opera dei missionari della compagnia di Gesù nel XVI secolo, l‟inizio delle relazioni tra Italia e Cina, in termini di rapporti tra stato e stato, ha inizio nella seconda metà del XIX secolo e, per la precisione, con la firma del primo trattato commerciale del 1866. Da qui in poi l‟azione politica ed economica italiana in Cina sarà caratterizzata da una incisività rasente allo zero con il tentativo velleitario da parte italiana di unirsi al gioco di potere instaurato in oriente ad opera delle potenze. La ritrovata unità e i pressanti problemi interni lasciavano poco spazio (e soprattutto pochi fondi) alla politica in estremo oriente, dove i goffi tentativi del governo italiano e l‟inadeguatezza dei suoi rappresentanti mettevano in luce le carenze e l‟impossibilità dell‟Italia di avere un ruolo di spicco interno alle dinamiche di potere tra nazioni, e di mettere in atto una seria ed incisiva politica estera.

Gli interessi (assai modesti) italiani in Cina fino alla firma del trattato del 1866 erano stati rappresentati da un commerciante inglese, tale James Hogg, incaricato da Cavour nel 1858 di rappresentale il Re d‟Italia. Per quanto esigui questi interessi commerciali dovevano essere protetti dal governo italiano che non disponeva, al pari delle altre nazioni europee, di un trattato

commerciale con la Cina. Tale trattato era necessario al fine di tutelare i suoi affari e i suoi sudditi, soggetti ancora a tutte le limitazioni esistenti per gli stranieri in Cina prima della guerra dell‟oppio. Una necessità che veniva sottolineata anche dall‟opinione pubblica, infatti nel giornale genovese La

Borsa il giornalista Jacopo Virgilio scriveva:

L‟India, la Cina e il Giappone, ecco le regioni che la civiltà occidentale, e l‟Italia, deve conquistare e trascinare più attivamente nell‟orbita commerciale […] il commercio tra l‟Europa e quelle regioni costituirà sempre la più importante massa di transazioni mercantili.2

Così venne deciso di inviare un plenipotenziario, individuato in Vittorio Arminjon, in Cina e Giappone al fine di stipulare un trattato commerciale che permettesse di allargare il volume dei commerci italiani in Cina, o almeno di porne le basi. La missione approdò vicino a Shanghai il 19 settembre 1866 dove Arminjon partì subito alla volta di Pechino infrangendo tutte le regole di trattativa imposte dalla corte imperiale, essendo l‟Italia un paese sconosciuto e non ancora accreditato a Corte. Fu grazie all‟appoggio dei plenipotenziari di Francia e Inghilterra che,

procurando ad Arminjon un lasciapassare ufficiale e riuscendo a preservare intatta la dignità italiana,

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si arrivò alla conclusione del trattato. Questo trattato che era letteralmente un collage di articoli e paragrafi presi dai diversi trattati stipulati con altre nazioni, garantiva all‟Italia tutte le condizioni ottenute dalle altre potenze europee, inclusa la clausola della nazione favorita. Nonostante la firma del trattato e, dalla fine degli anni sessanta del XIX secolo, l‟instaurazione di una rappresentanza diplomatica in oriente, il volume complessivo degli scambi economici e culturali rimase molto basso. Secondo i dati nel 1872 gli italiani residenti nelle aree dei porti aperti erano 23 contro i 1780 inglesi3, e anche dal punto di vista delle relazioni internazionali l‟Italia fu sempre esclusa dalle prime missioni europee da parte dei cinesi che probabilmente ancora non sapevano dell‟avvenuta unità. Tuttavia la responsabilità di una mancata rete di relazioni tra i due paesi non fu solo cinese. L‟Italia, sebbene desiderosa di espandere il proprio dominio ed unirsi alle altre nazioni nella “gara” al colonialismo, non aveva i mezzi né i le conoscenze sufficienti per affrontare simili imprese, oltre al fatto di non operare, almeno fino al 1878, alcuna distinzione tra Giappone o Cina inviando un rappresentante unico per entrambi i paesi, rappresentante che solitamente preferiva risiedere in Giappone. D‟altro canto la Cina, memore delle disastrose sconfitte subite da Inghilterra e Francia nelle guerre dell‟oppio, decise di accordare privilegi anche all‟Italia per guadagnare tempo, in accordo con la massima cinese “Ricorri alla pace e all‟amicizia quando sei temporaneamente costretto a farlo; usa la guerra e la difesa come politica fondamentale ”. Se la situazione

commerciale rimase pressoché invariata, con una quantità di imprese commerciali statali e private molto esigua, quella delle relazioni diplomatiche ebbe un netto declino. La rappresentanza

diplomatica, con in fine di allargare la base commerciale italiana in Cina, ebbe fino al 1889 la sua sede in Shanghai anziché a Pechino, cioè nella capitale. Oltretutto quando nel 1889 la

rappresentanza italiana si trasferì a Pechino, i suoi delegati non vennero quasi mai ricevuti a corte e, scriveva Salvago Raggi nel 1897, “La legazione aveva preso in quegli anni l‟aspetto di un casolare in rovina” e il seguito del ministro d‟Italia era “pari a quello di un piccolo commerciante di

Tianjin”.4

Un episodio che ebbe un peso politico internazionale non indifferente e che mise in luce più degli altri l‟inadeguatezza della politica estera italiana, fu quello relativo al negoziato di Sanmen. La guerra sino-giapponese aveva messo i piena luce la debolezza dell‟impero di mezzo e, a partire da quel momento, iniziò una nuova fase nei rapporti tra la Cina e le potenze, basata sulla cessazione in affitto di porzioni di territorio. L‟atteggiamento del governo italiano di fronte a questa possibilità fu inizialmente molto cauto, limitandosi ad analizzare la situazione e sondare l‟atteggiamento delle potenze di fronte ad un eventuale richiesta italiana, sebbene l‟incaricato d‟affari a Pechino Salvago

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Giorgio, BORSA, Italia e Cina…, op.cit., p.12

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Raggi sconsigliasse l‟impresa asserendo che “all‟Italia non sia consigliabile ora di occupare qualche punto della Cina non essendo preparata” e suggeriva piuttosto di concentrarsi sulla promozione dello sviluppo del commercio tra Italia e Cina e sulla preparazione di personale diplomatico adeguato5. Con la formazione del nuovo governo presieduto da Luigi Pelloux, il nuovo ministro degli esteri Felice Canevaro e il nuovo ministro italiano a Pechino Renato De Martino cominciarono a considerare seriamente l‟ipotesi di una richiesta italiana al governo Qing per la cessione di una porzione di territorio individuata nella baia di Sanmen. De Martino che era un accanito sostenitore di tale politica, sosteneva che fosse cosa facile ottenere dalla Cina quella località e, a favore della sua tesi, affermava che:

L‟impotenza di questo governo [cinese] è ormai giunta al massimo grado. […] non si sa se sia maggiore la [sua] confusione o debolezza…la imbecillità della imbelle amministrazione attuale dovrà per se stessa cadere.6

Così, dopo aver verificato l‟opinione delle potenze e in particolare degli inglesi, i cui possedimenti confinavano con la località scelta dagli italiani, De Martino ricevette l‟ordine di presentare la domanda presso lo Zongli Yamen per forma orale il 28 febbraio 1899 e per forma scritta il 2 marzo dello stesso anno. La reazione cinese fu negativa, tanto che il giorno seguente restituirono la nota italiana asserendo che, per quanto riguarda la richiesta “se rispondessimo a verità ciò davvero sarebbe dannoso alle relazioni finora esistenti di fiducia e di amistà fra i due stati”. Da qui in poi la situazione degenerò e mise in ridicolo l‟Italia e la sua politica estera di basso profilo. A fronte di un rifiuto cinese De Martino continuò a far pressioni a Canevaro affinché quest‟ultimo gli desse l‟autorizzazione di occupare militarmente la baia. Canevaro invece telegrafò a De Martino affinché questo presentasse un ultimatum ai cinesi in cui si concedevano quattro giorni per rispondere alla richiesta italiana, dopodiché sarebbe scattata l‟occupazione. Sebbene l‟Inghilterra avesse dato il suo appoggio diplomatico, si dimostrava contraria all‟uso della forza e appena l‟allora rappresentante del governo britannico in Italia Lord Currie seppe dell‟invio dell‟ultimatum si precipitò da

Canevaro a “consigliargli” di ritirare l‟ordine, cosa che questo fece immediatamente. Probabilmente per via delle difficoltà di comunicazione o per iniziativa personale, De Martino presentò

l‟ultimatum che fu poi ritirato subito dopo mettendo in ridicolo la politica estera italiana e i suoi rappresentanti. Da parte italiana l‟episodio ebbe grande eco da parte della stampa e provocò, oltre ad un grande dibattito, un rimpasto di governo. Mentre da parte cinese l‟episodio fu un toccasana per l‟autostima imperiale che riuscì a strappare l‟unica vittoria in campo politico nei rapporti con i “diavoli stranieri”. L‟Italia infatti non era inclusa in quelle potenze che avevano avuto modo di

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Giorgio, BORSA, Italia e Cina…, op.cit., p.77-78

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dimostrare di essere pericolose ed era considerata una paese di second‟ordine, non nelle condizioni di avanzare pretese, a prova di ciò l‟imperatrice, prevedendo l‟invasione italiana della baia, aveva già dato ordine di mobilitare le guarnigioni dello Zhejiang e del Jiangsu. Nel 1898 un giornalista del

North China Herald scrive che l‟esitazione italiana nella trattativa era da attribuire “alla paura

naturale di una nazione che è stata già battuta da un Re negro e che capisce ora l‟imprudenza commessa sfidando l‟ira dell‟impero di mezzo”7

. Mentre dal punto di vista ideologico, da un lato fu una delusione per gli intellettuali cinesi scoprire che l‟Italia altro non era che un paese come gli altri, deciso a prendere parte al processo di spartizione della Cina, e dall‟altro lato un occasione che permetterà di creare i primi parallelismi tra l‟Italia, economicamente e politicamente debole, non in grado di competere con la potenza delle altre nazioni europee, e la Cina. Ciò non toglie che,

parallelismi a parte, qualche anno più tardi, nel 1904, Kang Youwei durante il suo viaggio in Italia scrisse:

La Cina, più grande dell‟Italia di ben dieci volte, non ha mai chiesto ad essa la cessione della baia di Napoli. E l‟Italia, che non può certo vincerci, ha osato chiedere la baia di Sanmen! È davvero una cosa da ridere!8

Un‟altra avventura italiana in Cina riguarda la partecipazione al corpo d‟armata internazionale organizzato dalle potenze europee, Stati Uniti e Giappone per sedare la rivolta dei Boxer. Sebbene dopo la vicenda di Sanmen il governo italiano avesse abbandonato qualsiasi politica espansionistica in Asia, la partecipazione al corpo d‟armata fu l‟occasione per uscire dalla posizione di inferiorità e per affermare la presenza italiana nel contesto internazionale delle potenze. Così il contingente italiano inviato in Cina, composto da 2.400 uomini e da una divisione navale di sei unità9, prese parte alla violenta repressione della rivolta e assicurò all‟Italia una percentuale ( il 5,9%) della enorme indennità di guerra che venne imposta alla Cina. Forte del successo riportato, alcuni ufficiali dell‟esercito iniziarono ad esercitare pressioni sul governo affinché questo, approfittando del momento di estrema debolezza della Cina, ripresentasse richiesta per la cessazione di un territorio. Infine, invece, dal governo italiano arrivò l‟autorizzazione a occupare un area della citta di Tianjin che, a partire dall‟inizio della repressione e anche in seguito, fu l‟unico luogo in cui gli italiani ebbero un posto di rilievo nella gestione di quelle strutture provvisorie che avrebbero dovuto riportare l‟ordine, nonché nella gestione delle operazioni del contingente. Il trattato ufficiale venne firmato il 7 giugno 1902 e concedeva all‟Italia piena giurisdizione sulla porzione di territorio accordata, nonché la cessione al governo italiano delle strutture di proprietà imperiale. Se lo scopo

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Giorgio, BORSA, Italia e Cina…, op.cit., p.170

8Giuliano, BERTUCCIOLI-Federico, MASINI, Italia e Cina, Roma, Editori Laterza, 1996, p.314 9

Laura, DE GIORGI-Guido, SAMARANI, Lontane ,vicine. Le relazioni tra l’Italia e la Cina nel ‘900, Roma, Carocci editore, 2011, p.29

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doveva essere quello di favorire lo sviluppo del commercio questo non fu inizialmente raggiunto in quanto la quasi totalità delle imprese italiane si concentrava nelle zona costiera tra Shanghai e il Zhejiang, oltre al fatto che il governo, per motivi di burocrazia interna, non trovò investitori privati interessati ad assumersi l‟onere di gestire, e di compiere tutti i lavori di urbanistica e valorizzazione del territorio che la concessione necessitava. La concessione vivrà fino all‟occupazione Giapponese del 10 settembre 1943, in seguito alla notizia dell‟armistizio tra l‟Italia e gli alleati. Nel momento di massima espansione, negli anni trenta del XX secolo, la concessione italiana raggiunse una

popolazione di 6.261 persone di cui circa 110 italiani residenti.10

Da qui in poi fino alla fondazione della Repubblica Cinese l‟azione del governo italiano in Cina rimase circoscritta all‟ambito commerciale senza più prendere in considerazione l‟espansione territoriale. Furono fondate nel 1902 una banca italiana a Shanghai e nel 1903, sempre a Shanghai, la Camera di commercio italiana. Vi fu inoltre, nel 1906, il tentativo revisione del trattato

commerciale del 1866 in cui il ministro d‟Italia a Pechino Giovanni Gallina e il ministro degli esteri italiano Cesare Nerazzini sostenevano bisognasse approfittarne per avanzare nuove richieste. Il risultato fu che il governo centrale decise di seguire una politica antiespansionistica e gli ufficiali cinesi dello Zongli Yamen, difronte alle richieste presentate ugualmente dagli esponenti del governo italiano a Pechino, non solo decisero di non concedere nulla all‟Italia, ma interruppero

definitivamente il negoziato. In generale, durante la rivoluzione che portò alla nascita della

Repubblica Cinese, l‟Italia non ebbe nessun ruolo a causa del suo scarso peso politico ed ideologico. Non a caso nessuno dei tanti cinesi che furono mandati all‟estero a formarsi venne in Italia, e quei pochi che visitarono il nostro paese non ebbero in nessun modo il potere di influenzare l‟andamento del pensiero cinese dell‟epoca, né alcun modo di rendere noto il pensiero politico italiano. Tuttavia in Italia non mancarono quei giornalisti che paragonarono volentieri la rivoluzione cinese al Risorgimento italiano, facendo ampie analogie tra gli eroi del Risorgimento e il padre fondatore della repubblica Sun Yat-sen.

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