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Il narratore, dopo aver indugiato sui festeggiamenti per la guarigione del mastino avvenuti presso la corte di Re Noble, focalizza nuovamente l’attenzione su Renart, messo in fuga dall’arrivo del seguito reale. La volpe interrompe la sua corsa alle radici di un olmo particolarmente frondoso, tra i cui rami spera di scorgere qualcosa di appetitoso: dopo una rapida occhiata, intravede un nido contenente quattro escoufliax ben pasciuti, destinati a saziarla.

Il dato numerico preciso rinvia inevitabilmente alla branche VII, nella quale Renart confessa al nibbio Hubert di aver divorato i suoi quattro figli (br. VII, vv. 799-809); tuttavia non si può intravedere in uno dei volatili protagonisti dell’episodio 1.5 la figura del nibbio Hubert, personaggio che compare solo nella seconda sezione della branche XI, tra le fila dell’esercito reale, al fianco del grillo Frobert, e definito unicamente dal sentimento di odio nei confronti di Renart:

O lui estoit li quens Frobert et li escoufle dant Hubert qui heent Renart durement; vers lui viengnent ireement.

(vv. 3231-34)

Nella branche VII, il nibbio Hubert è delineato come un personaggio «naïf, berné par le faux-semblants du goupil»:214 il confessore, credendo ingenuamente a Renart, che lo invita a sigillare la riconciliazione attraverso un bacio della pace, finisce sbranato. Al contrario, nell’episodio 1.5 il nibbio viene scelto in quanto uccello rapace: i due volatili affrontano Renart in uno scontro violento, e lo feriscono con gli artigli, il becco e le ali, fino a ridurlo in fin di vita (vv. 575-620).

L’episodio Renart e i nibbi presenta delle differenze sostanziali rispetto alle altre avventure del ciclo, al punto che la volpe protagonista dell’avventura mostra di avere in

214 La citazione è contenuta in un articolo di Van den Abeele, in cui lo studioso prova a delineare,

attraverso la lettura dei bestiari e delle enciclopedie, quale fosse l’immagine culturale del nibbio nel Medioevo, e in che modo essa venisse rielaborata all’interno del Roman de Renart. Van den Abeele 1988, p. 13.

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comune con la volpe Renart solo il nome proprio. La volpe e i nibbi, di cui parla questo racconto, non risultano configurabili come esseri antropomorfi, ma appartengono, a buon diritto, alla categoria di veri animali, secondo la definizione di Suomela-Härmä, la quale suddivide i personaggi dell’universo renardiano nelle tre categorie di veri umani,

veri animali ed esseri antropomorfi.215 Il secondo gruppo comprende la generica schiera

degli animali da cortile, in prevalenza polli, catturati da Renart, le bestie da soma di proprietà dei contadini o dei monaci, le mute di cani che immancabilmente inseguono i predatori: si tratta di animali domestici al servizio dell’uomo, e la loro subalternità emerge anche sul piano letterario, dal momento che essi non sono dotati di individualità, né tantomeno delle proprietà verbali, contrariamente a quanto accade per i protagonisti del ciclo, per la maggior parte animali selvatici e predatori. I nibbi rientrano nella categoria degli animali di secondo grado,216 e come questi non sono dotati né di un nome né di una personalità.

Un fatto ancor più singolare, per il contesto renardiano, è l’assenza di dialogo tra i personaggi animali: quando Renart è sul punto di implorare pietà, quindi di verbalizzare un sentimento, la voce narrante aggira il problema affermando che la volpe non era in grado di proferire parola: ainz Renart tant crïer ne sot, / merci ne querre ne rover (vv. 612-613). Inoltre, sia la volpe che i nibbi non sembrano mossi da emozioni assimilabili alla sfera affettiva umana: l’attacco a Renart, per esempio, è frutto di una reazione istintiva a un danno provocato, non c’è traccia di nulla di paragonabile alle capacità autoriflessive ed emotive che hanno consentito a Droin di elaborare e attuare la vendetta contro la volpe; manca anche l’espressione del dolore per la perdita dei cuccioli, che invece dimostrano Droin e Hubert, nella branche VII, dopo che Renart confessa di aver fatto strage dei loro nidi. D’altro canto, lo stesso Renart si delinea come un animale tout

court, dal momento che non ricorre alla proprietà distintiva del suo personaggio, la ruse,

ma come un qualsivoglia predatore, spinto unicamente dalla fame, agguanta la preda grazie alla forza bruta; in un solo punto, il narratore riporta, attraverso il discorso indiretto libero, i pensieri del protagonista, che decide di nutrirsi con i quattro nibbi contenuti nel nido:

215 Suomela-Härmä 1981, p. 166.

216 Bonafin utilizza questa definizione per indicare «gli animali più animali degli altri». Bonafin 2006a, p.

136 Renart jure l’ame son pere qu’il est venuz a droite voie se l’escoufle ne le desvoie, mes il s’en voudra bien vengier, s’i li mainne point de dangier.

(vv. 560-64) ma non si rintraccia alcuna premeditazione di un piano.

La natura bestiale del protagonista è esasperata al punto che, per raggiungere il nido dei nibbi, si arrampica sull’albero, dunque non solo si perdono le peculiarità che contraddistinguono Renart dalle altre volpi, ma l’assunzione di comportamenti biologici estranei a quelli tipicamente volpini portano il protagonista dell’episodio a confondersi con qualunque altro animale carnivoro.217

Infine, come nel caso di Renart e le more, la distanza rispetto agli altri episodi è resa ancor più evidente dall’assenza delle espressioni formulari tipiche del ciclo, che invece caratterizzano le avventure nelle quali figurano dei personaggi noti o ricorrono delle situazioni topiche.

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