la quota del socio receduto, si traduceva in un indebolimento sul piano
patrimoniale della società e, quindi, in una riduzione dell’unica garanzia offerta ai
creditori sociali
303; la riforma del 2003 ha inciso notevolmente sulla materia, da
un lato ampliando le ipotesi di recesso e prevedendo la liquidazione delle azioni
del socio recedente al valore di mercato, e, dall’altro lato, tutelando l’integrità del
capitale sociale. Questa innovazione deve essere letta nell’ottica di un
rafforzamento dei poteri della maggioranza, che in questo contesto si esprime nel
concepire il recesso come il prezzo che i soci di maggioranza devono pagare per
potersi liberare dei soci di minoranza (dissenzienti)
304. Per ciò che qui interessa,
una volta esercitato il recesso
305, quale atto unilaterale recettizio
306, sorge in capo
303 Per un approfondimento della disciplina vigente prima della riforma vedi NOBILI-
SPOLIDORO,La riduzione di capitale, op. cit., p. 432 ss.
304 Così BARTALENA, L’adeguamento dell’atto costitutivo della s.r.l., in Soc., 2004, p. 665 s., che,
in considerazione del fatto che i soci di maggioranza, in sede di adeguamento dell’atto costitutivo alle nuove prescrizioni riformatorie, avrebbero potuto stravolgere l’impostazione originaria dello stesso, senza sottostare al consenso degli altri soci, parla addirittura della possibilità di ravvisare nella «nuova» s.r.l. un «cambiamento del tipo» con conseguente riconoscimento al socio dissenziente del diritto di recesso, quale strumento di tutela a fronte di mutamenti degli equilibri interni alla società; BUSI, Riduzione del capitale nelle s.p.a. e s.r.l.,
op. cit., p. 653; CALANDRA BUONARA, Il recesso del socio di società di capitali, in G. comm., 2005,
p. 292;GINEVRA, La partecipazione azionaria, in Diritto commerciale, a cura di Cian, Torino,
2017, p. 301, che, più latamente, definisce il recesso come strumento di disinvestimento destinato a operare in corrispondenza della decisione di modificare l’originaria struttura organizzativa; a questo risultato raggiunto dalla riforma, la dottrina tende a far prevalere quello speculare della tutela dei soci di minoranza, intesa da taluni (CAMPOBASSO,Diritto commerciale 2., op. cit., p. 497;) nel senso che il recesso consente alla minoranza di uscire e
ciò senza penalizzazioni patrimoniali del proprio investimento, da altri (STELLA RICHETR JR, Diritto di recesso e autonomia statutaria, in Riv. dir. comm., 2004, p. 403 ss.) nel senso di
attribuire ai soci di minoranza uno strumento di pressione che, tramite l’imposizione di un costo alla società, risulta funzionale a condizionare le scelte organizzative della maggioranza. A ciò si aggiunge l’osservazione con cui si percepisce il recesso come la strada per la soluzione di liti tra i soci, potendo costituire l’esito di un componimento bonario di dissapori tra i soci (LANZIO, Il recesso del socio in S.r.l., in Soc., 2004, p. 150; ANNUNZIATA, Commento all’art. 2473, in La società a responsabilità limitata, a cura di Bianchi, Artt. 2462 – 2483 c.c., in Commentario alla riforma delle società, diretto da Marchetti, Bianchi, Ghezzi, Notari, Milano,
2008, p. 457). Non manca, poi, chi evidenzia gli effetti potenzialmente disgreganti del recesso stesso (vedi BIANCHI, Srl e recesso, le relazioni pericolose, in Italia oggi, 27.2.2004).
305 Per le s.p.a. l’art. 2437 bis, I comma, c.c. stabilisce le modalità con cui il recesso debba
essere esercitato, e, in proposito, prevede che «il diritto di recesso è esercitato mediante lettera raccomandata che deve essere spedita entro quindici giorni dall’iscrizione nel registro delle imprese della delibera che lo legittima… (o), se il fatto che legittima il recesso è diverso da una deliberazione, esso è esercitato entro trenta giorni dalla sua conoscenza da parte del socio». Per le s.r.l., invece, non sono espressamente disciplinati termini e modalità
al socio un diritto, che si articola, nelle s.p.a., come diritto alla liquidazione delle
azioni per le quali esercita il recesso (ai sensi dell’art. 2437 ter per le s.p.a.)
307,
di esercizio del recesso , che si ritiene debbano essere stabiliti nell’atto costitutivo: Comitato Triveneto dei Notai, massima I.H.2, Applicazione analogica dei termini per l’esercizio del
recesso prevista dall’art. 2437 bis c.c.: «In mancanza di una previsione dell’atto costitutivo
disciplinante i termini di esercizio del recesso nei casi previsti dal I comma dell’art. 2473 c.c. è applicabile per analogia la disciplina dettata dal I comma dell’art. 2437 bis c.c.».
306 Il fatto che il recesso si configuri come atto unilaterale recettizio è argomento spendibile a
sostegno della tesi dell’efficacia immediata della dichiarazione, la quale è sottoposta alla condizione risolutiva della revoca della deliberazione (in questo senso PERRINO, Il recesso del socio e il suo “momento”, in Riv. dir. comm., 2014, p. 235 ss.; CORSI, Il momento di operatività del recesso nelle società per azioni, in G. Comm., 2005, p. 317; Cass. 19.3.2004, n. 5548, in Soc.,
2004, p. 1364 ss.; Comitato Triveneto dei Notaio, massima I.H.5, Termini di efficacia del
recesso: «La dichiarazione di recesso ha natura di atto unilaterale recettizio, risolutivamente
condizionato ex lege alla revoca della delibera legittimante il recesso o alla messa in liquidazione volontaria della società, pertanto produce effetti dalla data del suo ricevimento. Da tale data i diritti connessi alla partecipazione per la quale è stato esercitato il recesso sono sospesi, conservando il socio recedente esclusivamente la titolarità formale della partecipazione finalizzata alla liquidazione della stessa»). Contra, nel senso di ritenere che il recesso sia sospensivamente condizionato al rimborso, vedi CAMPOBASSO, Diritto commerciale 2, op. cit., p. 500; DI SABATO, Diritto delle società, op. cit. p. 250.
307 Prima della riforma di diritto societario il valore di rimborso era stabilito ex art. 2347
previgente «in proporzione del patrimonio sociale risultante dal bilancio dell’ultimo esercizio», con notevole pregiudizio per il recedente, visto che il valore di bilancio è prudenziale (non considera, infatti, l’avviamento) e spesso è precedente di qualche mese. Con l’innovazione legislativa del 2003, quanto alle s.p.a., si prevede, invece, che il valore di liquidazione delle azioni, determinato dagli amministratori, sentito il parere del collegio sindacale e del soggetto incaricato della revisione legale dei conti, debba tener conto della consistenza patrimoniale della società e delle sue prospettive reddituali, nonché dell’eventuale valore di mercato delle azioni. Per limitare la discrezionalità degli amministratori nella selezione delle entità significative ai fini del calcolo delle prospettive reddituali, ovvero per agevolarli (DI CATALDO, Il recesso del socio di società per azioni, in Nuovo diritto delle società, Liber amicorum G.F. Campobasso, diretto da Abbadessa-Portale, 3, Torino,
2007, p. 236 ss.) l’art. 2437 ter, co. 4, c.c., prevede che possano statutariamente indicarsi «gli elementi dell’attivo o del passivo che possono essere rettificati rispetto ai valori risultanti dal bilancio, unitamente ai criteri di rettifica, nonché altri elementi suscettibili di valutazione patrimoniale da tenere in considerazione». Quanto alle modalità mediante le quali lo statuto potrebbe specificare e dettagliare i criteri legali, si sono formati tre diversi orientamenti: IOVENNITTI, Il nuovo diritto di recesso: aspetti valutativi, in Riv. soc., 2005, p. 474 ss., sostiene
che si possano inserire solo specificazioni riferite alla valutazione dell’elemento patrimoniale; per VENTUROZZO,I criteri di valutazione delle azioni in caso di recesso, in Riv. soc.,
2005, p. 408 ss., come pure per PASQUARIELLO,Liquidazione della quota al socio recedente: criteri di valutazione di mercato e proporzionali, in BBTC, 2017, II, p. 742 (seppur con
riferimento alle sole cause derogabili o convenzionali di recesso), la norma autorizzerebbe il ricorso a criteri diversi da quelli legali, mentre, più correttamente, FRIGENI, Partecipazione in società di capitali e diritto al disinvestimento, Milano, 2009, p. 203 ss., rileva che all’autonomia
statutaria si consente di dettagliare le modalità applicative con le quali tener conto delle prospettive reddituali, ovvero specificare quale delle possibili varianti del metodo “misto“ patrimoniale-reddituale debba essere utilizzata, ma non fare ricorso a nuovi metodi di valutazione.