Dopo quasi dieci anni dall’ultima operazione artistica del famoso Land Artist in Sicilia, la quale ci ha permesso di assistere all’opera “Circle of life”, una creazione sotto forma di ruota dentata creata in perlato di Sicilia, ed esposta nello
56 Floris P., L’intervento di Ludovico Quaroni, in Cantiere Gibellina. Una ricerca sul campo, (a cura di) Massimo
Spazio Zero dei cantieri culturali della Zisa a Palermo per due mesi da novembre 1997, l’artista ci invita a riflettere con un’altra sua opera creata per e nel territorio siciliano e sempre con il nome “Circle of Life”. Nel 2008 all’interno del progetto 5eventi curato dal Museo di arte contemporanea delle Regione Sicilia, viene stabilito che l’opera prima di trovare sistemazione definitiva presso il Museo Riso di Palermo, verrà ospitata presso la Fondazione Orestiadi di Gibellina. Trenta tonnellate di pietra di nerello di Custonaci compongono l’opera e rievocano la precedente, non solo nella forma ma in particolare nel processo. La disposizione delle pietre si integra consapevolmente con lo spazio su cui è situata. La decisione di esporre per un periodo l’opera presso La fondazione di Gibellina è stata presa di comune accordo tra il sindaco Ludovico Corrao e lo stesso Museo Riso, il quale è intenzionato a sottolineare l’idea di Museo diffuso. I suoi cerchi sono sempre diversi, tendono a relazionarsi con il territorio, cambiano i materiali, le forme e l’impatto emotivo che riesce a trasmettere alla gente del luogo. Nel cerchio di Gibellina è possibile evocare la tragedia che si è vissuta nel 1968, le pietre ricordano le costruzioni che sono andate distrutte ma anche le vite che si sono perse in quella notte. L’opera invita a essere circumnavigata, chiede di vivere la sua magia.
A Gibellina l’allestimento dell’opera suggerisce un modo diverso di pensare la relazione esistente tra il museo e l’opera, vi è una leggibilità diversa, il pubblico si approccia in maniera individuale e collettiva con l’opera posta nello spazio.
Richard Long è uno dei massimi esponenti della Land Art, sviluppò la sua ideologia già negli anni sessanta usando solo elementi presi dalla natura e dal paesaggio sul quale opera. Una delle sue opere più famose “A Line Made by Walking England”, del 1967 consiste solamente in una linea che si concretizza camminando e calpestando l’erba. Long non tende a sfidare la
natura, come invece provarono a fare altri artisti della sua scuola, invece tende ad assecondarla, cerca di comprendere le sue logiche interne e la sua forza. La sua trama mentale non è mai mutata nel tempo, <<in essa la ricerca di Long individua la propria ragion d’essere, la propria spinta propulsiva: raffigurare simbolicamente il connubio tra l’individuo e il mondo che lo circonda, tra il particolare che egli rappresenta e l’universale dal quale egli ha avuto origine>>57. 2.5 Il grande Cretto di Burri L’intervento che maggiormente ha lasciato il segno nell’animo dei Gibellinesi e di tutti coloro che hanno avuto la possibilità di vederlo è sicuramente il Cretto di Alberto Burri. Il Cretto ha fagocitato i resti della città storica di Gibellina, con i suoi ricordi materiali e le sue tradizioni.
Quando si parla di quest’opera monumentale con gli abitanti della zona, si riferiscono ad essa come una sorta di grande lenzuolo bianco, quello usato per coprire un morto.
Ed effettivamente questa è la funzione del Cretto, coprire per conservare e per permettere di ricordare. Un’opera creata per la futura memoria.
Nasce dall’esigenza e dalla volontà di trovare un modo per conservare e salvaguardare nella memoria della gente i resti del vecchio paese di Gibellina, quei resti che portano con se il ricordo della tragedia, della perdita e della scomparsa dell’identità. Si vuole evitare che la ricostruzione della città in un altro sito rispetto a quello originale provochi la completa amnesia dei luoghi del passato e nei quali la memoria è ancora presente, avvenimento che si è manifestato negli altri paesi
57 Pancotto P., Richard Long in Sicilia. Riso inaugura a Gibellina la sua collezione, in I quaderni di Riso/Annex,
terremotati.
Alberto Burri, nel 1981, è stato personalmente invitato dal sindaco Corrao a Gibellina per partecipare attivamente con un suo contributo artistico, è lui stesso a decidere il luogo sul quale agire; non nella nuova città come fecero gli altri artisti, ma nella parte vecchia e abbandonata. Costruendo il Cretto riesce a conservare la memoria di Gibellina.
L’operazione artistica inizia nel 1985 e si conclude nel 1989. Il progetto prevede di raccogliere fisicamente tutte le macerie e i resti della vecchia città per poi ricoprirle interamente dalla calce bianca. Burri lascia liberi dalla calce tutti i sentieri e le vie originali della città, riuscendo a ricreare la circolazione viaria del paese quando ancora esisteva. Così facendo si formano degli isolati bianchi in mezzo ai quali è possibile camminare. Il cretto coprendo tutte le rovine si adagia sul terreno e segue la sua conformazione fisica. I blocchi di cemento, gli isolati sono 112 e sono alti un metro e sessanta più o meno. Nonostante la vasta dimensione dell’opera, che la configura come grande intervento di arte ambientale, questa non è stata portata a termine, perché sono stati coperti solo 65000mq di terreno, ben 30000 meno rispetto all’idea originale.
Burri, artista famoso per i suoi lavori ed esperimenti con la materia, per i suoi sacchi, le sue muffe, i legni, con il cretto riesce a mostrare con grande immediatezza la forza e la potenzialità espresse dal materiale utilizzato. Argan parla di Burri in occasione della sua mostra a Napoli presso il museo di Capodimonte: <<La superficie è il luogo dove più nulla può accadere di quello che si vede accaduto e dove le tensioni interne della materia, il suo interno contrasto di spazio e di tempo, l’antitesi di qualità e quantità si equivalgono e si neutralizzano(..). Si rivelano metafora o simbolo l’infinità
dell’essere>>58. E infatti con il cretto di Gibellina, Burri è
riuscito a fermare il tempo e lo spazio, congelandolo all’interno di una distesa bianca, impattante, un unico corpo che conserva il ricordo e il lutto.
Un ulteriore caratteristica del Cretto è la sua deteriorabilità, il tempo e la natura tendono a modificarlo costantemente, il materiale subisce delle variazioni perché è immerso in una relazione diretta con la natura del luogo. Il materiale usato non è solo la calce, ma anche la terra del luogo, le macerie delle case e delle strade. Il Cretto di Alberto Burri può essere considerata come una delle opere di arte ambientale più famosa al mondo. E’ un’opera monumentale e allo stesso tempo sepolcrale. Sempre Roberto Andò, parlando di una foto mai più ritrovata sostiene che il Cretto <<è un manufatto che alla distanza in cui era stato inquadrato e rapito nello scatto dell’otturatore poteva anche avere l’apparenza di una calcificazione casuale di materia, implosa in una precisa astrazione formale, senza fini o teleologie che non fossero quella del semplice farsi e disfarsi degli elementi naturali>>59.
Dopo quarant’anni dal terremoto e dopo quasi venti dalla creazione del grande Cretto, si inizia a parlare di restauro necessario per l’opera, necessità che è stata condivisa contemporaneamente dal museo d’arte contemporanea Riso, dalla Fondazione Orestiadi e dallo stesso Comune di Gibellina. Dell’importante compito se ne è preso cura il Museo Riso che affiancandosi al Dipartimento di Ingegneria Chimica dei Processi e dei materiali di Palermo, ha avviato uno studio preventivo della situazione di degrado raggiunta del Cretto e del processo in corso. L’opera nel corso di questi vent’anni non ha solo subito degli attacchi atmosferici o biologici, ma proprio 58 Argan G. C., (a cura di), Alberto Burri, catalogo della mostra, (Napoli, Museo di Capidomonte, maggio‐settembre 1978), Amelio Editore, Napoli, 1978, pag. 2. 59 Andò R., La trincea e il nemico. Ritorno a Gibellina, in I quaderni di Riso/Annex, 2008 n.1, Regione Sicilia, pag. 54.
per la volontà di Burri che aveva deciso di lasciare dei ferri scoperti, si sono create delle fessure e crepe di varie dimensioni. 2.6 La Fondazione Orestiadi La nuova Gibellina ha puntato fin da subito a diventare un polo culturale e artistico di alto livello, non solo grazie alla vasta varietà di opere disseminate sul suo territorio, ma anche grazie a una apertura verso tutte le arti visive e performative, dal teatro al cinema; apertura espressa dall’organizzazione di diversi eventi e iniziative, che hanno permesso di associare al nome di Gibellina l’idea di un <<laboratorio culturale permanente>>60. Durante gli anni finali del ventesimo secolo, a
Gibellina si è assistito alla nascita e apertura di più di un centro museale, accomunati dall’intento di sviluppare una strategia comune per ovviare ai problemi della conservazione e della tutela del patrimonio culturale già esistente nell’area gibellinese, e in più per attivare operazioni di ricerca e studio anche attraverso la creazione di laboratori didattici. Questo percorso ha permesso alla cittadinanza di avvicinarsi ancor di più all’arte dalla quale è circondata quotidianamente e a comprenderla sotto un punto di vista più critico e analitico, in quanto grazie alle attività promosse all’interno delle istituzioni, la gente ha avuto modo di apprendere gli strumenti di comprensione. Frazzetto stesso, resta sorpreso <<della familiarità e della competenza con cui i ragazzi di Gibellina si rapportano alle opere collocate nelle vie cittadine o nel Museo d’arte contemporanea>>61. Grazie ad una costante
60 Navarra G., Gibellina ed il suo patrimonio artistico e storico, in De Simone G., Farina G. e Fazzi S., (a cura di),
Alberto Burri nel panorama della Land Art internazionale, Atti del convegno (Gibellina, 9‐10 ottobre 1998),
Museo d’Arte Contemporanea, Gibellina, 2004, pag. 19.
programmazione di incontri, dibattiti e convegni, Gibellina si è trovata centro di un costante scambio culturale tra le diverse arti e tendenze grazie alle attività della Fondazione Orestiadi che si sviluppa attraverso tre istituzioni.
Il Museo etno ‐ antropologico della Valle del Belice del 1981 mira al recuperare la memoria contadina della gente della valle. Il Museo delle Trame Mediterranee, invece nasce nel 1996, e fa parte del naturale percorso di sviluppo delle attività della Fondazione Orestiadi del 1992. Il museo oltre ad occuparsi della conservazione ed esposizione di manufatti provenienti da diversi paesi appartenenti alla zona del Mediterraneo, e di una raccolta di opere d’arte contemporanea, ha come scopo principale quello di ideare e sviluppare programmi di intermediazione culturale con gli altri paesi, specie quelli islamici‐mediterranei. Il Museo agevola e incoraggia la coesistenza tra le diverse culture; è un contenitore antropologico estraneo alle dinamiche egemoniche dell’Occidente.
Il Museo d’arte contemporanea, nasce per primo nel 1980. Non è esclusivamente definibile come un museo, perché al suo interno ospita il CESDAE, centro studi e documentazione sull’area elima, il Laboratorio di arti decorative e il laboratorio‐ scuola di teatro. Essendo tutta la città di Gibellina un museo d’arte contemporanea all’aria aperta, naturalmente le attività del Museo sono orientate a tutte le opere facenti parte della collezione di Gibellina, sia quelle conservate internamente al museo sia quelle all’esterno, dalle sculture agli edifici. L’idea del museo prese avvio sempre del sindaco Ludovico Corrao, in quanto gli sembrava fondamentale l’esistenza di un luogo nel quale potessero essere contenuti tutti i bozzetti e le idee che hanno permesso la rinascita di Gibellina.
Il 1983 è l’anno di inizio di un’ importante manifestazione teatrale e musicale che si tiene ogni anno presso le rovine di
Gibellina, le Orestiadi. Ludovico Corrao, in una sua intervista, descrive la motivazione e l’esigenza da cui ha preso vita il festival: <<Le Orestiadi nascono come necessità di un approfondimento del rapporto tra la storia di ognuno di noi e i grandi miti del Mediterraneo in cui la nostra storia si identifica. Sono un momento di alta civiltà che vuole celebrare la rinascita della città, che vuole offrirsi a un processo di analisi delle ragioni della vita e dell’esistenza. Come programma artistico può essere definito anche come un modo di coinvolgimento di diverse discipline artistiche in un unico progetto, per superare quelle che definisco “separatezze”>>62. Emilio Isgrò è il primo a
portare in scena un’opera sulle macerie di Gibellina. Nel 1982 rappresenta la sua Gibella del martirio e dal 1983 al 1985 si occuperà di mettere in scena l’Orestea di Eschilo, dopo averla riscritta e reinterpretata. Con la manifestazione vi è una traslazione della tragedia sul luogo, in quanto da luogo dove è avvenuta realmente una tragedia, diviene luogo dove si attua una rappresentazione di quest’ultima. Punto di collegamento tra il festival e la nuova Gibellina è riscontrabile soprattutto nella scelta di grandi artisti di fama internazionale, richiamati a Gibellina per prendersi cura delle scenografie degli spettacoli. Sono state create negli anni immense macchine sceniche, le quali dopo avere espletato la loro funzione durante la rappresentazione, hanno trovato il loro posto all’interno del contesto urbano e pubblico, andandosi ad accostare alle opere scultoree e agli edifici permanenti. Sono state sparse per svariati punti della nuova città, hanno assunto il valore di scenografia fissa.
Arnaldo Pomodoro, l’artista più presente sia come numero di opere di sua fattura che come numero di rassegne alle quali ha partecipato, ha lasciato a Gibellina sculture dalla forma elementare e semplice, ma allo stesso tempo interrogative. Il
grande Aratro, ideato nel 1986 appositamente per la Tragedia di Didone regina di Cartagine, che simbolicamente può fare pensare all’attaccamento alla terra da parte della società contadina di Gibellina, è stato posto, subito dopo il suo uso in scena, presso il confine estremo della città, come per evidenziare idealmente il confine di Gibellina. <<Pomodoro reinventa la sua misura formale, consentanea ad un classicismo sognato, ibridato di ellenismo ed egittomania, irto di suggestioni ed allo stesso tempo razionalmente progettato>>63.
La problematica maggiore che si è riscontrata nel tempo, riguarda il lento degrado a cui sono andate in contro tali macchine sceniche una volta sistemata all’aperto, nell’arredo urbano, in seguito allo scontro con gli agenti atmosferici. Molte hanno dovuto subire estremi restauri, per poi essere conservate in ogni caso all’interno del Museo, come Cassandra, altre praticamente sparite, distrutte, ridotte a carcasse arrugginite, come la Stele. A volte il dramma risiede nell’usare una struttura nata con un intento effimero, per un fine duraturo, che resista nel tempo e che si integri con lo spazio. Anche Consagra partecipò attivamente alla costruzione delle scenografie per le Orestiadi, e ancora oggi è possibile prendere visione di una delle sue opere, La città di Tebe, costituita da quarantotto elementi dislocati su tre livelli distinti. L’intento rappresentativo risiede nel porre in confronto la città distrutta interiormente con la sua teoria di città astratta, frontale. Oggi sono rimasti solo sedici elementi su due livelli che racchiudono la piazza principale.
Mimmo Paladino, artista della Transavanguardia, fece sentire la sua presenza con la sua immensa Montagna di Sale, creata per l’opera La sposa di Messina di Schiller. Una montagna bianca, lucente, all’interno della quale sprofondano dei cavalli nerissimi. La montagna crea da sola la sensazione di ritrovarsi
in un luogo suggestivo, carico di tensione. Paladino ha usato 250 tonnellate di sale, prelevandolo dalle saline di Trapani e Mazara del Vallo, quindi usando la materia prima del luogo, permette all’opera di dialogare attivamente con il paesaggio e con la tradizione.
In seguito la Montagna fu resa immortale con una colata di cemento. Il quale però ha cancellato la luminosità e la brillantezza del sale, ha eliminato la mobilità dei cristalli di sale, i cambi continui nella forma e quindi la sua effimerità. Il cemento, molto spesso, è stato utilizzato volontariamente per la costruzione di opere en plein air, in quanto materiale che risponde all’esigenza di stabilità e durata, e che riesce a dialogare con gli edifici circostanti e connettersi con il paesaggio visivo.
Paladino, negli anni ha ripetuto l’esperimento installando una Montagna di Sale sia a Napoli nel 1995 a Piazza del Plebiscito, che a Milano davanti al Duomo nel 2011, con l’obiettivo di creare una connessione tra sud e nord Italia.
Nel 1990, con alla guida della direzione artistica di Achille Bonito Oliva, Gibellina si ritrova sede di uno scambio fervido e reattivo tra diverse culture e diverse forme di espressione artistica, non più solo arte pubblica, monumentale, ma anche teatro, danza, musica, e soprattutto si ritrova al centro dell’inizio di un intenso processo di apertura nei confronti del mondo islamico mediterraneo.
La Fondazione Orestiadi ha deciso di sviluppare il suo percorso utilizzando l’idea dei progetti di residenze, quindi dando la possibilità ad artisti provenienti da vari paesi, di interagire con il luogo e creare per esso. La collezione, in questo modo, prende sempre maggiore forma autonoma e tende a discostarsi da quella scultorea della città. Il museo è proprietario di opere dei maggiori esponenti dell’arte italiana del novecento
possibilità di fruizione dello spazio pubblico e sulla partecipazione attiva da parte della cittadinanza, come possibili soluzioni alternative ai problemi di conflittualità sociale. <<Si guarda all’opera, non solo come ad un possibile stimolatore di riflessione, ma anche come ad un luogo in cui lo stesso cittadino/fruitore possa esplicitare la propria potenziale creatività>>64.
Il fatto di essere nate, tali riflessioni, in contesti dimenticati o estremamente problematici, permette di riconsiderare il ruolo dell’artista nella società e con la società, e sulla sua capacità di fare risaltare e rendere evidente quel qualcosa che oramai il cittadino, che vive racchiuso nella sua routine, non è più capace di vedere realmente.
Lo stato d’animo del cittadino nell’accogliere l’opera d’arte nei confini del suo spazio pubblico è determinante per la salvaguardia nel tempo dell’opera stessa, perché se si riesce a innescare una relazione di reciprocità, la gente tenderà a curare e proteggere e valorizzare l’opera. Tramite l’interesse per il suo mantenimento, si tiene in vita e si intensifica sempre più l’aspetto relazionale, e la comprensione e l’attaccamento al territorio si fanno più maturi nella gente.
Gibellina, secondo le parole di Francesco Messina, vicedirettore del Museo Civico, è nata dalla consapevolezza che l’effetto più grave provocato dal terremoto non è tanto quello della distruzione degli edifici ma la perdita complessiva della memoria e dell’identità della cittadinanza. Per questo si è voluto dare una nuova vita al paese attraverso la creazione di uno dei più grandi musei d’arte contemporanea all’aria aperta. Sempre Messina ricorda che inizialmente vi è stato uno scontro duro con la società contadina che abitava la vecchia Gibellina, ma nello svolgimento del progetto sempre più persone si sono 64 Lonardelli L., Esplorazione e conservazione a Gibellina I: riflessioni, in Cantiere Gibellina. Una ricerca sul campo, (a cura di) Massimo Bignardi, Davide Lacagnina e Paola Mantovani, Edizioni Artemide, Roma, 2008, pag. 109.
avvicinate con estremo interesse all’idea, cercando di intenderne lo scopo profondo che aveva smosso l’intera operazione. Tutti sono cresciuti contemporaneamente alle opere e per questo ne fanno parte.65
Purtroppo esiste anche una vasta bibliografia critica nei confronti del progetto Gibellina, che analizza il paradosso esistente tra il concetto di città d’arte e l’effettiva alienazione che la cittadinanza vive causata dall’urbanizzazione della città, e il problema della difficile conservazione delle opere e del correlativo restauro quasi assente a causa della carenza dei fondi. Il post terremoto fu un periodo caratterizzato da peripezie burocratiche, politiche ed economiche, così come da scandali e svariate polemiche, causate dalla lentezza della ricostruzione, si pensi che solo nel 1977, quasi dieci anni dopo