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3.4 Presentazione delle storie

3.5.1 Riflessioni

In questa prima storia compaiono elementi peculiari e altri comuni ai successivi intervistati.

Innanzitutto è rilevabile una forte propensione nello «spendersi» in ambito lavorativo che si compie, però, in senso estremo, fino all'autosfruttamento. Il corpo, col quale l'interlocutore sovente si identifica durante il colloquio, toccando le gambe doloranti, il corpo che viene in aiuto alla produzione verbale quando essa è carente o incerta, è il corpo-macchina, le cui prestazioni sono scambiate nel mercato del lavoro, così come il capitale di salute di cui è portatore diventa produttività e profitto.

La forte identificazione col corpo, con questo tipo di corpo, segna proprio la dimensione dell'immigrato nella società di immigrazione: innanzitutto, per rimanere nel paese di immigrazione, necessita di un lavoro, presupposto essenziale per rinnovare il permesso di soggiorno. L'interlocutore non ha mai presentato domanda di acquisizione della cittadinanza italiana, ritenendo il procedimento troppo burocratico. Ha poi ricongiunto la moglie e hanno avuto un figlio: il benessere di tutta la famiglia dipende quindi dalla sua possibilità di sostentamento tramite il lavoro salariato.

L'uso del papavero da oppio, per anestetizzare le parti doloranti e logorate del corpo, consente il suo massimo sfruttamento ai fini produttivi. Le esigenze produttive, il doversi spendere massimamente in questo ambito, appaiono postulati che non possono essere messi in discussione. Gli aspetti della vita extra-lavorativa vengono sicuramente posposti e, comunque, sono intimamente dipendenti dalla vita lavorativa.

Queste forze esterne derivanti dal sistema produttivo con i suoi ritmi lunghi, le pause rarefatte o assenti, le posture che il corpo deve assumere e mantenere, la disponibilità ad arrivare velocemente come un messaggio al cellulare, sembrano incidere in modo coercitivo sulla persona intervistata, sulla sua intera condizione esistenziale, generando un vissuto di disistima, di sfiducia, di essere in balia di forze esterne la cui direzione non può più di tanto essere modificata.

Il papavero da oppio, assunto per via alimentare, appare la sostanza stupefacente più congeniale per reggere i lavori logoranti e debilitanti. Il principale costituente dell'oppio è infatti la morfina, che dona sollievo dal dolore. E' dunque l'anestetico per eccellenza. Gli effetti dell'oppio assunto per via alimentare insorgono dopo un certo intervallo di tempo, quando arriva nell'intestino tenue e, da qui, passa entro il flusso ematico. Seppure l'effetto non viene avvertito immediatamente dopo l'assunzione, la sua durata è più lunga se l'oppio viene mangiato piuttosto che fumato. Appare quindi in grado di calmierare gli effetti prodotti sul corpo da quelle mansioni lavorative più pesanti e logoranti, che si svolgono per lunghi intervalli temporali, che non conoscono sosta.

L'uso dell'oppio veicola però anche significati simbolici, come sopra visto, che non fanno che rafforzare questa nuova identità che l'immigrato viene a ridefinire nel paese di immigrazione, essenzialmente e principalmente come forza lavoro, collocata ai livelli più subalterni, nei lavori insalubri e faticosi dai quali è molto difficile affrancarsi. Disistima, sfiducia in se stessi, non sentirsi in grado di prendere decisioni ma subirle, la proiezione sul tempo presente mentre il futuro resta impensabile, connotano l'identità dell'immigrato nel paese di immigrazione.

L'identità in seno alla famiglia, i ruoli rivestiti in essa, le piccole felicità vissute in questo ambito, investite di significati emozionali, appaiono compromesse in forza delle scelte operate nello spendersi come forza lavoro. Si ricorda, a tal proposito, il pianto del figlio piccolo quando gli viene negato il giro con l'auto, simbolo di benessere e di emancipazione, per prendere un gelato.

Secondo Sayad la malattia ha l'effetto di svelare all'immigrato che esiste solo come forza lavoro e che la qualità stessa di persona, nel suo caso, è subordinata a quella di lavoratore. Questo, secondo Sayad, è il vero male dell'immigrazione che va compreso per capire come l'immigrato si relaziona alla propria malattia.

Per quanto riguarda l'intervistato, se ci soffermiamo solo sulla malattia, cioè il disturbo da uso di oppiacei, possiamo vedere come lo stesso la identifichi nei tre giorni seguenti la cessazione dell'assunzione della sostanza stupefacente, quando

avverte i crampi agli arti inferiori, descritti con una certa sorpresa. Sulla malattia, sulla sintomatologia che la caratterizza, l'intervistato però non si sofferma molto.

Se, invece della malattia, consideriamo la sofferenza, della quale parla Sayad, l'intervistato ne appare l'incarnazione vivente. Il corpo e l'anima si ammalano da super-lavoro, e la sofferenza che ne scaturisce insegue la persona anche fuori dall'azienda, insinuandosi in ogni ambito della sua vita, fino a comprendere tutta la sua condizione esistenziale.

Egli appare intrappolato in un imbuto nel quale non sono ravvisabili alternative da opporre ai fattori che lo portano a spendersi come forza lavoro, accettando anche l'assunzione di sostanza stupefacente come comportamento estremo. Sul piano lavorativo non è emersa una benché minima speranza di poter cambiare lavoro, mentre le necessità presenti e contingenti si fanno via via intense ed impellenti, tanto da rendere ardua la difesa del lavoro che si possiede. Il rischio di scivolare nuovamente nel consumo di oppiacei, quando si è schiacciati dagli imperativi della produzione in tempo reale, appare concreto, nonostante l'interlocutore abbia cercato soluzioni alternative all'assunzione degli stessi e abbia consapevolezza dei rischi rappresentati tanto dal super-lavoro, quanto dall'assunzione della sostanza stupefacente.

Il tempo extra-lavorativo è appiattito in poche attività, come se non vi fosse né spazio né energie per occuparsene, poiché risucchiato dal tempo lavorativo. Un tempo che non si è abituati a gestire. Il tempo futuro rimane impensabile, schiaccato com'è dal presente e dalle forze deterministiche che insistono su di esso.