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Un altro tema dominante del romanzo – che, nonostante in questa sede venga trattato in ultima istanza, non è certo meno importante degli aspetti analizzati in precedenza - è quello che affronta il complesso rapporto tra passato e presente. Il mondo conservatore e anacronistico ricreato dai coloni britannici in Papua Nuova Guinea rappresenta, infatti, un’alternativa alla babilonia politica, culturale e morale dei tempi odierni, di cui il governo laburista appare come il principale responsabile. I due mondi, che nel corso del romanzo si confrontano (e si scontrano) con esiti che forniscono preziosa materia satirica al racconto, sono posti costantemente in rapporto dall’estro narrativo di Hawes, la cui tesi – tutt’altro che comica - risulta chiara sin dalla prima metà del libro. A tale proposito, è eloquente l’epigrafe che l’autore

sceglie come incipit del terzo capitolo, contenente una riflessione di Carl Jung sul contrastato rapporto tra passato e presente. La citazione è tratta da un discorso a braccio che il noto psichiatra e psicoanalista pronunciò nel 1960 in occasione di una cena in suo onore alla Royal Society di Londra – un discorso che, come si evince dal passo riportato di seguito, colpisce proprio per la grande spontaneità e immediatezza:

In our sub-conscious, we are all young and full of hope. But perhaps in our un- conscious, in that secret engine-room of our Selves, we are all forever small children, still ruled by the assumptions and prejudices, the fears and the visions of the last generation. […] Today we are all little Columbuses, setting out onto uncharted seas, our fathers’ useless maps thrown to the four winds. Our psyche cannot keep up, it lags a generation behind, hugging the known coasts of a flat but homely earth. And that is why, perhaps, our modern lives so often feel to us like mere dreams as we follow our forefathers into eternity (p. 95).

Questa visione del passato, collettivo e al tempo stesso individuale, destinato a riproporsi e ad essere irrimediabilmente eternizzato, appare come la più importante chiave di lettura del romanzo, e sottende alla narrazione e ai suoi vari temi come una materia collante che ne tiene insieme i pezzi. Su questo assunto, Hawes ritorna in modo decisivo a conclusione della parabola fallimentare del protagonista, quando per Brian è giunto il momento della resa finale, conteso da George e Consuela che pretendono delle risposte che, lui per primo, ignora nella maniera più completa. Su questo punto, l’autore non lascia margini di oscurità né di fraintendimento e, in assenza di prospettive, o semplicemente del coraggio e della maturità di attuare delle

scelte risolutive nella propria esistenza, descrive il passato come una “piattaforma di emergenza” sulla quale possiamo atterrare senza contraccolpi:

Time kneaded and folded itself about him once again, and he realized now that it would always do so, whenever he let it, because the past is all we know, the future is always obscured by cloud, we hack our way through it towards nowhere we know, and whenever we tire of the endless exploration, as well we might, whenever life seems absurdly short and the horizon no closer than we set out all those years ago, it is the past that is always lying in wait for us, tempting us with the infallible promise of the trusted, the explored, the warm and the safe, the only real home we shall ever have. Waiting to tuck us up tight (p. 335).

Se ci si atteniamo a questa linea di pensiero, come sostiene Gallix nell’intervista a Hawes, è evidente che «we all want to go back in order to go back home»78 - un’affermazione tanto più attendibile se consideriamo che nel

romanzo il passato torna letteralmente a casa con il rientro in Inghilterra dei coloni britannici “esiliati” dall’incidente aereo in Papua Nuova Guinea, dove, nel loro isolamento forzato, hanno ricreato una sorta di eterna madrepatria. L’idea di traslare il protagonista, con tutto il suo bagaglio di insoddisfazioni generazionali, nel loro mondo anacronisticamente ottimistico e intriso di valori che, nella persona del carismatico leader Hugo Quartermain, i coloni cercheranno di riattualizzare con il loro avvento al governo, è il pretesto che spiana la strada all’autore per sviluppare un sagace confronto contrastivo tra passato e presente il cui assunto finale viene lapidariamente condensato nelle parole del cinico produttore televisivo Grant

78 A.GALLIX, “Spanking for England”, April 2005, 3 a.m. Magazine,

Brodie. Quest’ultimo - che ha prodotto per l’emittente Channel Seven il reality show di cui Brian è protagonista - presumibilmente sotto l’effetto della polvere bianca di cui è un consumatore abituale, durante uno scambio di battute con l’assistente e socia Tamsin, afferma: «The ultimate perversion is repression. […] No wonder the Victorians conquered half the world. They must have been bloody terrifying». Così l’uomo apostrofa la notizia, appena comunicatagli dalla collega - anch’essa dedita ai vizi di una vita agiata e, non solo metaforicamente, sopra le righe - circa la volontà di diventare presto madre: una decisione quanto mai improbabile per una donna vuota e spregiudicata come lei, che, tuttavia, spinta da un non ben definito senso di rigenerazione, sembra sposare la politica di promozione delle nascite incoraggiata dal nuovo governo conservatore, purista della razza albionica e nemico delle minoranze:

We’re going to have a few [babies]. It’s really most lucrative these days. […] Now, I don’t know, it just feels as if everything’s changed suddenly. The Zeitgeist or whatever you call it. […] It seems worth it, for some reason, now.[…] And the terrible thing is, when I say that, I’m all sort of excited about it (p. 315).

Il riferimento non è solo ad una politica demografica volta a incentivare le nascite con contributi statali a sostegno della maternità, ma anche al nuovo “spirito del tempo”, lo Zeitgeist di hegeliana memoria di cui Hawes fa esplicita menzione attraverso le parole della donna, alludendo al clima culturale, intellettuale, etico e politico diffuso dai nuovi conservatori,

con cui la squinternata produttrice televisiva si sente entusiasticamente in linea.

Facciamo però un piccolo passo indietro che ci consenta di giustificare, almeno da un punto di vista teorico, questa particolare visione del presente (narrato) di cui la donna si fa portavoce. Il clima politico precedente al ritorno dei coloni in patria vede la predominanza di un partito laburista rappresentato da un leader ambiguo e pusillanime, un fantoccio manovrato subdolamente da uno staff di collaboratori – tra questi, la rozza Press Secretary e il ruffiano Best Friend - che appaiono del tutto impreparati e, proprio come il loro capo, incapaci di rivestire alcun ruolo istituzionale. I dialoghi che vedono come protagonisti il leader laburista e la sua discutibile squadra di lavoro sono caratterizzati da un linguaggio squallido e dozzinale - totalmente in contrasto con lo spessore intellettuale e morale che ci si aspetterebbe da un’ élite politica – oltre che profondamente irrispettoso dell’ignaro elettorato, che attende una pronta risoluzione a questioni sociali ed economiche di grande delicatezza. In particolare, oggetto delle discussioni tra il leader politico e i suoi assistenti è il tema dell’adozione della moneta unica, un dibattito tutt’oggi attuale e molto sentito che pone l’accento sul tradizionale anti- europeismo del popolo britannico, diviso sulla necessità di difendere gli interessi economici del Paese rispetto all’architettura monetaria europeistica

voluta dall’Unione Europea79. Rispetto a questo tema, i collaboratori del

Primo Ministro caldeggiano un referendum che, stando alle loro ottimistiche quanto fantasiose previsioni, li porterà non soltanto alla vittoria, con il conseguente ingresso del Regno Unito nella cosiddetta “Eurozona”, ma anche ad imbonirsi il prezioso alleato statunitense: «Would be really win a referendum?[…] Look, you’re sure Monetary Union is a good thing?», domanda il leader, come inebetito, al suo assistente; «[…] And you’re absolutely sure the Americans are for it?» - e prontamente il “Migliore Amico” lo rassicura: «They know we’ll always be their best friends. They want us running Europe for them»; «The Yanks fuckin’ love you, boss» (p. 61), gli dà man forte la sua spalla.

Assetati di visibilità, sull’onda del successo del reality show Brit Pluck, Green Hell, Two Million, i collaboratori esibiscono il loro più cinico dilettantismo incoraggiando il Primo Ministro a fare una guest appearance nel noto programma televisivo, recandosi di persona in Papua Nuova Guinea, dove la troupe è ora impegnata nelle operazioni di ricerca di Brian Marley, ultimo concorrente (dato ormai per spacciato) di quel gioco perverso che tiene incollati allo schermo ben 27milioni di telespettatori con la sua riedizione, Brit Pluck 2: The Rescue Mission («I don’t care if we don’t find him [Brian Marley].The longer we don’t find him, of his body, the better the

79G. G. CARBONI, “I referendum mai realizzati e ancora da realizzare”, in Democrazie

rappresentativa e referendum nel Regno Unito, a cura di di Justin Frosini e Alessandro Torre, Maggioli Editore, Santarcangelo di Romagna, 2012, pp. 399-427.

story» - p. 103: è questa la premessa della nuova serie di puntate). La posta in palio è molto alta e, in previsione delle elezioni generali, i lungimiranti assistenti ritengono di vitale importanza che il leader sfrutti questa occasione per mostrarsi al pubblico oceanico dello show accanto al cadavere del malcapitato concorrente, una volta che lo avessero recuperato nella giungla: un accostamento – quello tra il povero Brian cadavere e il patriottico Primo Ministro laburista – che avrebbe fornito al politico la vetrina ideale da cui pronunciare un discorso svenevole sul British Courage, composto per l’occasione dallo stesso Best Friend – «Brit Pluck, you see, it all fits. British British British, that’s our buzzword, remember» (p. 171), dice il “Migliore Amico” al premier, come se parlasse a un ragazzino sprovveduto. Anche nella remota eventualità in cui il concorrente venisse trovato in vita, è stato previsto un brillante piano “B”: «Well, in that case you’ll do the Captain Scott and Livingstone and all that speech instead. So long as you plug British British British», è il commento confortante dei due avveduti politologi, che aggiungono: «Oh, and you’d better watch these tapes of the first series, so it looks like you’re a fan. Mustn’t give the impression that you’re snooty about that sort of programme, must we? Not when 27 million people watch it» (p. 172). XXXXX

Lo scenario si tinge di toni via via più grotteschi allorché la strampalata élite politica composta dal Primo Ministro, dal suo Best Friend e dalla sua Press Secretary “sbarca” in Papua Nuova Guinea insieme alla troupe

televisiva incaricata di recuperare il vincitore disperso; qui, l’ipocrisia dei parvenus deve affrontare una variabile che stravolge completamente il loro piano: se la notizia che il concorrente Brian Marley non è andato in pasto ai coccodrilli viene accolta dal Primo Ministro con malcelato fastidio, a sconvolgerlo è soprattutto la presenza della comunità di coloni, che attendono con ansia l’arrivo della squadra di soccorso per tornare finalmente in patria. Il goffo Primo Ministro – che, da programma, avrebbe dovuto farsi immortalare accanto al cadavere del concorrente, recitando il discorso studiato per l’occasione («We would be very happy if the pictures could suggest that it was the presence of the PM himself which led to us finding Mr Marley alive», p. 225 - sono questi gli accordi tra lo staff e gli autori televisivi) - è esterrefatto dinanzi alla «impossibile scene unfolding below them as they descended through the last banks of cloud cover: […] the entire Colony was drawn up in dead straight ranks, with the faded Union Jack flying in their midst» (p. 244) - ma la Press Secretary lo esorta a mantenere la calma e, soprattutto, a sfoderare l’immancabile sorriso di plastica («Aye, boss, just keep that big smile comin’», p. 245). L’Headmaster, dal suo canto, non è meno basito alla vista degli elicotteri che sorvolano l’accampamento mostrandosi esitanti nell’atterraggio, e tempesta Brian di domande: «What the devil are they all doing? Why are all these damn telly people buggering about with their kit while we stand here like lemons on parade?» (p. 245). L’incredulità cresce quando l’Headmaster chiede spiegazioni sul «ghastly chap in the latest chopper – looks like some kind of arse-licking hotel manager with his

bellboys in attendance» - è, questa, la sferzante stoccata del leader dei coloni (e, retrospettivamente, di Hawes) alla leadership laburista. L’allusione – chiarissima – è alla figura del Primo Ministro, la cui presenza induce i coloni a pensare che Brian sia un pezzo grosso. Quest’ultimo, che non nasconde la sorpresa per quell’inattesa visita, chiarisce subito la situazione: «I’m not a top brass. It’s just, these days, if you’re on the telly, well, you see, everyone important is on the telly,[…] so now we all think anyone who’s on the telly must be important» (p. 245) - una spiegazione esaustiva, per quanto semplicistica, che fa trasecolare l’Headmaster : «Good God, what rot. What sort of people do we have as Prime Ministers these days? […] Well, I think it’s time we had a word with him» (p. 245).

In seguito all’atterraggio degli elicotteri, il Primo Ministro e il suo seguito da un lato, l’Headmaster e i coloni dall’altro, si trovano catapultati in una situazione di straniamento generale che Hawes rende memorabile con siparietti di spassosa naïveté. L’Headmaster dà il benvenuto ai nuovi arrivati presentandosi come «the Headmaster of this place» e chiede sbrigativamente delucidazioni in merito a quanto Brian gli ha raccontato sul recente operato del partito laburista. Il Best Friend, che segue il Primo Ministro come un’ombra, risponde laconicamente alle domande del burbero personaggio snocciolando melliflue frasi di circostanza, mentre il diretto interessato tace – una reticenza che fa subito spazientire Quartermain, che tuona: «He [the PM] will damn answer me right now: we’ve been waiting here the best part of

fifty years, keeping our end up, and I want to know what’s going on in England» (p. 247). Non ottenendo risposta diversa dalla solita frase fatta, l’Headmaster non esita a ricorrere al metodo a lui più consonio la violenza. Con la sua canna di bambù si scaglia contro lo spocchioso consigliere del Primo Ministro, che esce da questo brutto incontro con le natiche livide, mentre un gruppo di giovani coloni scatena un parapiglia scaraventandosi sull’avvenente Press Secretary, che, imbarazzatissima, si esibisce in tenuta adamitica di fronte alle telecamere di Channel Seven. L’intera comunità di coloni esulta davanti agli sguardi attoniti degli operatori televisivi, che chiudono subito il collegamento mentre l’Headmaster ribadisce con tono minaccioso: «This so-called Prime Minister has not answered my questions. But he will. And if he won’t answer them now, he’ll damn answer them when we get home, to England» (p. 248).

La plateale ridicolizzazione dell’élite politica laburista, orientamento predominante nell’ultimo ventennio di storia politica della Gran Bretagna, assume in questo contesto la valenza di inevitabile epilogo punitivo di un’incertezza governativa – per usare un eufemismo – che è cosa già nota al fanatico Headmaster e ai vecchi Founders (non, però, ai coloni più giovani, tenuti all’oscuro di tutto in ragione del regime di showtime imposto dal loro capo, la cui strategia è «lie to them to keep morale up», p. 182, «got to rein them in, keep an eye on the bigger picture», p. 190). Brian, infatti, ha già ampiamente illustrato i principali avvenimenti che hanno segnato la storia

britannica in relazione al panorama internazionale, a partire dagli anni Cinquanta fino alla contemporaneità. Quella che viene prospettata è un’epoca di forti criticità e contraddizioni, in cui, con toni misurati di umoristica innocuità, viene descritta un’epoca di inarrestabile declino del prestigio britannico nel mondo e - dato ancora più grave - della percezione stessa di orgoglio nazionale da parte del popolo britannico. Durante un terzo grado cui è sottoposto, Brian, in risposta a una domanda dell’Headmaster sugli odiati Reds («the damn Russian and Chinese Reds», p. 180), racconta dell’invasione russa della Cecoslovacchia, a fronte della quale non vi è stata alcuna reazione da parte degli inglesi. Nel tentativo di interpetare questo fatto storico, egli giustifica sommariamente l’inazione della Gran Bretagna asserendo che negli anni Sessanta «everybody only seemed interested in pop music, playing guitars and singing, […] and everyone’s big sisters and big brothers started wearing flowery clothes and talking about peace and love and taking drugs» (p. 180). La riflessione del protagonista sulla decadenza del nostro tempo si fa più fredda e desolata allorché cerca di individuarne la radice del male più profondo:

I don’t know, I was only a boy, […] it’s hard to explain really, [but] when I was starting to grow up and really notice the world, and think what I was going to do in it, it was the 1970s by then, and everyone seemed to have this feeling that it had all gone wrong somehow but no one knew exactly how. Everything was just sort of getting a bit worse and a bit greyer every year and everything was costing more and more every week and everyone was going on strike all the time and loads of people were being killed in Northern

Ireland and there were more people out of work and eryone felt it was all just going to keep on getting worse and worse for ever and there was no point in anything anymore really (p.181).

La colpa di questa drammatica verità, di ciò che l’Headmaster definisce «the general rot», viene attribuita ai Socialists,cioè all’attuale partito laburista, ritenuto responsabile della rotta disfattista intrapresa dal Paese dagli anni Sessanta in poi. La sola boccata di ossigeno in questo arco temporale è rappresentata dal decennio di governo della Iron Lady della politica inglese, Margaret Tatcher, [who] beat the miners’ strike and stopped the trade unions completely […] by charging people with police horses» - una strategia che il perverso Headmaster sembra apprezzare, visto il suo commento: «A whiff of grapeshot, eh? Sounds like quite a girl» (p. 183).

Quando Brian è chiamato a raccontare i cambiamenti della madrepatria davanti all’adunata dei coloni, i più anziani comprendono e accettano, loro malgrado, la preoccupante realtà che il nuovo arrivato prospetta loro, e restano saldamente ancorati alle loro idee patriottiche, retaggio di un passato di gloria, determinati a metterle in pratica una volta che fossero rientrati in patria. I giovani, al contrario – coloro che erediteranno le redini del Paese e dovranno, quindi, porre rimedio agli errori del passato – vengono informati unicamente di aspetti superficiali riguardanti la vita del Paese (dalla permanenza al trono della Regina Elisabetta alle vittorie sportive nel rugby, al successo planetario di autori come Tolkien e il suo The Lord of the Rings e di J.K. Rowling con le sue buffe storie di maghi, etc.), mentre i

fatti più rilevanti relativi alla politica interna, ai nuovi equilibri dell’Europa Unita e, soprattutto, al crescente tasso di disoccupazione registrato nel Paese vengono deliberatamente taciuti per non rovinare la visione idillica della madrepatria che con tanta dovizia si è voluto inculcare nei ragazzi. Quando Brian accenna alla discutibile evoluzione mostrata negli ultimi anni dal partito laburista, egli viene immediatamente interrotto dall’Headmaster, che in separata sede lo redarguisce, accusandolo di burlarsi di loro con risposte che odorano di sciocchezze. Affermazioni come «The socialists hate the unions», «the Labour Prime Minister wants to denationalise everything because he thinks things that are private are bound to be better than things that are nationalized and he wants to make sure rich people don’t get taxed too much to pay for poor people and so the top rate of income tax anyone pays is 40%» (p. 204) non possono che suscitare sconcerto in una vecchia volpe come l’Headmaster, ed esigono una valida spiegazione. Poiché tutto questo suona assurdo, alla domanda dell’Headmaster se gli inglesi siano felici di questo stato

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