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"Speak for England" di James Hawes: una satira dell'Inghilterra contemporanea

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Academic year: 2021

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1. Introduzione

James Hawes nasce a Londra nel 1960 da una modesta famiglia di insegnanti, secondo di cinque fratelli. Sogna la carriera di attore e commediografo e nel 1978 si iscrive all’Hertford College di Oxford; in seguito, rivelatosi inetto nella realizzazione delle sue ambizioni artistiche, per mantenersi si barcamena fra mille lavori occasionali, sullo sfondo dell’Inghilterra thatcheriana, classista e conservatrice, che sembrerebbe condannare i giovani della piccola borghesia, come lui, a un futuro senza lavoro e senza illusioni. Date queste premesse, il giovane Hawes realizza che «[…] living among smackheads, crims and slumming-it trustafarians just as the Loadsamoney late 80’s were starting»1 non era esattamente la sua massima aspirazione e, insoddisfatto

del proprio curriculum ma pur sempre molto ambizioso, si procura un dottorato di ricerca in filosofia su Nietzsche e Kafka, divora autori, oltre ai già citati, come Mann, Musil e Hesse e coltiva una passione per la scrittura che ben presto diventerà la sua prioritaria ambizione professionale. Nel frattempo, porta avanti l’attività di docente: insegna Letteratura Inglese in Spagna e successivamente in Irlanda, poi Archeologia e Letteratura Tedesca in Galles presso l’Università di Swansea, dove insegna anche attualmente. Nel 2008 ottiene, inoltre, la

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cattedra di Creative Writing alla Oxford Brookes University. A oggi, ha all’attivo sette romanzi e due sceneggiature, adattamenti cinematografici di due suoi lavori, e collabora con prestigiose riviste, fra cui The Guardian, come critico letterario. Ha collaborato anche con l’emittente televisiva BBC alla realizzazione di documentari.

La letteratura critica contemporanea, attenta all’eccezionale fioritura di romanzieri nell’ultimo ventennio, inquadra James Hawes come un talentuoso autore satirico, in grado di trattare temi profondi e delicati del nostro tempo - dal male di vivere alla percezione della caducità dell’esistenza, alla crisi di mezza età, alla dipendenza da alcol e droga, alla lotta di classe, alla disoccupazione, etc. – con toni di accattivante leggerezza e una scrittura godibile e istintiva.

Il suo debutto letterario è rappresentato dal romanzo A White Merc With Fins, pubblicato nel 1996 e accolto con entusiasmo da pubblico e critica. Il libro narra della stravagante rapina ideata da un ventottenne di estrazione piccolo borghese che diventa simbolo della lotta di classe della società britannica post-thatcheriana (scelta non certo casuale per il nostro autore). Il narratore, omo e al tempo stesso intradiegetico, è il prototipico Lower M.C. (Middle Class), una laurea in economia e il sogno nel cassetto di realizzarsi come commercialista, ma a conti fatti vittima proprio dell’economia dal momento che tira a campare con

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lavoretti saltuari, aiutato dalla sorella presso la quale dimora. Giunto ad un’età in cui, in teoria, le spinte giovanili alla ribellione al sistema dovrebbero essere naturalmente sopite, si accorge, invece, di non desiderare affatto uniformarsi agli altri, ossessionato dal timore di finire “integrato” come la sorella, in una società e in una classe media nei cui confronti prova una sorta di odio-amore.

Quando per lavoro il giovane viene incaricato di consegnare una cospicua somma di denaro ad una banca centrale di Londra, si insinua in lui il progetto di tentare il colpo della vita: inscenare una rapina che gli permetta di aggiudicarsi il malloppo, una cosa “pulita” che non danneggi nessuno (tantomeno la banca destinataria del denaro, che oltre a essere qualcosa di impersonale, costituisce una componente chiave del potere che opprime), ma soprattutto un gesto audace che gli garantisca il meritato riscatto sociale per cui si è tanto adoperato. Tutto il romanzo è incentrato sulla ricerca di un’altra possibilità, intravista grazie a un machiavellico “Piano” per uscire dall’anonimato di cui sono protagonisti alcuni “personaggi” quanto mai bizzarri, una pistola giocattolo e una vistosa Mercedes bianca con le pinne. Gli esecutori materiali del “Piano” sono dei giovani disillusi e disadattati proprio come il narratore: Suzy, l’autista, una biondina mozzafiato che è anche un asso del volante; Chicho, un malavitoso ispanico tutto muscoli, e

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Brady, un irlandese affiliato all’I.R.A. Il colpo riesce, ma il protagonista, derubato della sua parte, comprende infine che la ricchezza lo avrebbe reso un borghese pasciuto e spiritualmente morto come tutti gli altri. L’elemento di maggiore interesse del libro, al di là dei contenuti, è dato dal ritmo sostenuto e sagacemente umoristico della narrazione, che si snoda pagina dopo pagina proponendoci un’insolita parodia del tessuto sociale inglese e, in particolare, delle vite e delle abitudini strampalate di questo gruppo di giovani disillusi. In tutto ciò, colpisce che, per raccontare il disagio di una generazione allo sbando e senza futuro, Hawes non ricorra a toni grevi o compassionevoli (in fondo, ricordiamolo, sta descrivendo anche un po’ se stesso…), ma, al contrario, ci proponga un romanzo agile e divertente grazie a una scrittura esuberante che ci permette di fraternizzare con personaggi dai comportamenti discutibili, eppure avvolti da un’aura di ingenua tenerezza.

La critica plaude a questo nuovo stile di scrittura caustico, irriverente e al tempo stesso estremamente godibile: il Publishers Weekly ne parla come di una «amoral, foul-tongued, intelligent comedy, […] also meant partly as hip social satire»2; una tesi confermata anche dal New

York Times, che definisce il romanzo «an antic satire of greed, class

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warfare and sexual high jinx»3 , e da The Spectator, che attraverso la

penna di Tobias Jones, consacra Hawes nell’Olimpo degli scrittori:

This, his first novel, is an irreverent yarn told by a rock-hard college kid; a gift from the far side of Britain's cultural barricades. Hawes has adopted an enjoyable narrative poise of cynical idealism, both a loving and loathing of modern Britain. But behind all the bravura lies a new novelist of prodi- gious talent; one whose voice, only audible when his own comedy has subsided, is a moving, melancholic one. He is, perhaps, the new saviour of suburbia4.

A questo successo, segue nel 1997 Rancid Aluminium - letteralmente, alluminio rancido, perché questo, secondo Hawes, è il sapore del filo interdentale dopo l’uso. Un titolo, ma soprattutto un accostamento, piuttosto straniante, eppure non del tutto estraneo alla nostra esperienza: capita, infatti, che la vita ci sottoponga a situazioni talmente paradossali che per descriverle non si può fare a meno di ricorrere a figure dell’antitesi. Il secondo romanzo di Hawes vive di inconciliabilità come queste, connaturate alla sua stessa ambigua struttura, visto che si tratta di un’opera trasversale, in parte thriller, in parte spy story internazionale e in parte diario della crisi esistenziale di Peter Thompson, un intrepido manager di mezza età che aspira al successo nell’epoca della globalizzazione. Alla morte del padre, egli ha ereditato la gestione

3 A. QUINN, “Narration on Wheels”, The New York Times, 14th April 1996,

http://www.nytimes.com

4 T. JONES, “Winner takes nothing”, The Spectator, 3th February 1996,

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dell’azienda di famiglia, produttrice di supporti audiovisivi, che adesso è precipitata nella bancarotta per effetto della recessione; così, esasperato dalle tensioni con la moglie per un figlio che non arriva, apparentemente per la sua presunta sterilità, e per dimostrare a se stesso e agli altri di poter salvare la sua azienda, si lascia convincere dal consulente fiscale e fidato amico Deeny a trafficare con Mr. Kant, un losco uomo d’affari russo in odor di mafia. Si ritrova così in un paesaggio squallido e sinistro, popolato da limousine nere con i vetri oscurati e da maliarde dark lady nel ruolo delle pupe dello spietatissimo capo. I russi, con fiumi di denaro di dubbia provenienza, salvano la ditta dal tracollo attraverso un ingente prestito finanziario, e Peter, consapevole di dover render loro merito, si piega a ogni loro volere, anche a costo di affrontare durissime esperienze in Kazakistan. Si disloca, infatti, in quel tremendo nuovo mondo con tutto il carico delle sue nevrosi, la paura di invecchiare, il timore della sterilità, la crisi del suo matrimonio (decisamente conclamata, visto che la tradisce più volte, prima con una sua segretaria e, in seguito, con la seducente figlia del boss russo) e tutto il complesso microcosmo che, come inquadrato da una lente di ingrandimento, si agita sullo sfondo di un colossale intrigo. Ne risulta una trama che, pur tra i continui flashback e le sconnesse digressioni mentali del protagonista, riconferma lo stile

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narrativo ironico e vincente del primo romanzo. La buona ricezione del libro incoraggia Hawes a cimentarsi per la prima volta come sceneggiatore, firmando l’adattamento cinematografico del romanzo, che diventa film nel 1999 per la regia dell’esordiente Ed Thomas. L’esito della trasposizione, nonostante il cast di attori eccellenti, risulta però molto deludente, sia agli occhi del pubblico che degli addetti ai lavori, come sintetizza Peter Bradshaw nella sua critica:

The plot is all over the place, eventually incomprehensible, and very, very boring. The film-makers clearly have not the slightest interest in how the Russian mafia really look or behave, remaining content with a silly, uninteresting vodka-commercial caricature. This film wastes a lot of talent.

Nel 2000 vede la luce Dead Long Enough, romanzo incentrato sulla storia di quattro amici londinesi in piena crisi di mezza età. Ogni anno, il gruppo si ritrova per celebrare un finto compleanno, che è poi, in realtà, il pretesto per ritrovare la giovinezza perduta tra fiumi di alcol e droga, un palliativo contro la frustrazione per l’inesorabile incedere della vita verso il declino. Al centro della trama è il personaggio di Harry MacDonald, un archeologo trentanovenne di origine irlandese che lavora in televisione. Tutti gli anni, è lui ad organizzare la trasferta per il “finto compleanno”. Spazzolino da denti, carta di credito e un’irrefrenabile voglia di scrollarsi di dosso le angosce del presente:

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questo è quanto serve ai nostri amici per compiere il loro viaggio indietro nel tempo. Questa volta, la destinazione prescelta è Dublino, città natale di Harry, dove le vicende dei quattro personaggi si concentrano intorno a un pub di affiliati all’I.R.A., e dove il confuso protagonista ritrova la conturbante Sinead, suo amore giovanile. Uno dei temi dominanti del romanzo è la conquista del great day, il grande giorno dell’affrancamento dal passato: l’agognato raggiungimento della maturità necessaria per superare quella visione tipicamente giovanile dell’esistenza come incessante rehearsal, cioè una prova replicabile, e quindi perfettibile, di azioni e comportamenti. Solo in questo modo, la vita può essere vissuta pienamente e consapevolmente, anche attraverso l’acquisizione degli insegnamenti del passato (non è casuale che il protagonista sia un archeologo, il cui compito è precisamente quello di riportare in vita ed interpretare il passato). Il “grande giorno” della presa di coscienza racchiude in sé un’incredibile varietà di scelte possibili, di accese discussioni e di battute ironiche, il tutto amplificato da una massiccia dose di droga.

Dopo il successo di A White Merc With Fins, bissato dal secondo romanzo che ottiene un buon riscontro di pubblico ma che, tuttavia, subisce la penalizzazione della deludente trasposizione cinematografica, la critica accoglie il terzo romanzo – da cui, anche in questo caso, sarà

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tratto un film per la sceneggiatura dello stesso Hawes insieme al regista Tom Collins– con pareri discordanti.

Se Garan Holcombe sostiene che:

[…] The relentless tirade of his middle-aged angst, the miasma of worry and self-obsession, may irritate some, but there are so many sustained riffs on the culture and iniquity of ‘this big security-guarded shopping mall we call the Western world’, that Dead Long Enough is neverless than insightful and intriguing. It is also filled with moments of genuine sadness. Much less frantic than Hawes’ first two novels, although by no means slow, Dead Long Enough has a real edge; a sense of desperation below the surface of things5,

Euan Ferguson recensisce l’opera con un giudizio blando e, in parte, contradditorio:

It’s not that it’s a bad book. It’s just that the themes it tackles – hurtling towards 40 while balding or professionally frustrated or out of love, and struggling desperately to recapture youth thanks to the sudden realization that life is not a rehearsal – have all been done better, or at least as well, before. […] There is none of the clever heist-plotting of White Merc; none even of the faintly daft conspiracies that kept Rancid Alumium trotting along. Instead, there is a welter of solipsistic musings – windy, bitter, seldom particularly insightful – about ageing, debt, love and life from Ben, the not achingly likeable narrator6.

Nel 2002 esce il quarto romanzo di Hawes, White Powder, Green Light, una satira irriverente sull’industria cinematografica

5G. HOLCOMBE, “Critical Perspective on the Work of James Hawes”, British Council Literature, http://literature.britishcouncil.org/james-hawes.

6 E. FERGUSON, “He’s a bit thin on top. And so is the plot”, The Observer, 20th

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britannica. Paul Salmon è un produttore cinematografico trentaseienne con il vizio della cocaina, disperatamente alla ricerca di un nuovo progetto da sviluppare. Casualmente, si imbatte nella dottoressa Jane Feverfew, una trentacinquenne insegnante gallese di Letteratura Spagnola all’Università di Pontypool, divorziata e con un figlio a carico, che sta svolgendo il dottorato di ricerca su un romanzo semisconosciuto del primo Ottocento. La donna, che crede fortemente nel valore dell’opera e vorrebbe che ne fosse realizzata una trasposizione cinematografica, trova il consenso di Paul a portare avanti il progetto, ma disgraziatamente tutto inizia ad andare per il verso sbagliato e Jane, introdotta da Paul nel pomposo e surreale ambiente cinematografico, si ritrova con la vita completamente rivoluzionata. Carrie O’Grady lo definisce «[…] a novel about supply and demand. Jane has what Paul wants, and – in Hawes’ only really skillful development – Paul has what Jane eventually comes to want very much: cocaine».7 Dopo il giovane

disoccupato che tenta il colpo della vita con una rapina in banca, dopo il manager di mezza età alle prese con la bancarotta dell’azienda di famiglia e un’irreversibile crisi matrimoniale, e dopo l’archeologo che festeggia con gli amici quarantenni finti compleanni per ritrovare la spensieratezza della gioventù, per la prima volta troviamo in un’opera di

7 C. O’GRADY, “Barbed and wired”, The Guardian, 26th October 2002,

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Hawes un’eroina femminile, la dottoressa Feverfew, con caratteristiche in parte simili a quelle dei già citati (anti)eroi cari all’autore, ma fondamentalmente «too feisty to be a true underdog, and too frustrated with life in Wales to be content»8. Come nei precedenti romanzi, anche

qui lo stile narrativo di Hawes si rivela sorprendentemente agile e brioso («once more, [it] proves Hawes’ unbelievable gift with pace»9), con

marcate caratteristiche proprie della scrittura cinematografica; infatti, «Hawes’ cinematic sixth sense ensures that White Powder is well up to speed, with lots of rapid-fire, 1940’s-style patter, quick scene cuts and jokes. […] It all comes as refreshingly light relief after the endless philosophical digressions of A White Merc with Fins and Dead Long Enough».10

Dopo la stroncatura del film tratto dal suo secondo romanzo, di cui Hawes aveva firmato anche la sceneggiatura, è peraltro evidente come la scelta dell’autore di ambientare la sua satira nell’eccentrico mondo dello showbusiness londinese risponda ad una precisa volontà di vendicarsi, sia pur con l’ironia, dei giudizi infelici che gli erano stati

8Ibid.

9G. HOLCOMBE, “Critical Perspective on the Work of James Hawes”, British Council Literature, http://literature.britishcouncil.org/james-hawes.

10 C. O’GRADY, “Barbed and wired”, The Guardian, 26th October 2002,

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attribuiti. Come afferma la già citata O’Grady, infatti, «White Powder, Green Light is full of sly little digs at moneymen, directors, socialities, actors, druggies, Guardian readers, Guardian writers, activists and more specifically identifiable targets such as an installation artist called Dorian Height. […] It looks like all those nasty jabs from the film critics gave Hawes some sympathy for the underdog».11

Nel 2005 è la volta di Speak for England, a oggi considerato dalla critica come il romanzo più riuscito di Hawes (che, al momento, ne sta curando l’adattamento cinematografico in collaborazione con Andrew Davies), alla cui analisi dettagliata dedicherò i capitoli successivi del presente elaborato. Brevemente, ritroviamo qui l’eroe prototipico dei primi romanzi, protagonista di un’esilarante commedia-parodia sulla società inglese contemporanea che ha valso al nostro autore la consacrazione come uno dei migliori autori satirici del panorama letterario britannico attuale. Il romanzo ha per protagonista Brian Marley, un quarantenne divorziato di estrazione piccolo borghese che si guadagna da vivere come insegnante di inglese per stranieri. Ha un figlio di tre anni, che vede di rado, e una madre iperprotettiva di cui subisce le continue, involontarie prevaricazioni. La sua è la vita mediocre, sostanzialmente priva di stimoli e di soddisfazioni, di chi,

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inetto per natura, non prende mai concretamente una posizione, in amore come nell’amicizia o nella professione. D’improvviso, questo torpore esistenziale viene sconquassato dalla decisione quanto mai bizzarra di partecipare a un reality show televisivo, Brit Pluck, Green Hell, Two Million, dove i concorrenti devono sopravvivere per un determinato periodo di tempo nella giungla della sperduta Papua Nuova Guinea, al fine di aggiudicarsi il ghiotto montepremi di due milioni di sterline. Brian prende questa sfida molto seriamente, vedendo in essa i presupposti per un autentico riscatto, sia personale che economico, determinato a garantire al figlio un avvenire più prospero del suo. Dopo aver superato numerose prove di resistenza fisica e psicologica, Brian resta l’ultimo concorrente sull’isola, aggiudicandosi la vittoria del programma, ma quando gli elicotteri della troupe televisiva, venuti a recuperarlo, si schiantano per un’avaria, si trova solo e abbandonato in un luogo orrendamente inospitale, nel pieno della stagione delle piogge. Non gli resta che una videocamera con la quale inviare un ultimo messaggio al figlio, che riesce a registrare con immensa fatica, dopo aver scalato un’intera parete rocciosa. Allo stremo delle forze, Brian perde conoscenza, ma proprio quando tutto sembra perduto, si risveglia, come per incanto, in un altro mondo, scoprendo una comunità di inglesi sopravvissuti a un disastro aereo avvenuto nel 1958. I superstiti, creduti

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morti in patria, ma in realtà giunti alla seconda generazione, hanno conservato i valori della società patriarcale e imperialista degli anni ‘50, affidandosi alla guida di un headmaster estremamente severo e ricreando un microcosmo “ideale” dove le giornate sono scandite dal gioco del cricket e dal rugby - il luogo, cioè, dove ogni inglese vorrebbe vivere. Quando incontrano Brian, i coloni, convinti di essere le prime vittime della Terza Guerra Mondiale, sono curiosi di sapere cosa è avvenuto in Inghilterra in loro assenza e interrogano Brian a riguardo. L’incontro-scontro dei due mondi produce risultati esilaranti, che Hawes descrive in passi divertenti al limite del grottesco - sfruttando una strategia narrativa favorita dall’ideologia totalmente anacronistica e inattuale degli abitanti dell’isola - fra mille malintesi e lo sbigottimento generale. Come dichiara Theo Schell-Lambert,

these literal impacts thus set up a figurative one: the colliding of 50s-era real hysteria – scornful of “Bolshies” talking socialist rot and a U.S.S.R. metonymed as “Ivan” – with its millennial twin, the hysterical realism of reality TV. It’s a strangely fruitful pairing; while most of the expats know the Isle only through nuke-heavy pamphlets, Brian’s Britain in hardly more tangible, seeking out its identity in absurd self-enactments. But try explaining that to this homesick crew.12

12T.SCHELL-LAMBERT, “The Isle: survivors meet survivor in Cold War collision”, The Village

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Quando finalmente i coloni fanno ritorno in patria, esportano il loro bagaglio di certezze anacronistiche, che provano in seguito a trasporre nella contemporaneità. Il preside che li aveva governati in Papua Nuova Guinea viene eletto alla guida del Partito Conservatore, di nuovo al governo, e caldeggia misure draconiane che, nonostante la loro rigidità, trovano un ampio consenso elettorale. Ma il modo in cui la nuova Inghilterra recepirà queste idee sarà oggetto di analisi approfondita nei capitoli successivi.

Nel 2008 viene pubblicato il libro più controverso di Hawes, Excavating Kafka, una biografia-scandalo che, svelando la scomoda passione del grande scrittore boemo per la pornografia, ha di fatto diviso la critica internazionale, con particolare indignazione di quella tedesca, scardinando l’immagine di uomo integro con la quale il mondo accademico aveva sempre identificato l’autore de La metamorfosi. Rispolverando alcuni studi su Kafka svolti anni prima durante il suo Dottorato, facendo ulteriori ricerche presso la British e la Bodleian Library di Oxford, Hawes si imbatte in una raccolta di riviste pornografiche possedute dall’autore praghese, dalla cui analisi emerge un ritratto molto diverso dall’uomo inquieto e tormentato che i posteri ci hanno tramandato. Hawes giunge a formulare l’ipotesi che Kafka fosse stato spalleggiato da una cerchia di influenti letterati che era a

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conoscenza, non soltanto del suo debole per la pornografia, ma anche delle sue frequentazioni di prostitute e bordelli - informazioni che sarebbero state tenute nascoste perché, evidentemente, compromettenti. Quella di Hawes è un’opera che, fin dalle sue premesse, esposte nell’introduzione, dichiara che i «building blocks» del mito kafkiano «are, unfortunately, all rubbish». Come spiega Joanna Kavenna nella sua recensione,

Hawes […] insists that Kafka was not a ‘lonely Middle European Nostradamus’. Rather, he lived with his parents and was set up with a relatively cushy job (six hours a day for the equivalent of £58,000 today), leaving him plenty of time to write. Thanks to his literary connections, he won a major literary prize in his early thirties before even publishing a book […]. He was not tragically unrequited in his love affairs; […]Hawes's Kafka is a canny, funny, worldly man who liked to relax by socialising with his many friends, visiting the occasional prostitute - and reading porn. The fact that Kafka subscribed to two erotic journals is presented as a grand revelation13.

Scritta in una prosa colta ma al tempo stesso spiccia, in un tono dissacrante ma riverente, l’opera riporta solo alcune di quelle immagini scandalose (che, viste oggi, fanno sorridere…) e aggiunge una dimensione in più all’angoscia dello scrittore boemo, senza tuttavia screditare la sua opera. Da grande estimatore di Kafka quale è, Hawes si prefigge di rivalutarlo non come lo scrittore claustrofobico de La

13 J. KAVENNA, “Franz Kafka, party animal”, The Observer, 17th August 2008,

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metamorfosi, ma come uomo: se non come tutti, uno come tanti. È questa, peraltro, l’opinione di Richtie Robertson, docente di Letteratura tedesca all’Università di Oxford, anch’egli grande studioso di Kafka, che contesta l’immagine di “santo” del praghese veicolata dal suo grande amico e biografo Max Brod.

Il 2008 vede la pubblicazione di un’altra opera satirica di Hawes, a oggi sua ultima fatica letteraria, dal titolo My Little Armalite. Il romanzo riconferma al centro della narrazione un protagonista borghese e frustrato, insegnante di professione, la cui vita abitudinaria viene sconvolta dal ritrovamento fortuito nel giardino di casa di un fucile Armalite, presumibilmente appartenuto ad esponenti dell’IRA – idea suggeritaci dal titolo stesso del libro, che cita una famosa canzone irlandese dedicata a questo tipo di arma, simbolo della ribellione messa in atto dalle forze paramilitari repubblicane durante i cosiddettiTroubles14. John Goode è un uomo di idee liberali; insegna

Storia e Filosofia all’università e conduce una modesta vita borghese nella zona sud di Londra, dove abita con la moglie e i figli, cui vorrebbe garantire una maggiore agiatezza economica: una casa grande e

14 «Termine quanto mai ipocrita ripreso dalla guerra civile del 1922 per descrivere un’epoca

di sanguinosi attentati da parte dell’IRA, dall’occupazione militare inglese, da vendette reciproche, torture, processi sommari e scioperi della fame, organizzati dai prigionieri politici». S. DE ROSA, “Short Story”, in R. Crivelli (a cura di), La Letteratura Irlandese Contemporanea, Carocci, Roma, 2007, pp. 225-262, qui pag. 257.

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luminosa con ampie finestre scorrevoli nei quartieri benestanti a nord, un’istruzione migliore in scuole qualificate, un vicinato tranquillo e socievole… insomma, uno standard di vita più elevato, oggi sempre più inarrivabile a causa della crisi economica globale. Nonostante la sua indole debole e insicura, Goode è determinato a dare una svolta alla sua carriera accademica; per questo, lavora a uno studio innovativo nella speranza di attirare su di sé l’attenzione dei mezzi televisivi. Ma un giorno, mentre pianta un albero di susine nel giardino della sua casa, scopre un oggetto metallico che si rivela essere un fucile automatico Armalite. Si chiede allora in che modo questo ritrovamento possa concretamente cambiare il futuro suo e della sua famiglia. Il dubbio lo assale: Goode non sa se avvertire o meno la polizia, in quanto una fuga di notizie potrebbe nuocere gravemente alla sua reputazione, specie in un momento così importante per la sua vita professionale. Dopo un’attenta valutazione, decide di mettere tutto a tacere, spaventato e, al tempo stesso, intrigato da ciò che l’impiego di quell’arma potrebbe implicare per la sua esistenza. Entrato in crisi il suo ideale borghese di normalità, infatti, Goode capisce che per coltivare il proprio giardino, e non solo in senso metaforico, di questi tempi non è più sufficiente una vanga. Così, decide di conoscere più da vicino la realtà delle armi e parte per Praga, dove incontra un ex poeta e politico estremista della

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Germania dell’Est con il quale escogita un piano che, finalmente, gli varrà la tanto ambita attenzione mediatica. Questo il progetto: il complice si finge un terrorista islamico e inscena un finto tentativo di omicidio durante un incontro pubblico televisivo nel quale Goode presenta il suo nuovo studio. Sventato il finto atto terroristico, Goode snocciola davanti alle telecamere un repertorio di luoghi comuni cari ai liberali sinistroidi, che lui conosce bene; quindi, perdona il finto attentatore, dichiara che l’Islam non è altro che una colpa dell’Occidente, ecc. In questo modo, balza agli onori delle cronache guadagnandosi un articolo sul Guardian, un servizio dell’emittente BBC, nonché i lauti guadagni derivanti da questa esposizione mediatica, che gli consentiranno finalmente l’accesso al suo “normale” sogno borghese.

L’opera riproponendo in una veste matura e accattivante

«[…] all his regular trademarks - black humour, sharp dialogue and a plot that goes off with all guns blazing in every respect. […] Hawes’s narrative hinges on the simple satirical conceit of equipping an archetypal, pacifistic liberal with a terroristic instrument of aggression, then monitoring how long it takes for his trigger finger to itch. Goode soon manages to overcome his irrational fear of firepower - a spot of web research brings him to the conclusion that ‘it’s a power tool, really

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... Nothing scary or mythical whatever once you get your hands on it and your brain round it’»15.

Il testo ha incontrato l’approvazione unanime della critica, consolidando la fama di Hawes come brillante autore satirico contemporaneo: «From his flashy debut, A White Merc With Fins, to the more considered Speak for England three years ago, Hawes has developed into a prolifically inventive and increasingly subtle satirist16», afferma Alfred

Hickling nella sua recensione.

15 A. HICKLING, “My Little Armalite”, The Guardian, 6th September 2008,

http://www.theguardian.com/books/2008/sep/06/fiction4.

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1.1. James Hawes: satira e poetica

Come afferma il giornalista, docente e politologo Nick Cohen in un articolo pubblicato dallo Spectator, i romanzi di James Hawes, così manifestamente permeati di middle-class fury, sono un buon punto di partenza per cogliere lo spirito dell’Inghilterra contemporanea, racchiuso entro i confini di una scrittura arguta e appassionante 17. Abbiamo visto come i personaggi ritratti da Hawes – largamente apprezzato come autore satirico - condividano in gran parte caratteristiche affini, proprie del loro status di borghesi di mezza età alle prese con una condizione esistenziale di dantesca memoria - forse un po’ azzardato, ma in fondo pertinente, il riferimento al Sommo Poeta e all’incipit della sua Commedia - in seguito al fallimento dei loro sogni. Ciò a cui questi individui tendono si identifica con un insieme di elementi che definiscono, dal punto di vista materiale, il cosiddetto “pacchetto-benessere” proprio del moderno cittadino borghese, comprensivo di villetta a schiera e posto di lavoro fisso, secondo un retaggio di pensiero ormai superato. Oggi, l’Inghilterra non è più in grado di offrire queste condizioni, un tempo considerate “normali”, e

17 N. COHEN, “A black, bloody insurrection of the hard-working, over-taxed and

unbenefited”, The Spectator, 13th November 2012, http://blogs.spectator.co.uk/nick-cohen/2012/11/

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appare come una terra inospitale da cui non resta che fuggire. Quelli che sopravvivono in questa giungla – non è casuale il riferimento all’ambiente ostile e selvaggio della Papua Nuova Guinea, dove si consumano le vicende dell’eroe di Speak for England – sono puntualmente personaggi frustrati e al verde. Gli unici lavori a cui ha accesso sono o a tempo determinato o occasionali (ma non va meglio neppure a chi è riuscito a diventare imprenditore di azienda, visto che deve fare i conti con l’umiliazione del dissesto finanziario) e vive in quartieri squallidi, rinchiusi in spazi angusti che impiega anni per pagare con mutui salati. Quale prospettiva, dunque? E se esiste, quale morale? Nell’articolo sopracitato, la risposta di Cohen è lapidaria, come lo è anche la scelta che Hawes fa compiere ai suoi personaggi:

The moral of Hawes’s stories is that the puritan virtues of hard work and thrift offer no chance of escape. You have to do something extraordinary to have ordinary comforts. So, his heroes turn to crime in A White Merc with Fins, or become contestants in a reality TV show in Speak for England, Hawes’s best comedy, which Andrew Davies is filming. Hawes’s plots are absurd, but they speak for England too: for the frustrated, put upon and contemptuous England, which is exploding around us. 18

Lo status sociale e il concetto di appartenenza a una classe, come risulta evidente, costituiscono un aspetto centrale della discussione, secondo

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una caratteristica tipica della cosiddetta Englishness. I personaggi di Hawes, esponenti della media borghesia inglese, sembrano affrontare la vita a occhi chiusi, dimenticando che la vita non è una rehearsal o un prolungamento della «long vacation of extended adolescence» 19 per

conservare «the helpful fantasy that their true lives still lay in the future»20. Questo pensiero illusorio, di cui si nutrono le loro personalità

fragili e indolenti, li guida in una serie di azioni e di comportamenti che si riverberano in tutti gli aspetti delle loro esistenze, fino a quando la prospettiva di una “salvezza” estrema, dettata da una scelta radicale, fa capolino nel loro orizzonte. Così, obiettivi considerati impensabili (perché apparentemente fuori dalla loro portata) diventano ora l’ambizione a cui tendere. E se non si è stati in grado di trovare un posto di lavoro fisso o di dare stabilità economica e affettiva al proprio figlio, come nel caso dei protagonisti rispettivamente di A White Merc with Fins e di Speak for England, allora non sarà altrettanto difficile ordire un piano machiavellico per svaligiare una banca, oppure partecipare a un reality show televisivo in un angolo sperduto di mondo, dove anche il concorrente più corpulento, ammesso che torni a casa, si riduce a un ammasso di pelle ed ossa.

19J. HAWES, A White Merc with Fins, Vintage, London, 1997, pag. 19. 20J. HAWES, Speak for England, Vintage, London, 2005, pag. 80.

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Prima di avventurarsi nelle impervie vicissitudini televisive imposte dal programma, il protagonista di Speak for England, Brian Marley, insegna l’inglese agli stranieri e viaggia spesso all’estero, dove si reca ogni volta che «things get too tough or too real»21 perché, citando

il nostro autore, «moving about lets you kid yourself you are moving on»22.

Certo Hawes non è il solo autore contemporaneo ad aver fatto del borghese medio il suo bersaglio preferito, affetto da un’inerzia nichilistica in parte stigmatizzata e in parte smorzata da toni di compassionevole empatia. Ciò che Andrew Gallix, in un’intervista con il nostro autore, sottolinea come elemento di vera unicità della sua scrittura, consiste nella capacità di sviscerare «[…] the pre-emptive strike on living of the lower middle classes with such deadly accuracy».23 Con onestà e ironia, Hawes conferma la centralità della

problematica sociale legata all’appartenenza di classe e per dimostrare la criticità del tema annovera esperienze e aneddoti tratti dalla sua personale vicenda biografica:

I went to Oxford in 1978 from a rural comp like some mad innocent with a straw in his mouth, for years behind the fashion and quite

21Ibid., pag. 41.

22J. HAWES, A White Merc with Fins, Vintage, London, 1997, pag. 70.

23 A.GALLIX, “Spanking for England”, April 2005, 3 a.m. Magazine,

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literally having never met a boarding school boy in my life. I found that the world – Oxford was then still largely a men-only-colleges place – was full of incredibly sophisticated, shamingly cool and impossibly well-connected young chaps who were used to partying in publishers’ holiday homes, skiing every Xmas vac and using mummy’s debenture at the Royal Court. They seemed two or three years older than me, nevermind infinitely richer. […] I wanted but hadn’t the faintest notion how to approach. You may detect a chip on ye olde Hawes shoulder. A sack of spuds, more like, my dear. I shudder to remember, nevermind relate, the wretched idiocies I got into. And all based on class24.

Se, dunque, il vissuto di Hawes contempla episodi di questo genere, viene spontaneo chiedersi quanto di genuina e autentica condivisione dell’autore ci sia nel dipingere il bizzarro mondo reazionario che Brian Marley incontra nella giungla di Speak for England. In altri termini, la domanda, alla quale cercherò di rispondere nei capitoli a venire, è da che parte stia realmente Hawes nel costruire il suo sagace discorso satirico intorno alla società borghese del suo tempo, vista criticamente attraverso gli occhi anacronistici di un gruppo di inglesi degli anni Cinquanta. Alla tesi di Andrew Gallix per la quale immaginare, oggi, un’Inghilterra imperialista e fuori dall’Unione Europea sia stato molto probabilmente un pensiero liberatorio camuffato dalla finzione letteraria, Hawes replica infatti con un laconico «writing satire is a way of having your cake and eating it»; in questo modo, egli avvalora

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l’ipotesi della sua indiretta partecipazione alla critica condotta nel romanzo, già intuibile dalle numerose analogie con il suo profilo autobiografico. La satira, storicamente e culturalmente, risponde esattamente a un’esigenza dello spirito umano in virtù della quale, attraverso la risata, si veicolano delle piccole verità in relazione a temi rilevanti - dalla politica, alla società, alla religione, al sesso e alla morte - con l’intento di seminare dubbi, smascherare ipocrisie, attaccare pregiudizi e scardinare convinzioni.

Ciò detto, è indubbio che l’inclinazione letteraria del nostro autore si sia orientata maggiormente verso una scrittura parodico-satirica, in un periodo in cui la chemical generation literary wave, cavalcando l’onda del successo di Trainspotting di Irvine Welsh, sembrava avere la meglio. Come afferma lo stesso Hawes, nonostante il suo romanzo d’esordio attinga inconsapevolmente a questo repertorio, le sue conoscenze e i suoi gusti letterari rispetto al panorama britannico novecentesco privilegiano il filone del comic social novel derivato da autori come Evelyn Waugh e Kingsley Amis25, che tratterò in breve nel

paragrafo successivo.

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Le origini del comic social novel

Kingsley Amis, amico del poeta Philip Larkin e vicino agli ambienti del Movement26, è meglio noto come uno degli “arrabbiati” dei tardi anni

Cinquanta, una corrente di giovani scrittori e drammaturghi dal temperamento ribelle, appartenenti alla nascente classe culturale di quegli anni, i quali convogliarono il sentimento di rabbia sociale espresso con grande efficacia dal dramma di John Osborne Look Back in Anger (1956) – da qui l’etichetta di “giovani arrabbiati” – dando vita a un movimento di protesta e di reazione contro l’establishment della società a loro contemporanea. Il disagio di questa generazione, che traeva le sue premesse dal seguito di disillusioni e malcontento lasciato dalla seconda Guerra Mondiale, portò i giovani scrittori a rifiutare gli ideali materialistici su cui si fondava l’Inghilterra benestante del tempo, una società standardizzata, dominata dal mito del benessere, la cui unica

26In ambito poetico, gli anni Cinquanta videro nascere in Inghilterra il cosiddetto Movement, che

rappresentava una reazione nei confronti dell’emotivismo e del linguaggio oscuro della poesia immediatamente precedente, in aperta polemica col surrealismo di Thomas, Graham e Gascoyne e, prima ancora, col modernismo di Eliot e Pound. Il Movement si distinse per due caratteristiche fondamentali: un atteggiamento anti-ideologico come reazione al marxismo e alla poesia politicamente impegnata degli anni Trenta; un ritorno della tecnica poetica a forme tradizionali, a un linguaggio chiaro e semplice, come reazione nei confronti della poesia sperimentale degli anni Venti, di quella ideologica degli anni Trenta e in contrasto con l’oscurità e l’esuberanza verbale di Dylan Thomas e del nuovo Romanticismo degli anni Quaranta. I loro modelli più vicini furono Thomas Hardy, William Butler Yeats, Robert Graves, Edwin Muir e William Empson; fra i poeti più distanti nel tempo, Pope e la sua poesia satirica e intellettuale. Le due personalità eminenti del Movement furono Philip Larkin e Thom Gunn. (B. MORRISON, The Movement, Oxford University Press, 1980).

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preoccupazione era quella di mantenere la stabilità sociale. I nemici principali di questi autori – tra i più noti, si ricordano John Wain, John Braine, Alan Sillitoe, e per il teatro il già citato Osborne, Arnold Wesker e John Arden – divennero lo sperimentalismo degli anni Venti, l’impegno politico degli autori degli anni Trenta e il neoromanticismo degli anni Quaranta; tutte espressioni di uno snobismo intellettuale che gli “arrabbiati” si impegnarono a combattere a colpi di opere dal tono dichiaratamente anti-intellettuale, satirico e contraddistinto da un linguaggio tagliente e sorprendentemente realistico. Questo movimento costituì l’humus intellettuale da cui trassero ispirazione Harold Pinter e registi cinematografici come Tony Richardson, Lindsay Anderson, Karel Reisz e un imberbe Ken Loach, adepti del cosiddetto Free Cinema, una corrente cinematografica, culturale, sociale e politica di sinistra, che emerse in Inghilterra negli anni Cinquanta, in un momento storico in cui cinema e letteratura furono particolarmente concordi in una radicale rivoluzione di forme e contenuti.

A Kingley Amis (1922-1995), una delle figure di maggior rilievo in questo ambito, si deve il romanzo considerato dalla critica come il più rappresentativo dei “giovani arrabbiati”, Lucky Jim, pubblicato nel 1954. Si tratta di una satira divertente e arguta contro le ipocrisie della società inglese, che racconta le vicende donchisciottesche di uno

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studioso di letteratura inglese medievale in una piccola e misteriosa università delle Midlands. Il racconto è ambientato nel periodo immediatamente successivo alla fine della seconda Guerra Mondiale, quando due dittature europee (quella nazista e quella fascista) erano state debellate, cosicché in quest’aura di apertura culturale e di belle speranze prendeva piede la visione di un comunismo ragionato e si guardava all’URSS come a un modello di pari diritti e pari dignità per tutti. Tanto che, nella prospettiva di ottimismo di quel periodo, il nostro protagonista crede di trovare migliaia di modi per poter definire la bellezza, anche nei luoghi e nelle situazioni che non ne avevano affatto. Un linguaggio fatto di crudo realismo e grande ironia sono la chiave di una narrazione che sottolinea le contraddizioni di una società inglese rigida, bigotta, incapace di aprirsi al nuovo, al cambiamento ancora lento ma che, di lì a pochi anni, nel periodo della Swinging London, avrebbe trasformato l’Inghilterra da isola provinciale e solitaria ad una delle nazioni più importanti sotto il profilo culturale internazionale.

Un altro autore di riferimento per James Hawes, che Gallix indica nell’intervista sopracitata come «the only English writer you read and re-read for sheer pleasure»27, è Evelyn Waugh, arguto scrittore

27 A.GALLIX, “Spanking for England”, April 2005, 3 a.m. Magazine,

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satirico che, quasi due decenni prima della generazione degli “arrabbiati”, raccontò il malessere dei tempi moderni in una veste totalmente innovativa per l’epoca. Waugh nacque nel 1903 e trascorse gli anni della giovinezza e della formazione letteraria nel primo dopoguerra, periodo segnato dall’inquietudine, dal dubbio e dall’incertezza. Il vecchio mondo era ormai finito, ma nessuno riusciva ancora a individuare quali sarebbero stati in nuovi valori e gli ideali in grado di sostituire i precedenti. La visione negativa della natura umana proposta da Freud, che avrebbe esercitato una fortissima influenza su molti scrittori del periodo, aveva sostituito la fede nell’uomo visto come creatura razionale e la guerra aveva dato ampia testimonianza degli istinti violenti e distruttivi. La diffusione del pensiero freudiano, secondo cui le convinzioni intellettuali non sarebbero altro che razionalizzazioni dei bisogni e desideri inconsci che determinano in ultima analisi il comportamento dell’uomo, ebbe come conseguenza una sensazione di disgregazione di tutti i valori, creando un atteggiamento di disillusione, scetticismo e pessimismo sul futuro dell’uomo, che tuttavia non escludeva il ricorso all’ironia e alla satira tipica della letteratura britannica.

Come nel caso di Amis, anche le narrazioni di Waugh, dietro un’apparenza comica, veicolano una visione totalmente pessimista del

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mondo di cui raccontano, con le dovute differenze politiche, storiche e socio-culturali fra i due autori. Waugh raggiunse la notorietà con i primi romanzi, pubblicati a cavallo fra le due guerre fra il 1928 e il 1942 (Decline and Fall, Vile bodies, A Handful of Dust, Put out more Flags), mostrando grande scioltezza di stile e un inconfondibile tono satirico e umoristico nel trattare il tema della decadenza dell’aristocrazia e dei suoi retaggi perbenisti e religiosi. Nel 1945 esce il suo romanzo più conosciuto, Brideshead Revisited, in cui per la prima volta affronta il tema religioso (nel 1930 lo scrittore si era infatti convertito al cattolicesimo). A quest’opera fa seguito la trilogia antimilitarista Men at Arms, Officers and Gentlemen e Unconditional Surrender, ripubblicata nel 1965 con il titolo Sword of Honour, considerato come uno dei migliori romanzi sulla Seconda Guerra Mondiale pubblicati in Inghilterra.

Un primo elemento di divergenza fra Waugh e Amis, che abbiamo detto padroneggiare entrambi lo strumento della satira, consiste nell’individuazione di diversi soggetti narrativi, rispettivamente l’aristocrazia e le classi popolari. Amis racconta, infatti, la classe umile, che nel secondo dopoguerra viene fuori da anni di asservimento e, in più, con tutte le frustrazioni legate alla rigida educazione protestante ricevuta. I suoi “eroi” sono spesso grotteschi cialtroni che esprimono

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una visione malinconica di quello che rappresentano: forse ancor prima di essere una classe superata, sono già portatori dell’autunnale spossatezza dei tempi che rappresentano.

Un aspetto che Amis, invece, ha in comune con Waugh è proprio la malinconia, nel senso della fine di un mondo, che sarà poi il punto fermo di The Old Devils, pubblicato oltre trent’anni dopo. Si individuano molte analogie anche nello stile, come dicevamo grottesco e sopra le righe, della loro scrittura e dei loro personaggi, a cominciare proprio dal “fortunato” Jim Dixon, che sembra una visione riveduta e corretta del Sebastian Flyte di Brideshead Revisited. Ma non è tutto, perché molti altri temi di Waugh riecheggiano in Amis, a cominciare dall’interesse per posizioni estreme in politica: il primo abbracciò l’ideologia di Mussolini e Franco, mentre il secondo il comunismo del dopoguerra, che entrambi in seguito rinnegarono.

Alla luce di questa breve retrospettiva, troviamo argomenti di forte affinità con il materiale narrativo espresso da James Hawes nel corso della sua produzione che, in sintesi, riattualizza in chiave contemporanea e arguta sentimenti non nuovi di rabbia sociale, di protesta e di insoddisfazione.

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Interrogato a questo proposito da Andrew Gallix, con riferimento specifico a Speak for England, Hawes sostiene, tuttavia, che i suoi personaggi, benché in qualche misura “figli” degli “arrabbiati” degli anni Cinquanta, non siano insofferenti e riottosi al sistema come lo erano stati i loro “padri” ma, al contrario, ambiscono a farne parte e proprio la difficoltà di riuscirci genera in loro insicurezza e frustrazione. Come sostiene l’autore, «I don’t think my writing was ever “angry” in that way. […] The hero of A White Merc was quite explicitly a middle-class boy knocking on 30 who really only wanted “a flat with tall windows”, but had gone adrift»28.

In modo analogo al giovane protagonista di A White Merc with Fins, Brian Marley aspira a diventare un vero Englishman e un membro dell’alta società, ma questa sua ambizione sembrerebbe destinata a rimanere intrappolata nella sua testa. Singolare, nel primo capitolo del testo, come Brian, in fuga nella giungla e convinto di morire di lì a poco, desideri a tutti i costi inviare con la telecamera, unico mezzo di comunicazione rimastogli, un ultimo messaggio al figlio. L’obiettivo si rivela tuttavia incredibilmente arduo da raggiungere poiché il protagonista, di cui fino a questo momento il lettore ha “ascoltato” solo il convulso colloquio interiore frutto del suo ego scisso, non trova la

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voce per parlare al suo interlocutore, in un’amara scoperta che lo costringe a uno sforzo psicofisico sovrumano29. Fermo restando il

carattere grottesco e volutamente iperbolico del passaggio, la difficoltà del personaggio a trovare la propria voce è una metafora della mancanza di identità propria della sua classe di appartenenza, come se il piccolo borghese rappresentasse una categoria sociale intermedia in attesa di un’evoluzione. Il punto centrale della questione è precisamente la condizione permanente di transitorietà – già in sé affermazione ossimorica - nella quale il piccolo borghese è costretto a muoversi nei tempi moderni, dal momento che è il concetto stesso di mobilità sociale a essere messo in discussione su larga scala. Questa mancanza di identità si traduce inevitabilmente in una frustrazione che arriva ai limiti dell’ossessione, innescando comportamenti assurdi e discutibili. Una problematica, questa, che Hawes spiega in questi termini:

The salient facts of the middle-class are its very middle-ness (i.e. its lack of any “authentic aspects”) and its dynamism. Its relations with the Working Classes are a mixture of disdain, fear and envy, while the Upper Classes are objects of secret outrage mixed with public fawning. [… ] But that Lower-Middle Radicalism is, in the saloon-bars of today, more often part of something very different: “Get rid of the Posh Wasters (the Queen herself alone excepted), dismantle social security, do-gooding and multiculturalism, smash the unions, kick out the asylum seekers”.30

29J. HAWES, Speak for England, Vintage Books, London, 2005. 30Ibid.

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Nei capitoli precedenti, si è cercato di mostrare come James Hawes sia un autore particolarmente calato nella contemporaneità occidentale e materialistica, della quale investiga questioni quali l’immaturità dell’uomo moderno, l’incomunicabilità, l’immobilismo sociale, la precarietà economica, oltre a fenomeni psicologici come la “crisi” di mezza età con il suo lascito di amarezza e disillusione. A seguire, prenderò in esame il romanzo che lo ha consacrato come scrittore satirico, Speak for England, a titolo di esempio paradigmatico della sua produzione. Il romanzo, come già brevemente illustrato in precedenza, racconta dell’improbabile avventura di un quarantenne londinese, che definiremmo a buon diritto – citando la recensione di Hickling - «spineless, ineffectual Brian Marley», il quale «swaps his life imparting the basics of English grammar to spotty foreign adolescents to take on a starring role in “a theatre of dissolution and collapse which the Great British Public found as irresistible as Victorian clerks had found tales of Empire”31». Brian, divorziato e con un figlio di tre anni a carico,

decide di partecipare come concorrente a un reality show televisivo che lo catapulterà in una giungla ostile dall’altra parte del mondo, in Oceania, dove dovrà giocarsi la sua sfida con la sorte nella speranza di

31 A. HICKLING, “All for Empire”, The Guardian, 8th January 2005,

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vincere il montepremi finale e di conquistarsi quel posto nel mondo per cui, fino ad ora, ha lottato invano. La trasferta oceanica lo porterà a confrontarsi non soltanto con inenarrabili prove di resistenza psicofisica, ma anche con la realtà inattesa di una comunità di inglesi finiti in quello sperduto atollo a seguito di un disastro aereo avvenuto ben cinquant’anni prima. Il contrasto tra i due mondi – da un lato, quello contemporaneo, contradditorio e lacerato di Marley, dall’altro quello conservatore, rigido e demodé dei coloni – offre all’autore lo spunto per dispiegare tutta la sua causticità nel delineare un ritratto sorprendentemente originale della società britannica dagli anni Cinquanta del XX secolo fino ai nostri giorni.

Il testo - che, come si è detto, si focalizza essenzialmente sull’intento parodico - come ci suggerisce l’etimologia stessa della parola (dal latino textus, «tessuto»), sviluppa una metafora in virtù della quale le parole che lo costituiscono, dati i legami che le congiungono, identificano un tessuto32, ovvero un discorso coerente.

Ogni testo possiede quelle che Greimas ha chiamato «isotopie», vale a dire insiemi di tratti semantici comuni che riemergono in vari punti del

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testo, determinando nel loro complesso il significato profondo dell’opera33. Greimas elenca vari tipi di isotopia, quella grammaticale,

con ricorrenza di categorie, quella semantica, che rende possibile la lettura uniforme del discorso, quale risulta dalle letture parziali degli enunciati che lo costituiscono, quella attoriale, ecc., ed estende il concetto a ogni ricorrenza di categorie semiche34. Nella presente analisi

mi soffermerò su alcune isotopie tematiche che emergono dal romanzo, secondo una linearità intratestuale che rende omogenea la sua superficie di significazione, evidenziandone l’unità macrotestuale.

In linea generale, il nucleo concettuale del romanzo è identificabile con una volontà parodica che si esprime attraverso un sistema di dicotomie definito da alcune opposizioni semantiche più o meno astratte, ma tutte riconducibili all’isotopia del confine. Queste opposizioni organizzano un quadro del mondo strutturato su valenze del tipo «immaturità vs maturità», «speranza vs rassegnazione», «sogno vs realtà», «realtà vs finzione (spettacolarizzazione)»,«passato vs presente», ecc. A queste, si aggiunge la contrapposizione tra le due figure femminili che ruotano attorno al protagonista, alle quali dedicherò un paragrafo a sé. Come spiega Jurij Lotman, il rapporto fra

33 A. J. GREIMAS-J. COURTES, Sémiotique. Dictionnaire raisonné de la théorie du langage, Hachette, Paris 1979, pp. 197-99.

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lo spazio e i personaggi all’interno dell’opera narrativa è fondamentale, in quanto l’opera letteraria risulta perlopiù costruita su un principio di opposizione semantica binaria, cioè secondo principi antitetici che spesso hanno una realizzazione spaziale, presentano un limite, una frontiera, che contraddistingue e separa due realtà. La paradigmatica testuale disegna, in questo modo, grazie al tratto topologico che funziona da frontiera, due parti o sottoinsiemi con caratteristiche peculiari. Il superamento del limite, quindi il passaggio dall’una all’altra parte dello spazio, determina il processo diegetico, quello che Lotman chiama «avvenimento». In relazione al limite del campo semantico dell’intreccio, il protagonista si comporta in modo da superarlo, mentre il limite agisce come ostacolo35. Nei capitoli seguenti, prenderò

separatamente in esame ciascuna isotopia tematica, rilevandone le occorrenze e le valenze all’interno di passaggi particolarmente salienti del testo.

2. Speak for England: l’immaturità

E’ questa, con ogni probabilità, la dicotomia centrale del romanzo, dalla quale, come da un tronco, si diramano le varie isotopie secondarie. Hawes tratteggia il personaggio di Brian Marley secondo

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caratteristiche affini a quelle che, convenzionalmente, si attribuiscono al cosiddetto flat character, un personaggio, cioè, definito da un insieme di caratteristiche che non conoscono evoluzione, e pertanto rimangono statiche, nel corso del romanzo. “Conosciamo” Brian Marley (da ora in avanti, B.M.) come un insegnante precario alle prese con un mutuo che, prima o poi, lo renderà proprietario di un misero bilocale; quarantadue anni, divorziato con un figlio a carico. Un perfetto anonimo, di professione “aspirante borghese”, cresciuto all’ombra delle paranoie di una madre iperprotettiva, che è stata abbandonata dal marito per una donna più giovane e avvenente quando Brian era solo un bambino. B.M. attraversa timidamente il fiume della vita, osservandola, passivo, con autocommiserazione: desideroso di dare al figlio Tommy una casa decorosa, quindi una “vita normale” – secondo i canoni della Englishness - immaginando di pubblicare un annuncio personale su una rivista, B.M. si descrive alle lettrici in questi termini:

M 42 tall unbald multilingual prof hmwnr dvrcd (but flly rcvrd!) p/t fthr of blvd (eh? boulevard? No, that was no good) beloved son (3), seeks upbeat hppy (no, that might be read as hippy) happy F 30-38 for grwn-up rltnshp inc kids if u have Family (no big families = no big stories!) ok ok just begging for Normality really I know we are all supposed to be oh-so happy with our little flat and our one-z-fun pre-cooked meals and our white

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grave-goods piling up on 0% credit but I’ve written this and you’re reading it so we both know that’s all lies […] (p. 82).

Lo sguardo del protagonista appare qui totalmente disincantato, immaturo nella misura in cui è consapevole, eppure al tempo stesso accondiscendente alle contraddizioni della vita: in un momento di ebbrezza, seguito a una serata goliardica con alcuni vecchi compagni di università, l’ipocrisia e la convenzionalità del suo messaggio tradiscono la debolezza di un ego frustrato, vessato dal peso dell’etichetta sociale. Il protagonista vive, infatti, una condizione psicologica molto diffusa nella società occidentale contemporanea, ribattezzata dagli psicoterapeuti come “crisi di mezza età”, a indicare una fase di messa in discussione radicale della propria individualità, dalla carriera lavorativa, alla vita affettiva, fino alla consapevolezza della fine della gioventù. Gli studi sull’evoluzione psico-sociale della personalità attraverso i vari stadi della vita mostrano due tendenze opposte, centrifughe e centripete, riconducibili rispettivamente agli anni della giovinezza e a quelli della maturità. La prima tendenza caratterizza gli anni dell’adolescenza e spinge l’individuo più verso il mondo esterno e i rapporti sociali che verso l’analisi di se stesso, in quanto per il giovane è necessario acquisire nuovi ruoli e adattarsi a situazioni sociali in continua espansione. Al contrario, durante gli anni della maturità, quando il ruolo e la situazione

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sociale dell’individuo si sono stabilizzati, si arriva ad una sorta di equilibrio tra gli aspetti costanti della personalità e quelli in espansione. In questo periodo, un individuo dovrebbe aver sviluppato uno stile di vita ideale che gli consenta di integrarsi in maniera soddisfacente nel suo ambiente36. Non è proprio questo il caso di Brian, che nella sua vita fino

ad ora ha incassato solo sconfitte: ha un titolo di studi accademico non competitivo sul mercato del lavoro («Graduating with a completely useless Humanities 2:1», p. 85); tra i venti e i trent’anni ha viaggiato per il mondo insegnando l’inglese agli stranieri «as a cut-price streetwalker for the international American language, chasing foreign women, missing out on several domestic property booms but not noticing the years passing»; in seguito, sempre durante un soggiorno all’estero, ha avuto una breve relazione con una connazionale («presumably as a result of undiagnosed homesickness»), che ha sposato solo perché era rimasta incinta. Dalla loro unione è nato un figlio, Tommy, che ora ha tre anni e vive con lui in un modesto appartamento nel quartiere londinese di Acton, faticosamente acquistato con un mutuo. Immaginando il proprio necrologio, Brian si descrive con un individuo «unable to settle in the reality of England, […] lacking the moral fibre to escape the general mendacity of his life […] – A disappointment to his mother».

36E. H. ERIKSON, The Life Cycle Completed, W.W. Norton & Company Editors, New

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Il senso di disfatta e di vergogna per la propria esistenza trapela in occasione della già citata cena con i vecchi amici dell’università, suoi coetanei ma con situazioni professionali e private migliori delle sue, rispetto ai quali Brian si sente inevitabilmente inferiore:

After college, they had all hung about for a few years, wondering exactly what it might be, then got safe and steady jobs. […] Their parents were still more or less alive, their marriages all still more or less holding, their children all still more or less infants.[…] They were all currently drinking red wine in a somewhat guarded fashion and warming their bums in pairs on the rail of the host’s Aga37 (p. 79).

Nonostante alcuni momenti di imbarazzo in cui cerca di glissare alle domande personali rivoltegli dagli amici, Brian trascorre la serata con il consueto, passivo atteggiamento di accettazione degli eventi («he wrestled to maintain some kind of control over his tail-spinning existence», p. 42) e, una volta congedate le mogli dei commensali, si gode l’atmosfera leggera del rendez-vous: «Marley could now get drunk with his old friends and they could all conspire in the helpful fantasy that their true lives still lay in the future, that the vague

37 Il riferimento è alle note cucine Aga, prodotte dal 1929 e ancora oggi vendute in tutto il

mondo: un classico delle case borghesi britanniche e delle residenze di campagna degli anni Cinquanta. Le cucine Aga sono interamente in ghisa e hanno una superficie in smalto vetrificato (un miscuglio di vetro fuso, argilla e pigmenti legati in modo permanente alla ghisa a temperature molto elevate), che si caratterizza per la durevolezza e la brillantezza dei colori. Oggi tutte le cucine Aga sono fabbricate nel Regno Unito dall’azienda Aga-Rayburn, a Telford, nel Shropshire, e continuano a essere uno status symbol per la classe borghese.

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radiations of their dreams could still pass for genuine hope, and that their gossip on matters cultural and political was of any significance to anyone» (p.80). Questi individui, che a differenza di Brian hanno situazioni lavorative e familiari più solide, sembrano rappresentare il disagio di una generazione afflitta dalla cosiddetta “sindrome di Peter Pan”38, ovvero quella situazione psicologica in cui si trova un individuo

che si rifiuta o è incapace di crescere, di diventare adulto e di assumersi delle responsabilità.

Nel caso di Brian, si tratta di una vera e propria condizione psicologica patologica, in cui il personaggio rifiuta di operare nel mondo adulto, ritenendolo ostile, e si rifugia nell’insicurezza tipica dell’età adolescenziale. La sua debolezza d’animo ha radici antiche, da rintracciare nel suo passato di bambino rapinato di un amore che nessuno potrà mai restituirgli: quello di un padre egoista e fedifrago, che ha ritenuto le mise succinte di una bionda norvegese più allettanti della vita familiare che lui e sua madre avrebbero potuto offrirgli, e che, in men che non si dica, è volato dall’altra parte del mondo senza dare più notizie di sé. Alla soglia dei diciotto anni, Brian di mettersi in contatto con lui e, prima di iniziare l’università, vola in Australia per incontrarlo,

38Il termine è entrato nell'uso comune in seguito alla pubblicazione nel 1983 del libro di

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galvanizzato dall’ ottimismo tipico dei suoi anni e ansioso di recuperare il loro rapporto perduto. Oltre a permettergli un ricongiungimento col padre, che avverte come un fatto necessario per cominciare la sua scalata in mezzo ai sentieri irti della vita, questo viaggio assume per il ragazzo anche la valenza di un viaggio interiore nelle profondità dell’io, dal quale spera di uscire maturo e fortificato. Ma tutto questo carico di aspettative è destinato a essere miseramente disatteso; infatti, al suo palesarsi, il padre si dimostra freddo e imbarazzato, e lo costringe a recitare un’umiliante pantomima di fronte alla nuova moglie e ai loro figli, che lo ospitano a pranzo credendolo un nipote venuto dall’Europa. Quando il padre lo invita a mentire sulla sua reale identità, «Marley felt his heart freeze over, like his jaw froze over when at the dentist’s, but he just nodded, glad of any secret alliance with his father, even though it was directed against himself» (p. 50). Il viaggio del protagonista alla ricerca del genitore perduto si rivela assolutamente fallimentare: B.M. fa ritorna in Inghilterra schiacciato dal peso insostenibile di quel mancato «cathartic showdown that would set all things clear and put him on his feet for life» (p.50). Tutto ciò che gli resta del padre, oltre al ricordo della sua nuova vita australiana, è una fotografia in bianco e nero che lo ritrae funzionario della Marina inglese - un uomo fiero e altero nella sua uniforme, con la spada in braccio -, che troneggia con la sua pomposa

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cornice sopra il caminetto, nel salotto dell’abitazione materna: un’immagine che Brian sarà costretto a fissare per la vita, con rabbia e nostalgia. Con lo stesso sentimento, un misto di amarezza e rimpianto che si nutre dell’insaziabile fame di ricordi, il protagonista si rifugia nella lettura degli amati fumetti Eagle, un tassello fondamentale nel puzzle della sua infanzia infelice e segnata dall’abbandono, rievocati nella grafica e nei colori anche della copertina dell’edizione del testo cui qui si fa riferimento39. Si tratta di una collana di fumetti per bambini, ricchi di

illustrazioni a colori e molto popolari nel Regno Unito dal 1950 fino al 1969, in seguito rilanciati dal 1982 fino al 1994. Fondata da un vicario anglicano del Lancashire, Marcus Morris, con la collaborazione dello sceneggiatore Frank Hampson e del disegnatore Don Harley, la collana si prefiggeva di promuovere i valori della Cristianità, senza tuttavia la pretesa di imporli, attraverso le avventure di eroi positivi e virtuosi, al fine di incoraggiare comportamenti moralmente e socialmente esemplari. Il fumetto in assoluto più noto della collana è quello di Dan Dare, Pilote of the Future, «the UK’s first science-fiction comic strip of any significance»40, incentrato sulle imprese del colonnello Dare, pilota

capo della Flotta Spaziale Interplanetaria. Con questo fumetto, il reverendo Morris vinse la sua prima scommessa editoriale, pubblicando

39J. HAWES, Speak for England, Vintage Books, London, 2005.

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dal 14 aprile 1950 il settimanale Eagle, che presentava in copertina le prime tavole del “Pilota del Futuro” e, all’interno, le avventure western di Jeff Arnold e altri personaggi. La tiratura del primo numero fu di un milione di copie: uno strepitoso successo di vendite che fu confermato anche dai numeri successivi, tali da richiamare l’attenzione di artisti come i Pink Floyd ed Elton John, che dedicarono al personaggio di Dare due loro brani, fino alla vigilia dello sbarco sulla Luna. L’ultimo numero di Eagle fu il numero 991 e uscì il 26 aprile 1969, poco prima che si concludesse la grande stagione del fumetto inglese, quando la gara spaziale fra USA e URSS rendeva ormai superata la fantasia degli autori di fantascienza. L’influenza della Storia è palpabile nelle avventure immaginarie del valoroso pilota, la cui missione è difendere il pianeta dagli attacchi di temibili umanoidi, capeggiati del perfido Mekon: un modo, evidentemente, per esorcizzare il pericolo che in quegli anni veniva dallo spazio, ma ancor più dai sospetti della Guerra Fredda. Disgustato dalla politica e dalle vicende successive alla guerra nucleare che ha annientato il Nord America e gran parte dell’Asia, Dare si è ritirato in esilio volontario nella natia Inghilterra, l’unica super potenza rimasta al mondo, e insieme alla sua spalla, Digby, combatte le forze aliene a colpi di battute sul tè delle cinque, per il quale è puntualmente in ritardo. Il successo del fumetto, pubblicato anche

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