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Razzismo inconfessato di Alberto Burgio

VITO TETI, La razza maledetta. Origini del pregiudizio antimeridionale:, mani-festolibri, Roma 1993, pp. 254, Lit 28.000.

La force du préjugé è un libro ormai classico nella ricerca contemporanea sul razzismo. Non è difficile compren-dere il senso del titolo: il pregiudizio, la recezione acritica degli stereotipi, è lievito indispensabile dell'ideologia razziale. Questo non è vero soltanto nel caso, di gran lunga più frequente, di stereotipi negativi (l'ebreo avaro, il nero ottuso, lo zingaro ladro), ma an-che per quella forma di razzismo an-che gli specialisti definiscono "autorazziz-zazione", nella quale un gruppo prov-vede a definire in primo luogo le pro-prie caratteristiche (naturalmente po-sitive). Tipico esempio è la mitologia ariana, che prima che sulla determina-zione dei difetti della "razza semitica" fa leva sulla celebrazione delle virtù naturali degli "indoeuropei".

A dispetto della nostra proverbiale inclinazione all'autoflagellazione, an-che noi italiani condividiamo qualan-che pregiudizio favorevole nei nostri stessi riguardi, anche noi ci "autorazzizzia-mo". E lo facciamo proprio in tema di razzismo. Di una cosa sembriamo tutti quanti certi: di non essere, appunto, razzisti. Per rinsaldare questa confor-tante certezza ci basta di solito il para-gone con altri popoli (soprattutto i te-deschi), ma non disdegniamo, all'oc-casione, di indicare la ragione storica della nostra virtù in un'abitudine mil-lenaria alle mescolanze etniche e cul-turali. Niente di strano, quindi, che questa tradizione cosmopolitica sia ri-cordata con particolare enfasi mentre le città e le campagne d'Italia si sco-prono teatri di intolleranza xenofoba e assistono all'irresistibile ascesa di un movimento politico deciso a capitaliz-zare gli effetti dei contrasti etnici.

A dispetto delle apparenze la storia "dimostra" che gli italiani non sono razzisti: e tale è la forza della "dimo-strazione" che gli stessi controesempi storici sono impotenti a insidiarla. La corroborano, anzi. In Africa fummo brava gente (mai fatica di studioso parve più vana di quella, eminentissi-ma, di Angelo Del Boca); e mal sop-portammo, come si sa, la legislazione razziale fascista, peraltro dettata obtor-to collo dal Duce per mero "opportu-nismo" nei rispetti di Hitler (De Felice). Un tanto consolante pregiudi-zio nessun libro basterà a smantellar-lo, se non altro per il fatto che saranno sempre troppo pochi a leggerlo. A ogni nuova lettura aumenterà solo, questo sì, il disagio nei riguardi di un

ritornello dissennato. Che si possa con tanta buona coscienza tener fede al dogma della naturale refrattarietà ita-liana al razzismo parrà ancor più in-tollerabile, per esempio, a chi riper-correrà, raccolte in questa bella anto-logia, le pagine della polemica che divampò alla fine del secolo sull'op-portunità di aver unito l'Italia, polemi-ca che fece leva, per l'appunto, sulla differenza razziale tra gli italiani del Nord e quelli del Sud. Vi presero par-te, da un lato, i più bei nomi

dell'an-tropologia culturale e della sociologia positiva del tempo, Lombroso, Sergi, Niceforo, Ferri, Garofalo, Troilo, Ferrerò, Pasquale Rossi, impegnati ad accumulare ragioni a sostegno della non compatibilità di popoli diversi per natura, per istinti, bisogni e talenti originari. Dall'altra, a trattenere con tenacia il filo del discorso storico e dell'analisi sociale, alcuni padri del migliore meridionalismo, Napoleone Colajanni, Salvemini, Fortunato; e uno storico antico, Ettore Ciccotti, mosso dalla passione civile che l'aveva spinto a farsi socialista.

Il contesto culturale dentro cui si muovevano i critici dell'unità era quello del tramontante positivismo europeo. Con il tradizionale ritardo, la

cultura italiana di fine secolo scopriva l'arcano della tradizione razzista euro-pea: interpretare il conflitto sociale at-traverso categorie naturalistiche e a questo scopo tradurre la vicenda stori-ca in "romanzi antropologici", come Colajanni definiva le teorie degli av-versari. Al posto di Boulainvilliers, Thierry e Gobineau (o di Walter Scott) erano i nipotini di Lombroso; in luogo di Franchi e Galli, Celti, Bretoni e Germani, si confrontavano Arii (lombardi e piemontesi) e Mediterranei: ma l'arsenale retorico era il medesimo (stirpi coraggiose e leali contro popoli infidi vocati al cri-mine; genti rudi e operose al cospetto di masse informi, incapaci di "organa-mento sociale" e consegnate a

un'irri-mediabile minorità); identico il pro-gressivo dilatarsi del campo di riferi-mento degli stereotipi (onde ben pre-sto divennero caratteristici dell'intero Mezzogiorno la pretesa inclinazione dei calabresi alla "melanconia" e il lo-ro "temperamento bilioso").

Con lucidità il bel saggio introdut-tivo di Vito Teti mostra quanto gli ste-reotipi nordisti fossero propizi al mantenimento del dominio feudale degli agrari nel Mezzogiorno e alla le-gittimazione della repressione mafio-sa: analoga riflessione meriterebbe di essere svolta oggi, mentre imperversa la retorica europeista di chi vagheggia la separazione del Nord dalla "palla di piombo" meridionale che insidiereb-be un già periclitante sviluppo. Solo una raccomandazione è qui possibile aggiungere per chi voglia arricchire le proprie conoscenze in materia: leggere per intero l'ultimo ricchissimo fascico-lo di "Meridiana" (16, 1993, per l'edi-tore Donzelli), dedicato alla Questione settentrionale. Lo scontro tra fautori e oppositori di un "federalismo" propu-gnato nel nome della differenza raz-ziale perseverò fino al 1906, ma l'es-senziale era stato detto da tempo, quando, nel 1898, Colajanni aveva pa-ragonato l'atteggiamento della "scuola antropologico-criminale" a quello dei colonizzatori europei. L'antropologia e la sociologia seguitavano a dare man forte a chi, "nell'interesse della ci-viltà" , si apprestava a ripetere in Europa la distruzione delle "razze in-feriori" già perpetrata "nell'Africa, nell'Asia, in America, nell'Australia". Pochi, allora, vedevano e comprende-vano, e sappiamo quale corso la storia avrebbe seguito. A un secolo di di-stanza, non sembrano in molti ad aver fatto tesoro di un'esperienza atroce.

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