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riferimento a una specie di conspecificità (non soltanto biologica) Certo, non posso comprendere l’interezza gestuale di un cane Però non posso neppure comprendere in toto il mondo di un essere

umano primitivo. Non è infatti sufficiente che due soggetti coscienti abbiano gli stessi organi e lo

stesso sistema nervoso perché anche le stesse espressioni emotive si diano in entrambi i casi nei

medesimi gesti

252

: un giapponese sorride nella collera, un europeo si dimena. Il limite del mio

mondo, però, non è soltanto il limite wittgensteiniamente dato del mio linguaggio

253

, piuttosto il

limite critico del senso originario ed emotivo delle mie azioni. Un soggetto parlante s’innesta su un

soggetto pensante, il quale s’innesta sul soggetto senziente incarnato. Per questo, noi filosofi spesso

sbagliamo nell’insistere con il tema sfacciatamente lacaniano del significante, quando presumiamo

di poter ridurre quel pianto soddisfatto dell’infante, – l’esempio da cui abbiamo cominciato, – a una

forma di educazione civica imposta dalla società attraverso la madre. La fenomenologia della forma

ci ha invece insegnato che il corpo-altrui è, per noi, l’espressione autentica di un comportamento

249 Da intendersi alla maniera hegeliana e marxiana.

250 Un cane allenato a saltare su una sedia non farà mai uso, in mancanza di una sedia, di uno sgabello o di un

seggiolone. Ciò che manca all’animale è propriamente questo sistema di elaborazione (Vygotskij).

251 Ricordate la “teoria buba-kiki” di Ramachandran?

252 In ogni caso, – ci dice la psicologia, – almeno sei emozioni primarie (gioia, tristezza, paura, rabbia, sorpresa,

disgusto) si darebbero in maniera universale.

253 La chiarezza del linguaggio, scrive Merleau-Ponty, si stabilisce su una specie di “fondo oscuro”: pertanto, se

spingessimo la nostra ricerca a fondo nel linguaggio, capiremmo che il linguaggio non esprime altro che se stesso. Come un vuoto.

originario e allo stesso tempo, – in quanto culturalizzabile, – culturalizzato. Detto ciò, non possiamo

certo dimenticare che quello stesso corpo-altrui, – quel corpo che noi percepiamo

nell’immediatezza sensuale della percezione viva, – è anche un oggetto culturale, poiché capace di

donarci quel tracciato di senso di cui è composta non solo l’ontogenesi bio-culturale dell’individuo,

ma anche la storia filogenetica del mondo collettivo. Quest’ultima, tramandabile soltanto nel segno

husserliano

254

.

254 Il mondo naturale significa per noi l’orizzonte di un’esperienza possibile. Non a caso soltanto all’interno della nostra

cerchia sociale, della comunità cui noi apparteniamo e a cui noi siamo direttamente legati, possiamo rinfrancarci dinanzi ai “fatti sicuri” delle verità obiettivamente ri-conosciute. È un passaggio fondamentale, poiché suffraga la teoria di una specificità transfenomenologica dei giuochi linguistici. Husserl ci pone, infatti, dinanzi a un esperimento mentale: se da un momento all’altro fossimo gettati in un ambiente-mondo completamente differente dal nostro, con regole e giuochi propri, per esempio in Africa, piuttosto che in Cina, ci accorgeremmo come le verità degli africani o dei cinesi, i fatti che per loro sono assodati e verificati, o verificabili, non sono in generale quelli che noi riteniamo tali. È l’impossibilità di un qualsiasi multiculturalismo? Non proprio. Perché rispetto a questo primo straniamento, in Africa piuttosto che in Cina, ponendoci di fronte alla costatazione di questo nuovo stato di cose, potremmo egualmente rinvenire delle verità che travalicano qualsiasi relativismo: ci renderemmo conto cioè che anche il mondo-della-vita, malgrado la propria dossicità, possiede una sua struttura generale (Krisis, p. 167). Silvia Lanzetta ha scritto una cosa del genere in un bellissimo articolo dal titolo Lo sguardo fenomenologico attraverso l’arte aborigena (in Divenire in

Merleau-Ponty. Filosofia di un soggetto incarnato a cura di Roberta Lanfredini). È la questione di sempre, che non ci

stancheremo mai di sottolineare: il mondo-della-vita ha già in via prescientifica le medesime strutture che vengono ricalcate dalle obiettività scientifiche. Anche l’esistenza di un corpo nel senso della fisica non eccettua l’esistenza di un corpo vissuto intuitivamente (e primariamente esperibile). Tuttavia occorre, secondo Husserl, una chiara distinzione sistematica delle strutture universali dell’a-priori universale della Lebenswelt, – così come una distinzione sistematica dell’a-priori universale del mondo universale obiettivo, – per potere finalmente definire la problematica universale rispetto al modo in cui l’a-priori obiettivo naturale si fonda sull’a-priori soggettivo-relativo del mondo-della-vita (la questione delle regioni dell’ontologia). Questo mondo, per noi, – il mondo in cui siamo gettati, – non è per questo dato occasionalmente: esso è piuttosto, sempre e necessariamente, l’ambiente universale, l’orizzonte entro cui si svolge qualsiasi nostra prassi relativa. La nostra vita è sempre un vivere-la-certezza-del-mondo, un mondo configurato quale orizzonte di oggetti e al contempo quale “campo intenzionale”. Tutti gli oggetti del mondo, infatti, non ci sono, – anch’essi, – soltanto già dati come “qualche cosa del mondo” (etwas aus der Welt), siccome realtà “realmente” essenti. Siamo sempre noi a diventarne coscienti mediante modi soggettivi di apparizione e di datità. Eccolo il senso profondo della fenomenologia: la constatazione che la semplice “vita dentro al mondo” non può essere lo scopo ultimo dell’epoché. Occorre sempre una nuova sospensione: la riduzione dell’essere-già-dato nel mondo, del soggetto che diviene, in questo modo e in questo senso, un oggetto tra gli oggetti. L’essere-già-dato del mondo-della-vita diviene infine un tema autonomo e universale poiché avviene attraverso un mutamento radicale del nostro atteggiamento

naturale, una modificazione che ci tira definitivamente fuori dalla vita naturale mondana. Questa è appunto la

peculiarità dell’epoché trascendentale. Forse una pura utopia, o forse roba da pratiche meditative orientali. Per chiudere il cerchio: la prima epoché, – la messa tra parentesi delle validità obiettive, – era un atteggiamento abituale, un graduale avvicinarsi alla Lebenswelt. La seconda epoché rappresenta invero l’unica astensione compiutamente fenomenologica: operata una volta per tutte, ci permette infatti di mettere fuorigioco in un solo colpo quell’atteggiamento d’inconsapevole partecipazione al flusso ininterrotto di esperienze, giudizi, valutazioni e conclusioni relative. Per Husserl, soltanto attraverso l’epoché trascendentale, noi possiamo assumere una condotta definitiva che ci ponga al di sopra e al di là della vita universale (soggettiva e intersoggettiva) della coscienza nella quale il mondo è “qui” indiscutibilmente a portata di mano [vorhanden]: “Se diciamo che l’io percepisce il mondo e ci vive dentro il mondo

naturalmente, che è interessato al mondo, avremo allora, nell’atteggiamento modificato fenomenologicamente un raddoppiamento dell’io: al di sopra dell’io ingenuamente interessato al mondo si stabilirà come spettatore disinteressato l’io fenomenologico” (Meditazioni cartesiane, § 15). Questa liberazione dal mondo equivale alla scoperta

della correlazione universale, in sé assolutamente conchiusa e autonoma, tra il mondo e la coscienza del mondo (la vita di coscienza che produce le validità mondane). L’epoché universale dischiude quindi al filosofo un nuovo modo di esperire: il mondo fatto “fenomeno”. Quest’operazione, diretta conseguenza dell’epoché fenomenologica, è definita da Husserl riduzione trascendentale. Così tra le pagine di Krisis: “L’essere-già-dato di un mondo di cose essenti nella

costante evoluzione dei modi relativi di datità: il mondo che per essenza in qualsiasi vita naturalmente fluente si dà come ovviamente essente, essente in una pienezza inesauribile di sempre nuove ovvietà, le quali tuttavia sono costantemente nell’evoluzione delle apparizioni e delle validità soggettive. Noi lo rendiamo ora conseguentemente tematico, in quanto terreno di tutti i nostri interessi, dei nostri progetti di vita, di cui le scienza teoretiche e obiettive costituiscono soltanto un gruppo particolare” (p. 181).

Qui e in nota sono stati toccati vari punti, di carattere psicologico, esistenziale, sociale.