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La storia della Olivetti rappresenta senza dubbio un unicum nel

panorama industriale e culturale italiano. Non è stata, infatti, una

delle tante realtà produttive sviluppatesi nel secondo dopoguerra

con il rilancio generale dell’economia europea dovuta al piano

Marshall americano, bensì uno dei più interessanti tentativi (almeno

sulla carta) di creazione di una società nuova e utopica, sebbene

chiusa nella “cerchia muraria” di Ivrea, la cittadina piemontese “capitale” del “regno” olivettiano.

Il prestigio della società, fondata nel 1908 da Camillo Olivetti come

prima fabbrica italiana di macchine da scrivere, è legato

indelebilmente alla figura del figlio Adriano, che ne eredita negli

anni ‘30 la direzione per cambiarne radicalmente il destino.

L’ “Ingegnere”, che in gioventù frequenta gli ambienti riformisti torinesi (collaborando anche con Piero Gobetti e Carlo Rosselli) è

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cerca di proporre un radicale rinnovamento sociale, sviluppando le

sue idee innovative sul campo dell’editoria, delle scienze sociali, dell’urbanistica e della politica. Mentre la Olivetti si espande in Italia e all’estero, divenendo col tempo anche una delle industrie di avanguardia a livello mondiale nel campo dell’elettronica (nascono

qui già nel 1964 i primi prototipi di Personal Computer), il “patron”

(cercando di edulcorare la dura realtà del mondo imprenditoriale,

come ben spiega la definizione di “capitalismo dal volto umano”, coniata per il suo caso) promuove al suo interno i valori dell’arte e

della cultura, della ricerca del profitto non come unico fine e della

dignità umana, fondata sulla tutela dei propri impiegati e operai.

Per poco meno di trent’anni, oltre a sviluppare e potenziare il suo impero industriale, Adriano Olivetti sarà costantemente proteso a

creare quel “nuovo umanesimo” che ha contraddistinto gli anni

della sua dirigenza, interrotta dalla prematura morte avvenuta nel

1960, all’apice del successo aziendale e politico. Il tentativo di concretizzare una “terza via” tra socialismo e capitalismo nel

rapporto tra classe lavoratrice e classe padronale viene infatti

perseguito con una concezione filosofica che affascina, e nel

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momento “territorio di caccia” esclusivo del Partito Comunista, gramscianamente e storicamente teso ad egemonizzarlo. Ai suoi

dipendenti l’Ingegnere offre condizioni di lavoro e stipendi ben al

di sopra dello standard delle realtà industriali coeve, la tutela e il

rispetto dell’uomo-lavoratore in opposto al fordismo mondiale ritenuto lesivo ed alienante per l’individuo, la riduzione delle ore di

lavoro e l’assistenza ai familiari, il tutto unito ad importanti servizi

culturali come la biblioteca aziendale, il cineforum, i corsi di pittura

etc. In questa importante opera sociale Olivetti non dimentica la

promozione dei propri prodotti, legandoli al nuovo concetto di

design industriale: al marchio di fabbrica unisce il mondo dell’arte

(visiva e letteraria), chiamando a sé numerosi scrittori, pittori,

architetti, economisti e alimentando su di sé la fama dell’illuminato

mecenate moderno.

Tra i tanti uomini di lettere, ingaggiati anche per i propri meriti

artistici, figura lo stesso Giudici, che nel 1956 viene chiamato a

Ivrea a occuparsi della biblioteca e della rivista aziendale

“Comunità” (trampolino di lancio per la carriera politica di Olivetti che lo farà approdare nel 1958 alla Camera dei deputati dopo essere

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sede di Milano al “Servizio Pubblicità” (reparto che l’Ingegnere

crea già nel 1931):

[...] Non si deve pensare che alla Olivetti un intellettuale fosse un soprammobile da salotto buono. L’“ingegner Adriano” (come si usava nominarlo ad Ivrea) era tutto l’opposto del mecenate paternalistico. Un intellettuale egli stesso, uno che aveva letto Bergson e Peguy, Mounier e Simone Weil, credeva fermamente in una funzione attiva degli intellettuali, nell’industria e, insieme, nel progetto sociale di una “comunità” di cui l’industria fosse momento propulsore: il Canavese, col suo territorio “a misura d’uomo”, rappresentava un laboratorio ideale. Il “catalogo” dei collaboratori di tipo un po’ speciale di cui quell’imprenditore di tipo molto speciale amò circondarsi rischia sicuramente di risultare incompleto: poeti come Leonardo Sinisgalli e Franco Fortini, scrittori come Ottieri e Soavi, Giancarlo Buzzi e Libero Bigiaretti, studiosi di teatro come Luciano Codignola e Ludovico Zorzi. Ognuno aveva una sua responsabilità aziendale. Geno Pampaloni? Grande critico, sì; ma, a Ivrea, carismatico capo dell’ufficio di Presidenza, al punto da autorizzare il “bon mot” che “Olivetti spa” volesse dire “se Pampaloni acconsente”48.

Oggi, a distanza di numerosi anni dall’assorbimento del gruppo ad

opera di Carlo De Benedetti prima e della Telecom poi, Olivetti è

ancora sinonimo di industria, stile e cultura, tanto da divenire un

modello per uno dei protagonisti più noti del capitalismo

contemporaneo, anch’egli da pochi anni prematuramente

scomparso: Steve Jobs (le somiglianze tra il re della Apple e la

48G.G, Ivrea, l’utopia dell’Ingegner Adriano, articolo del “Corriere della Sera” del 17 febbraio

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Olivetti sono evidenti, a cominciare dalla città di Cupertino, patria

di Jobs, dove fu aperta una filiale statunitense dell’azienda

piemontese). L’esperienza utopistica olivettiana si esaurisce nel giro

di due decenni ed è indubbio che la morte improvvisa del suo

presidente ne abbia rappresentato l’inizio della fine. Ma di certo

quanto seminato sul campo della cultura non è andato perduto: si

pensi alla fondazione che gestisce ancora oggi l’enorme biblioteca, composta di più di centomila volumi, per non parlare dell’influenza

esercitata a gran parte di una generazione di “intellighenzia”

italiana che non può esserne rimasta indifferente.

Per Giudici (e non solo) Olivetti è uno scalo decisivo per approdare

nel mondo letterario più importante del suo tempo. Inoltre il suo

lavoro gli permette di viaggiare con frequenza all’estero e di entrare

in contatto con i principali scrittori italiani ed internazionali del

periodo, inserendosi nel dibattito culturale dell’epoca, quello del rapporto tra industria e letteratura. Nonostante ciò, la sua profonda

cattolicità lo porterà a mal sopportare l’aura laicizzante

dell’ambiente olivettiano: ciò causerà una certa contradditoria insofferenza di fondo, che sarà tra i motivi fondanti di un’opera

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CAPITOLO 5

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