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Alfredo Viggiano

3. La regle des regles

Montaigne si mostra molto critico nei confronti di un approccio alle «choses pu- bliques» che sia orientato alla ricerca della «parfaite forme de police» (III, 8, 933). È in un passo di “Della vanità” che le ragioni di questa critica sono esposte con maggiore nettezza: «E certo tutte quelle descrizioni di governi, immaginate per arte, risultano ridicole e inadatte a mettersi in pratica. Quelle grandi e lunghe discussioni (alterca- tions) sulla miglior forma di società e sulle regole più utili per tenerci uniti, sono di- scussioni convenienti soltanto all’esercizio del nostro spirito: come si trovano nelle arti molti argomenti la cui essenza sta nel dibattito e nella disputa, e non hanno alcuna vita fuori di lì. Tale descrizione di governo (peinture de police) sarebbe valida in un mondo nuovo, ma noi prendiamo gli uomini già legati e abituati a certi costumi; non li generiamo, come Pirra o come Cadmo. Qualsiasi potere abbiamo di rieducarli e as- soggettarli di nuovo, non possiamo distorcerli dalla loro piega abituale (leur ply ac- coustumé) senza rompere tutto» (III, 9, 1273). La ricerca del miglior regime non co- stituisce il quadro più appropriato per determinare il giudizio e l’azione politica23.

Associata ai “discours politiques”24, essa è sostenuta da un’ambizione giudicata

inadeguata: «semble la visée injuste, à laquelle on ne peut atteindre» (III, 9, 990). È

23 III, 9, 957. La risonanza machiavelliana è del tutto evidente qui. Si tratta del celeberrimo inizio del capi- tolo XV del Principe: «E molti si sono immaginati repubbliche e principati, che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero, perché elli è tanto discosto da come si vive a come si doverrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si doverrebbe fare, impara più presto la ruina che la preservazione sua» (N. MACHIAVELLI, Il Principe, a cura di C. Martelli, Edizione nazionale delle Opere, Sez. I, vol. I,

Roma, Salerno editrice, 2006, pp. 215-216).

24 «Les discours de Machiavel, pour exemple, estoient assez solides pour le subject, si y a-il eu grand aisance à les combattre ; et ceux qui l’ont faict, n’ont pas laissé moins de facilité à combatre les leurs. Il s’y trouveroit tousjours, à un tel argument, dequoy y fournir responses, dupliques, repliques, tripliques, quadrupliques, et cette infinie contexture de debats que nostre chicane a alongé tant qu’elle a peu en faveur des procez. […] J’en pense de mesmes de ces discours politiques : à quelque rolle qu'on vous mette, vous avez aussi beau jeu que vostre compagnon, pourveu que vous ne venez à choquer les principes trop grossiers et appa- rens. Et pourtant, selon mon humeur, és affaires publiques, il n’est aucun si mauvais train, pourveu qu’il aye de l’aage et de la constance, qui ne vaille mieux que le changement et le remuement» (II, 17, 655; 875, corsivi nostri).

evidente che il principale difetto di questo tipo di approccio consiste nel postulare l’esistenza di individui e di comunità privi di qualunque ply accoutumé. Del resto, questo difetto è giudicato a tal punto fonte di equivoci e di inganni, che Montaigne arriva ad affermare che «l’excellente et meilleure police est à chacune nation celle soubs laquelle elle s’est maintenue» (ibidem). Per comprendere quale sia la natura e la portata del cambiamento di prospettiva riguardo al politico che qui si esprime, esa- mineremo il trattamento che Montaigne riserva alla questione della consuetudine, in particolare nel capitolo 23 del libro I.

La critica della consuetudine attraversa tutta la prima parte di questo capitolo. I motivi della critica sono molteplici. Insieme di norme che includono gli usi, le cre- denze e la legge positiva, la coutume è all’inizio presentata come «una maestra di scuola prepotente e traditrice» che «ci mette addosso a poco a poco, senza parere, il piede della sua autorità» (I, 23, 140). Mostrando un volto «furioso e tirannico», essa soffoca anche le più piccole aspirazioni di libertà. Il seguito del saggio preciserà questa immagine: la consuetudine appare successivamente come potenza di mistificazione capace di generare «i veri semi e le vere radici della crudeltà, della tirannia e del tra- dimento» (I, 23, 110). L’impero della consuetudine appare tanto più sproporzionato quanto più dà credito a una diversità inaudita di opinioni, di osservazioni e di «choses receues», i cui fondamenti ultimi sono i più fragili, non avendo altro sostegno «che la barba bianca e le rughe dell’uso» (I, 23, 116-117). Dapprima in preda a una vertigine insostenibile, chiunque cerchi di sottrarsi a «ce violent prejudice de la coustume» (I, 23, 117) vedrà i diritti della libertà e della verità alla fine riconosciuti. Eppure, la fidu- cia con cui Montaigne si impegna all’inizio del capitolo a smascherare gli eccessi della

coutume sfuma rapidamente. Dopo aver denunciato con forza gli eccessi ai quali «la regina e imperatrice del mondo» ha dato credito, inizia ben presto a sottolineare il dovere che incombe su «un uomo di senno dal seguire lo stole comune» (154), facendo osservare che «è regola delle regole e legge generale delle leggi (la regle des reigles, et generale loy des loix), che ognuno osservi quelle dl luogo in cui si trova» (I, 23, 154). Montaigne precisa come questa regola, tuttavia, non riguardi che il foro esterno e come «il saggio debba nell’intimo separar la sua anima dalla folla e mantenerla libera

e capace di giudicare liberamente le cose; ma quanto all’esteriore, debba seguire inte- ramente i modi e le forme acquisite (les façons et formes receues)» (I, 23, 154). Prima di interrogare le implicazioni di questo invito all’obbedienza, conviene intanto pren- dere in esame il motivo che giustifica questo cambiamento repentino di trattamento riservato da Montaigne alla coutume in questo capitolo.

Nel seguito del testo, Montaigne mostra il radicale scetticismo che suscita in lui la volontà di modificare le leggi stabilite: da una parte fa notare che allo stesso modo che per un «bastiment», il cambiamento apportato a una delle sue parti è suscettibile di distruggere la «police» nel suo insieme (I, 23, 119); dall’altra considera che il fatto di intraprendere queste «mutations d’estat» è indissociabile da un’attitudine, da una po- stura etica, per così dire, che comporta «grande amore di sé e presunzione» (I, 23, 156). Questi due ordini di ragioni concorrono a sostenere un rifiuto categorico dell’in- novazione: «La novità mi disgusta, sotto qualsiasi aspetto si presenti, e ho ragione, perché ne ho veduti effetti molto dannosi» (I, 23, 155), scrive Montaigne. I destinatari

di questo discorso, coloro controi quali sta parlando qui, per attenerci a una delle questioni che sono poste da Merio25, sono evidentemente i riformati, coloro che vo-

gliono introdurre «nouvelletés» nello Stato in ragione del loro credo religioso. Infatti, dopo avere sottolineato che il più evidente carattere «di un’estrema giustizia e utilità» della «religione cristiana» consiste nel raccomandare «di obbedire al magistrato» e nel mantenere le forme di governo (I, 23, 157), Montaigne s’impegna a svolgere l’ar- gomento secondo il quale la ricerca della «novità» sarebbe comunque viziata dalla «presunzione». Colui che «si impaccia di scegliere e di cambiare», afferma, «si arroga l’autorità di giudicare» (I, 23, 158). Il seguito del testo suggerisce che questa «usurpa- tion» risulta da una confusione delle regole e delle sfere di esercizio della jurisdictio, a causa della quale una «raison privée» arriva ad imporsi al di fuori della sua «juri- sdiction»: e allora è «quanto mai iniquo voler sottoporre le costituzioni e le regole

25 Si veda la limpida sintesi del pensiero teologico-politico dei calvinisti tracciata in Teologia politica da Merio Scattola (M.SCATTOLA, Teologia politica, Bologna, Il Mulino, 2007, p. 93-96). Sul punto in Mon-

taigne, si veda P.MATHIAS, Sans Dieu ni maître: le «fidéisme» de Montaigne, in P.DESAN (ed), Dieu à

pubbliche e immobili all’instabilità di una fantasia personale (privée fantaisie) (la ra- gione personale ha solo una giurisdizione personale)» (ivi). In un senso analogo Mon- taigne scrive in “Della vanità” che «de conclure par la suffisance d’une vie particuliere quelque suffisance à l’usage public, c’est mal conclud» (III, 9, 992). È la consapevo- lezza di questo arbitrio che porta Montaigne ad affermare che «anche il miglior pre- testo per un’innovazione è molto dannoso» (I, 23, 156). L’innovazione si presenta qui come una potenza normativa («questo tuttavia si fa per riformare le nostre coscienze e le nostre opinioni») che minaccia di imporre al corpo politico una direzione orien- tata dalla «passione particolare», piuttosto che dalla «cause en commun» e «l’interest de tous et de l’estat» (III, 10, 1012). Se la critica della coutume deve essere sottratta alla sfera pubblica è perché, dunque, essa può accreditare un impiego ingiusto della «raison privée» e delle regole che la determinano. Il capitolo 23 del libro I permette, in definitiva, di identificare due patologie politiche complementari dalle quali bisogna guardarsi: da un lato l’eccesso di una consuetudine che accredita tanto l’assoggetta- mento dello spirito quanto l’intolleranza e la servitù; e dall’altro la “nouvelleté” che suscita la presunzione di fare tabula rasa dell’ordine della coutume e di imporre una serie di regole comuni dettate da una «privée fantaisie». In entrambi i casi, ciò che ne risulta è una indeterminazione delle ragioni e delle “giurisdizioni” che porta alla ti- rannia, cioè al male peggiore. Alla fine del capitolo, Montaigne riconosce tuttavia che di fronte a circostanze nelle quali la corruzione delle istituzioni era talmente estesa che rispettare le leggi non avrebbe che peggiorato la situazione, per evitare il peggio è stato necessario «non soltanto comandare secondo le leggi, ma alle leggi stesse, quando la necessità pubblica lo richiedeva», come testimonia Plutarco (I, 23, 161).

In via di principio, il rifiuto dell’innovazione non implica che la consuetudine debba essere posta al riparo dalla critica e che ogni volontà di trasformazione sia re- spinta a priori. Ma, evidentemente, il contesto delle guerre civili non autorizza questa via: «L’innovation est de grand lustre, mais elle est interdite en ce temps» (III, 9, 1023). Nemici mortali, ugonotti e cattolici radicali riuniti nella Ligue sembrano in- contrarsi, come dice Merio nel libro sulla teologia politica, in «una struttura ideale simile», in una comune volontà di imporre alla società un orientamento ispirato dalla

legge di Dio26. Ora, per Montaigne, ogni tentativo volto a basare l’autorità delle leggi

su un fondamento che trasgredisca il principio dell’impenetrabilità della legge divina e naturale, è il segno di una «presunzione» suscettibile di avvalorare l’uso arbitrario di una «raison privée». In questo senso, non è tanto l’innovazione in quanto tale che è oggetto della critica di Montaigne, il «contro chi?» essa è rivolta, quanto un certo tipo di innovazione che si richiama ad una verità ritenuta incommensurabilmente su- periore alle verità istituite e accreditate dalla consuetudine. Se essa deve essere atte- nuata nella sua forma per evitare che l’agente del cambiamento si serva dell’inconsi- stenza di ciò che combatte per arrogarsi il diritto di giudicare di ciò che è comune, la critica della coutume resta tuttavia necessaria. Certo, la possibilità stessa di smarcarsi da ciò che è inaccettabile, e in particolare dalla tirannia e dalla crudeltà, presuppone il diritto alla critica. Ma per premunirsi contro i suoi propri eccessi, la critica deve abbandonare ogni pretesa che miri ad adottare e imporre un punto di vista esteriore

alla consuetudine e al suo carattere pragmatico. È di questo scoglio che gli autori dei “discours” che trattano della politica sono per lo più ignari.

Presupponendo un grado zero di accoutumance, essi perdono di vista un dato es- senziale della formazione delle regole della vita individuale e collettiva, essendo la consuetudine il solo elemento di legame e di comunicazione adeguato a una pluralità irriducibile di esseri imperfetti. Più ancora, collocandosi in una posizione a stra- piombo in rapporto all’ordine della consuetudine, gli autori politici sottovalutano an- che la presa che quella esercita su di essi. Sempre nel capitolo 23 del libro I, Mon- taigne offre un prezioso avvertimento al suo lettore, a colui cioè che desidera rendere partecipe della sua conversation, del suo discorrere: «il principale effetto della sua [della coutume] potenza è che essa ci afferra e ci stringe in modo che a malapena possiamo riaverci dalla sua stretta e rientrare in noi stessi per discorrere e ragionare sui suoi comandi (pour discourir et raisonner de ses ordonnances)» (I, 23, 150). Allo stesso modo della fortuna (I, 47, 286), la consuetudine esercita un’influenza surretti- zia sul nostro pensiero, sul nostro discourir et raisonner. Nella loro pretesa di sottrarsi

alle sue ordonnances per mezzo di una determinazione unilaterale della volontà, gli autori delle altercations politiche non vedono neppure le sottili risorse, che sono an- che del linguaggio, per mezzo delle quali la consuetudine è in grado di asservirli a sé. Così Montaigne si chiede per chi essi fanno quei discorsi: «E poi, per chi scrivete? I dotti ai quali spetta la giurisdizione sui libri (Les sçavans à qui touche la jurisdiction livresque) non conoscono altro pregio che la dottrina (autre prixque de la doctrine), e non approvano altro modo di procedere nei nostri spiriti se non quello dell’erudi- zione e dell’arte» (II, 17, 877). La polemica di Montaigne è rivolta contro l’eloquenza

deliberativa, o politica, del suo tempo. Essa è molto forte ed è indirizzata soprattutto

contro i magistrati, e cioè proprio coloro «che appartengono allo stesso ceto o al me- desimo segmento cetuale» al quale egli stesso appartiene, e cioè come dice Merio: «interlocutori del medesimo discorso»27. I Saggi cercano, allora, di mettere in campo

un discorso diverso, un posizionamento per così dire, e un modo di dire le «choses publiques» che si smarchi dalla rinuncia di fronte agli eccessi della consuetudine e dalla tentazione di opporvisi frontalmente appoggiandosi a una «ragione privata», alla «jurisdiction livresque» in cui si svolge l’«infinie contexture de debats» di quelle retoriche politiche dalle quali il vulgaire è «guidato e condotto».

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