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Per tutti i pazienti che sono risultati resistenti al trattamento con gli inibitori TK, ma non hanno mutazioni evidenti su BCR-ABL, numerosi studi hanno mostrato che i pathway disposti a valle di BCR-ABL possono compensare la perdita dell’attività del recettore chinasico di fusione e possono essere responsabili della resistenza acquisita alla terapia. Il principale razionale alla base di questa ipotesi deriva da uno studio precoce che ha osservato la presenza di una popolazione di cellule staminali progenitori di CD34+ resistenti ad IM nel sangue dei pazienti [121]. Le cellule staminali

CD34+ di CML sono differenti dalle normali staminali nel loro profilo molecolare e trascrittomico

[122], ed il trattamento con IM non è in grado di eliminare totalmente questo ceppo di cellule, così come falliscono anche gli inibitori di 2° generazione [123].

3.3.1 KIT e HIF1A

Il proto-oncogene KIT (noto anche come SCFR, CD117 o c-KIT) codifica per un recettore di citochine di superficie delle cellule staminali ematopoietiche, che viene attivato in diversi tipi di cancro e regola la proliferazione cellulare, il differenziamento e la migrazione. Le cellule di CML Ph+ hanno elevata espressione di KIT ed è stato dimostrato che IM e nilotinib legano e bloccano direttamente l’attività di KIT, ma l’efficienza d’inibizione delle cellule di CML CD34+ con KIT

elevato può variare notevolmente da un farmaco all’altro [124]. Inoltre, il completo arresto di KIT sembra essere necessario per indurre l’apoptosi nelle cellule CD34+ dopo l’inibizione di BCR-

ABL. Questi risultati fanno ipotizzare che l’attivazione di KIT possa influenza la risposta terapeutica agli inibitori TK, ma gli studi sulla CML e KIT sono al momento ancora agli albori e necessitano di ulteriori approfondimenti [60]. Uno dei target attivati da KIT, il fattore 1α inducibile con l’ipossia (HIF1A), è un fattore di trascrizione che regola la risposta all’ipossia. La sua sovraespressione è associata con differenti tipologie tumorali, con influenza su metabolismo cellulare, sopravvivenza ed invasione. In assenza di mutazioni su BCR-ABL, le cellule di CML Ph+ resistenti ad IM hanno mostrato un’alta espressione di HIF1A, suggerendo l’ipotesi che l’attività di HIF1A possa sostenere i progenitori delle cellule leucemiche e permetterne la sopravvivenza all’interno del microambiente ipossico del midollo osseo [125].

3.3.2 PATHWAY DI SEGNALAZIONE A VALLE

Molti studi focalizzatisi sui meccanismi dell’oncogenesi della CML sono concordi nell’affermare che i pathway di segnalazione PI3K/AKT/mTOR, p38/MAPK e STAT5, a valle di BCR-ABL, sono attivati [60]. Questi studi hanno dimostrato che i pathway non solo mediano l’effetto dell’attivazione di BCR-ABL, ma la loro inibizione è necessaria per controllare la crescita e la proliferazione delle cellule di CML. Lo studio condotto da Jilani e colleghi ha mostrato che i pazienti resistenti hanno livelli significativamente più bassi di BCR-ABL, di CRKL (proto-

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oncogene CRK-simile) e i livelli di fosforilazione di AKT [126], suggerendo la presenza di vie di trasduzione alternative che possono attivarsi nei paziente refrattari alla terapia, indipendenti dall’attivazione del recettore ibrido. Studi in vitro hanno inoltre dimostrato che, in pazienti resistenti agli inibitori TK, è possibile lo sviluppo di mutazioni che attivino costitutivamente il pathway PI3K/AKT, e la co-inibizione dei segnali di PI3K/AKT e di MAPK comporta un’eliminazione significativamente amplificata dei progenitori delle cellule CD34+ [127].

Recentemente è stato dimostrato che i livelli di espressione di STAT5 sono aumentati nei pazienti trattati con IM, perciò, la selezione di cloni cellulari che esprimono eccessivamente STAT5 potrebbe essere un meccanismo di resistenza acquisita nei pazienti Ph+ che inizialmente rispondevano al trattamento con gli inibitori [128]. Altri studi recenti hanno riportato che l’inibizione del segnale Jak/STAT, sia mediante l’impiego di inibitori di JAK, sia attraverso il blocco di STAT5A e STAT5B, incrementa significativamente la responsività ad IM nelle cellule CML Ph+ e alla chemioterapia nelle cellule resistenti.

Il trattamento della CML ha subito un notevole passo in avanti in seguito all’introduzione degli inibitori TK, ma, nonostante questo, la resistenza e le ricadute inficiano parte degli ottimi risultati ottenuti. Numerosi varianti germinali possono influenzare l’efficacia della terapia target nei pazienti con CML, sia quelle presenti sui geni coinvolti nel metabolismo e nel trasporto dei farmaci, sia quelle presenti sul gene bersaglio. Inoltre, è possibile si attivino pathway di segnalazione compensatori a valle di BCR-ABL che influenzano il successo terapeutico. Ai pazienti con CML, nella routine diagnostica, non viene eseguito il profiling per varianti genetiche per predire l’efficacia del trattamento, soprattutto perché la maggioranza dei risultati riportati fa riferimento a studi clinici condotti su piccola scala. Perciò, per ottenere dei biomarcatori clinici affidabili, è richiesta una validazione in studi realizzati su larga scala, e i pazienti che ricevono come trattamento gli inibitori TK dovrebbero essere monitorati nel lungo tempo in modo da osservare, e comprendere, come varia il loro genoma tumorale in risposta alla terapia.

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FARMACOGENETICA, FARMACOGENOMICA ED

EPIGENETICA

Le strategie antitumorali si sono evolute molto nel corso delle ultime decadi per soddisfare le nuove tecnologie e le più recenti opzioni terapeutiche che sono state sviluppate in risposta all’ampia variabilità ed eterogeneità degli outcome dei pazienti presentanti caratteristiche clinico- patologiche simili [129]. In molti casi, pazienti trattati con lo stesso regime terapeutico ottengono significative differenze nella risposta al farmaco e nella sopravvivenza, perciò, le strategie tradizionali che si basano solo sui fattori clinico-istopatologici della patologia o su quelli ambientali quali sesso ed età, non sono poi efficaci per tutti i malati [130]. Con l’evoluzione delle tecnologie in grado di analizzare l’intero genoma e la possibilità di svolgere high-throughput

screening genetici, è stato ampiamente dimostrato che il make-up genetico dell’individuo

influenza la risposta ai farmaci. Questo nuovo interesse ha come conseguenza un notevole incremento di studi focalizzati sul ruolo della farmacogenetica e della farmacogenomica nel trattamento dei tumori [131,132]. La farmacogenomica è una scienza che sta rapidamente prendendo piede e che studia come l’interazione della genetica dell’individuo con la farmacologia molecolare determini il contributo delle variazioni genetiche inter-individuali sull’esito clinico e la risposta ad un trattamento farmacologico [133]. Utilizzando il profilo genomico di un paziente per chiarire le determinanti rilevanti per il processo ADMET (assorbimento, distribuzione, metabolismo, escrezione, tossicologia) del farmaco o per la risposta alla terapia, potrebbe essere possibile sviluppare trattamenti più sicuri e più efficaci [134]. L’idea alla base è che la scelta del farmaco possa essere eseguita bilanciando la probabilità di cura contro la possibile insorgenza di effetti avversi, basandosi sulle caratteristiche genetiche individuali. I profili genomici dei pazienti possono inoltre suggerire quali siano le terapie di scarso effetto, ma associate ad un alto rischio di sviluppare effetti avversi in quel particolare sottogruppo di pazienti [135]. Con il rapido sviluppo di nuove tecnologie nel campo del profiling genomico, è possibile esaminare efficacemente le varianti presenti nell’intero genoma, mediante studi di associazione genome wide (GWAS), testando e analizzando qualche milione di marcatori genetici per ogni paziente, al fine di determinare le associazioni fra queste varianti e un particolare fenotipo di interesse [136]. Gli studi GWAS sono indagini sistematiche e potenziate che esaminano le relazioni fra le variazioni comuni nelle sequenze genomiche e la predisposizione alle diverse patologie a livello dell’intero genoma. La capacità di realizzare questa tipologia di studi ha avuto come risultato quello di comprendere le basi genetiche dei comuni fenotipi di importanza biomedica, come diabete, asma e alcune tipologie di tumori [136]. La farmacogenetica può essere, quindi, definita come lo studio dei fattori

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genetici che possono influenzare la risposta ad un trattamento in un paziente, infatti, essa consiste nell’analisi delle basi genetiche delle differenze nella risposta al farmaco. In particolare, si occupa delle variazioni nella sequenza nucleotidica in uno o più specifici geni, mentre la farmacogenomica prende in considerazione l’intero genoma e le sue eventuali associazioni con i diversi fenotipi farmacologici. Grazie allo sviluppo di una tecnologia genomica, è stato possibile elaborare un approccio genetico da genotipo a fenotipo, analizzando i polimorfismi genetici, considerati il punto di partenza per la valutazione di come la variabilità genomica si traduca in differenziamento fenotipico [137]. Ciascun individuo differisce dagli altri approssimativamente ogni 300-1.000 nucleotidi, con un totale stimato di 10 milioni di polimorfismi a singolo nucleotide (SNP, che sono sostituzioni di singole paia di basi riscontrate con una frequenza, rispetto alla popolazione generale, maggiore o uguale all’1%), aplotipi o loro mutazioni ereditabili, alterazioni cromosomali e migliaia di variazioni nel numero di copie di geni (CNV) [60]. La risposta al farmaco risulta quindi associata ad un fenotipo gene-ambiente, e da questo ne consegue che l’outcome di un individuo dipende dalla complessa relazione tra fattori ambientali e genetici. La variazione nella risposta potrebbe perciò essere causata da modifiche ambientali e genetiche, o da entrambe [138]. Grazie a questa nuova consapevolezza, si possono gettare le basi per la futura identificazione di nuovi target farmacologici e dei corrispondenti nuovi farmaci. In questo contesto, la farmacogenetica permette di individuare gruppi di pazienti con una più alta o bassa probabilità di rispondere ad un determinato trattamento, mentre la farmacogenomica ha come obiettivo l’identificazione di nuovi bersagli molecolari. L’integrazione e lo sviluppo delle due discipline permette di impiegare un farmaco in una popolazione selezionata e ristretta definendone i parametri di risposta positivi e minimizzando lo sviluppo di eventi avversi in pazienti che non ne trarrebbero alcun beneficio, promuovendo un aggiustamento del dosaggio farmacologico genotipo-specifico [139]. Esaminare ed identificare i fattori genetici sia somatici sia germinali che influenzano la sensibilità ai farmaci è importante per ottenere informazioni prognostiche, prevedere l’outcome di un trattamento e migliorare l’efficacia e la sicurezza di un farmaco per il benessere dei pazienti [60]. In seguito all’insorgenza di effetti non specifici dovuti all’impiego di agenti chemioterapici citotossici con uno stretto indice terapeutico, l’approccio farmacogenetico ha acquisito sempre maggior rilevanza in molti trattamenti. Soprattutto, l’importanza di questo metodo diventa fondamentale nei casi in cui i pazienti non rispondono, sviluppano resistenza o vanno incontro all’insorgenza di effetti avversi al farmaco [33]. Il progresso nella conoscenza dei complessi scambi fra le mutazioni puntiformi, le aberrazioni cromosomiche e i cambiamenti epigenetici che avvengono nel processo multi-step della carcinogenesi rappresenta un notevole aiuto per la nuova classificazione molecolare dei tumori [140]. Molti studi stanno cercando di

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validare i biomarcatori epigenetici responsabili della risposta terapeutica e che, se combinati con le mutazioni geniche dei pazienti, lo stato di instabilità cromosomica (CIN) e dei microsatelliti (MSI), e la caratterizzazione clinica del tumore, possono aiutare a definire quegli individui che possono realmente trarre benefici dall’impiego di una determinata cura [140]. In modo analogo, integrando i dati provenienti dai trial attivi e in fase di avviamento con gli studi in vitro volti a determinare su scala genomica i pathway epigenetici responsabili dell’acquisizione della resistenza tumorale, si potrebbe arrivare all’identificazione dei target più promettenti e allo sviluppo o di nuove strategie o di composti che riducano la tossicità e ottimizzino la risposta cellulare al trattamento, con la speranza che alcuni di essi possano arricchire l’armamentario terapeutico ad oggi disponibile per il paziente.

Parlando di farmacogenetica, un capitolo di grande interesse va dedicato a quelle modificazioni genetiche, citogenetiche ed epigenetiche che avvengono durante il processo di transizione dalla lesione precancerosa a patologia conclamata, siano esse driver dell’acquisizione del fenotipo tumorale step-by-step, o siano esse risultanti da questo meccanismo [141,142]. L’epigenetica riguarda lo studio dei cambiamenti ereditabili nell’espressione genica che non derivano da alterazioni nella sequenza nucleotidica del DNA, e l’analisi di centinaia di geni che modificano i livelli della loro espressione durante la carcinogenesi come una conseguenza degli eventi epigenetici che includono variazioni nei livelli di metilazione del DNA, cambiamenti nelle code istoniche e rimodellamento cromatinico, oppure interferenze nei meccanismi mediati da molecole di RNA non codificante (Fig. 16) [142,143]. Alcuni di questi marcatori epigenetici stanno acquisendo notevole rilevanza nella routine clinica come potenziali biomarcatori di risposta terapeutica, e quindi la ‘farmaco-epigenetica’ diventa lo studio delle basi epigenetiche responsabili di variazioni nella risposta ad una terapia [144]. Inoltre, le modificazioni epigenetiche sono reversibili, quindi la ricerca sugli effetti benefici dei farmaci epigenetici (‘epi-farmaci’), da soli o in combinazione con le terapie standard, è un argomento assolutamente attuale nella cura antitumorale [140]. I meccanismi epigenetici includono tre principali pathway molecolari: metilazione del DNA, modificazioni delle code istoniche (acetilazione e deacetilazione) e regolazione dell’espressione genica mediata dall’RNA [145]. Molti farmaci, definiti appunto epi- farmaci, sono in grado di inibire l’attività degli enzimi che aggiungono o rimuovono i marcatori epigenetici.

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Figura 16 - Processi epigenetici: metilazione del DNA, modificazioni code istoniche e riarrangiamento cromatinico,

regolazione miRNA

1 - METILAZIONE DEL DNA

Il potenziale contributo dei cambiamenti epigenetici, specialmente la metilazione del DNA, alla progressione della CML non sono stati ancora ampiamente analizzati. La metilazione del DNA è fisiologicamente necessaria per lo sviluppo embrionale, per il differenziamento cellulare, per l’inattivazione del cromosoma X, per l’imprinting genomico, la repressione degli elementi ripetuti e per il mantenimento dell’identità cellulare [140]. La metilazione gioca un ruolo cruciale per la stabilità cromosomale e influenza le interazioni eucromatina-eterocromatina. Il grado di metilazione delle isole CpG della regione regolatoria di un gene è associato ai livelli di trascrizione di quel gene: l’ipometilazione favorisce in genere un aumento dell’espressione genica, mentre l’ipermetilazione si associa al silenziamento dei geni (il contrario di quello che succede nella metilazione degli istoni). Esiste naturalmente anche una variabilità genetica tra gli individui che riguarda la densità dei siti CpG, e che quindi influenza i potenziali livelli di metilazione, con conseguente effetto sulle attività regolatorie dei geni di riferimento. Una metilazione aberrante del DNA è stata identificata in molte patologie ematopoietiche, fra cui la CML; inoltre, è stato

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osservato che l’ipermetilazione di alcuni geni oncosoppressori (TGS) è coinvolta non solo nella patogenesi, ma anche nella progressione della CML [146]. I tumori umani sono caratterizzati da una globale perdita di metilazione del DNA associata ad una ipermetilazione dei promotori che comporta un silenziamento dei geni correlati [147]. Normalmente, l’ipermetilazione e il silenziamento riguardano regioni contenenti elementi ripetitivi, che risultano invece sostanzialmente demetilati nelle cellule cancerose [147]; mentre i geni oncosoppressori e quelli addetti alla riparazione del DNA sono silenziati con l’ipermetilazione dei promotori, e possono inficiare la risposta tumorale ai farmaci anti-cancro [142]. Studi epidemiologici sono riusciti a correlare le variazioni epigenetiche con i fattori ambientali e hanno identificato alcuni biomarcatori diagnostici e prognostici che possono essere applicati nella routine clinica; in particolare, l’epidemiologia epigenetica studia le alterazioni dei tratti epigenetici e il rischio di sviluppare patologie nella popolazione [148]. Nel genoma dei mammiferi, le citochine presenti nei siti CpG sono le principali target di questo processo di metilazione. Lungo il genoma, distribuite in modo disomogeneo, si trovano sequenze dinucleotidiche Citosina-Guanina (CpG, dove p è la molecola di fosfato che lega le due basi per formare, insieme allo zucchero desossiribosio, la struttura esterna del DNA) che sono il target della metilazione del DNA. Le zone di DNA con un’elevata densità di siti CpG, piccole regioni di circa 0,5-2 kb di lunghezza, sono chiamate isole CpG e sono localizzate generalmente nelle regioni regolatorie di geni costitutivi (housekeeping) e di geni con espressione tessuto-specifica [149]. Queste sezioni si trovano per il 60% nei promotori dei geni umani e meno frequentemente nel corpo dei geni o nelle regioni intergeniche. La metilazione consiste nell’aggiunta di un gruppo metile alla citosina delle isole CpG ad opera della famiglia di enzimi DNA metiltrasferasi (DNMT). La famiglia delle DNMT comprende principalmente due tipi di enzimi: la DNMT1 che riconosce in modo specifico i siti di metilazione in un emi-filamento di DNA e li copia sul filamento figlio durante la replicazione, garantendo la fedeltà nel profilo di metilazione durante la mitosi; le DNMT3a e 3b che sono implicate invece nella metilazione “de novo” che avviene durante lo sviluppo embrionale e durante la differenziazione cellulare. Il silenziamento della trascrizione genica è associato con la metilazione dei siti CpG e le isole sono localizzate vicino ai siti di inizio della trascrizione (TSS) dei geni [149]. Nelle cellule tumorali, queste regioni possono essere spesso metilate, risultando in un blocco della trascrizione ad opera di molti geni associati con il cancro [150,151]. Anche se la metilazione dei siti contenuti nel corpo dei geni può contribuire al tumore causando mutazioni somatiche e germinali, la funzione della metilazione delle CpG intergeniche non è ancora stata del tutto compresa. Poiché questa trasformazione è reversibile, i geni metilati possono essere nuovamente espressi mediante l’uso di inibitori delle DNMT, come, per esempio, la 5aza-2’-deossicitidina (Aza-dC) [152]. Inoltre, questi

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inibitori, utilizzati con gli inibitori delle istone-deacetilasi (come la Tricostatina A, TSA), agiscono sinergicamente sulla ri-espressione genica. Questo campo ha il potenziale di portare benefici ai pazienti attraverso l’identificazione di biomarcatori diagnostici che permettano la rilevazione tempestiva della malattia e dei marcatori prognostici utili per la scelta delle strategie di trattamento più indicate [148]. A questo proposito, il fenotipo di metilazione delle isole CpG (CIMP) è stato ritrovato in molte patologie umane e caratterizza una sottocategoria di tumori presentanti una ipermetilazione di multiple isole CpG, suggerendolo come un pathway distintivo per il carcinoma. Inoltre, il CIMP risulta fortemente associato con l’esito clinico, permettendo quasi di paragonarlo ad un biomarcatore predittivo La metilazione è considerata biologicamente importante nella patogenesi di molte patologie maligne, perciò è estremamente importante studiare il metiloma (profilo di metilazione del DNA) nei pazienti affetti da CML sia alla diagnosi sia con il progredire della malattia [153].

2 - MODIFICAZIONI DELLE CODE ISTONICHE

Modificazioni post-trascrizionali sui residui delle code istoniche dei nucleosomi permettono il rilassamento cromatinico e la sua condensazione, e questo consente sia una regolazione dell’espressione genica, la replicazione del DNA, e sia processi di ricombinazione e riparazione [154]. L’acetilazione e la metilazione sono due dei principali marcatori epigenetici; l’acetilazione dei residui di lisina sulla coda istonica comporta un’apertura della struttura cromatinica che consente la trascrizione mentre, al contrario, la sua deacetilazione mediata dalle deacetilasi (HDAC) fa sì che si ottenga condensazione della cromatina [155]. La metilazione può avvenire sia a livello dei residui della lisina sia dell’arginina nel core degli istoni H3 e H4; è un processo mediato dalle metiltrasferasi lisiniche (HMT) o da quelle proteiche argininiche (PRMT) e può essere accompagnato da condensamento o rilassamento cromatinico. Infatti, per esempio, la trimetilazione della lisina 4 di H3 (H3K4me3) è associata ad attivazione della trascrizione, mentre la trimetilazione della lisina 9, sempre su H3 (H3K9me3) e quella della lisina 27 (H3K27me3) sono fattori repressivi [155]. Le modificazioni proteiche sono meno stabili rispetto alla metilazione del DNA, quindi risultano meno adatti ad essere utilizzati come biomarcatori per il cancro [156].

3 - MOLECOLE DI RNA NON CODIFICANTE

Molte classi di RNA non codificanti, in cui sono compresi miRNA (miRNA) e lunghi RNA non codificanti (lncRNA), regolano i livelli di espressione dei geni e sono considerati fattori epigenetici [157,158]. Gli RNA non codificanti circolanti sono stati il focus dei numerosi sforzi effettuati negli ultimi anni per la ricerca di biomarcatori tumorali e per la comprensione di come avviene la

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modulazione della risposta ai trattamenti [157,158]; inoltre, moltissimi miRNA sono stati associati alla resistenza ai chemioterapici standard [159].

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