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Il perché delle restrizioni all’esportazione da parte della Cina e i motivi che hanno spinto USA, UE

CAPITOLO 3 LA DISPUTA IN SEDE WTO RIGUARDANTE LE RESTRIZIONI IMPOSTE

1. Il perché delle restrizioni all’esportazione da parte della Cina e i motivi che hanno spinto USA, UE

Negli anni ’80, la Cina era un piccolo player nel panorama mondiale della fornitura di terre rare tungsteno e molibdeno. L’industria mineraria, infatti, era ancora sottosviluppata, e mancava del capitale tecnologico necessario per estrarre materie prime di qualità e adatte a soddisfare la domanda dei Paesi più industrializzati. Negli ultimi vent’anni, il Paese asiatico è stato in grado di ammodernare l’intero apparato industriale e aumentare la produzione sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo. Inoltre, grazie ai know-how acquisiti è diventato il principale Paese produttore di queste materie prime, arrivando a soddisfare più del 90% della domanda globale.

Nei primi anni ’90, la Cina consolidò il proprio monopolio, facendo leva sulla fornitura di materie prime a basso prezzo. Molte imprese occidentali, incapaci di mantenere le proprie materie prime ad

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un prezzo altrettanto vantaggioso, furono costrette ad uscire dal mercato. Questo comportò la chiusura nei Paesi industrializzati di numerosi impianti minerari, compreso quello di Mountain Pass in California, che tra gli anni ’60 e ’80 fu uno dei giacimenti più produttivi al mondo (Mancheri 2015, p.263-267).

In aggiunta, le pesanti condizioni di lavoro tipiche delle attività di estrazione, insieme all’introduzione di normative sempre più rigide sul rispetto dell’ambiente, hanno contribuito a ridurre gli impianti di estrazione e di lavorazione esistenti nei Paesi più ricchi. Di conseguenza, le imprese europee e americane si videro costrette ad acquistare il materiale direttamente dal produttore asiatico (Baronicini 2011, p.204).

Il prezzo di queste materie prime rimase invariato per decenni, insinuando nei Paesi industrializzati un falso senso di sicurezza. Dal 2007 al 2010, le condizioni di mercato iniziarono gradualmente a mutare. Pechino impose sempre più pesanti restrizioni sulle quote d’esportazione di terre rare, tungsteno e molibdeno, riducendo il numero di aziende autorizzate a vendere all’estero i propri prodotti. Questo limitò drasticamente l’offerta, causando un aumento esponenziale dei prezzi e della concorrenza. La Cina giustificò queste misure restrittive sotto l’ottica di una nuova politica gestionale, con l’obbiettivo di riorganizzare il settore minerario, rallentare il crescente drenaggio di risorse naturali e ridurre l’inquinamento generato dalle operazioni di prospezione mineraria (Patitucci 2012; Mancheri 2015, p.263-267). Lo stesso ministro cinese dell’industria e dell’informazione Miao Wei sostenne pubblicamente che le restrizioni sulle esportazioni avevano come unico obbiettivo quello di proteggere l’ambiente e di sfruttare le risorse in maniera sostenibile. La Cina, di fatto, si era impegnata per decenni a rifornire il mondo di minerali a basso prezzo, causando danni ingenti all’ambiente e compromettendo la salute dei suoi cittadini. Inoltre, se la Cina non avesse posto un freno al commercio con l’estero, queste materie prime si sarebbero esaurite entro vent’anni (Terre rare, la

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Anche il portavoce del Ministero del Commercio, Shen Danyang, dichiarò che le restrizioni sull’esportazione non miravano in alcun modo a limitare la commerciabilità di tali risorse e che la Cina avrebbe continuato a rifornire il mercato mondiale come aveva sempre fatto. Tuttavia, l’incidente navale, avvenuto il 7 settembre 2010, tra un peschereccio cinese e la guardia costiera giapponese confermò l’esatto opposto. L’episodio degnerò in uno scontro diplomatico, e il governo cinese in segno di rappresaglia sospese per circa un mese l’esportazione di terre rare verso il Giappone, causando ingenti danni all’economia giapponese. Agendo in questo modo, la Cina confermò la sua superiorità economica, e dimostrò al mondo intero l’influenza egemonica che poteva esercitare nel commercio di materie prime critiche e indispensabili per le industrie (Patitucci 2012, La Cina e la

politica del bastone).

I Paesi importatori, ora consapevoli della loro vulnerabilità e allarmati dalle possibili conseguenze, accusarono il Paese asiatico di aver violato le regole del libero mercato, riducendo l’esportazione di questi metalli nel tentativo di favorire le aziende cinesi a danno dei consumatori oltremare. Lo stesso presidente Barack Obama denunciò apertamente le nuove politiche cinesi, sostenendo che non erano conformi alle normative accettate da Pechino nel 2001, anno in cui entrò a far parte del WTO (Patitucci 2012).

A detta di questi Paesi, l’obbiettivo principale delle barriere all’esportazione altro non era che l’innalzamento dei prezzi di terre rare, tungsteno e molibdeno, ritenuto troppo basso rispetto al loro valore intrinseco. Operando in questo modo, il Paese asiatico avrebbe rafforzato l’industria domestica, creando un vantaggio in termini di costo per le proprie aziende, le quali potevano godere di un prezzo molto più agevolato rispetto a quello offerto al mercato estero. Inoltre, le nuove misure restrittive servivano ad invogliare le imprese straniere a ricollocare i loro stabilimenti in Cina, attraverso accordi di collaborazione di joint venture. Infatti, sin dal 1990, il governo cinese dichiarò l’importanza strategica del settore minerario, impedendo agli investitori stranieri qualsiasi attività di estrazione, a meno che questi non collaborassero sotto forma di joint venture con la controparte cinese. Così

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facendo, entrambe le parti avrebbero goduto di uno scambio equo, le imprese straniere avrebbero fornito alle imprese cinesi il know-how e il capitale tecnologico necessario per l’ammodernamento industriale, in cambio veniva loro concessa la possibilità di rifornirsi di materie prime ad un prezzo ben inferiore rispetto a quello proposto agli altri concorrenti stranieri (Pothen & Fink 2015, pp.4-13). E’ alla luce dei fatti sopra riportati che i principali Paesi importatori di queste risorse strategiche hanno deciso di avviare, nel marzo del 2012, un contenzioso contro il Paese asiatico.

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