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La rigenerazione urbana* in Europa – dalla città post- post-industriale alla città contemporanea

Nel documento MATERIALE DIDATTICO INTEGRATIVO (pagine 23-68)

La prima fase della Regeneration: Le aree industriali dismesse

l fenomeno delle aree industriali dismesse è emerso, negli anni Settanta, con chiara evidenza dapprima nei paesi maggiormente industrializzati, per tradizione come l'Inghilterra, la Francia, la Germania, gli Stati Uniti, venendo a significare un momento di grande transizione della società a partire dai suoi aspetti produttivi: si è passati dalla società industriale a quella post-industriale con una marcata accentuazione del settore terziario, creando i prodromi del processo detto appunto di terziarizzazione.

Le aree industriali dismesse testimoniano con la loro presenza/assenza la predominanza, a volte arrogante, dell'industria che, specialmente in città sviluppate sul modello fordista come Torino, aveva impostato, in base alle proprie esigenze, lo sviluppo urbano e l'immagine conseguente.

Mentre il processo di formazione di grandi e piccoli vuoti urbani aumentava sempre più la sua consistenza è "improvvisamente emersa nella coscienza collettiva la dimensione del fenomeno, il suo ritmo di crescita e la carenza di strumenti per affrontarlo, anche per effetto di alcuni casi emblematici divenuti argomento di discussione estesa ad un pubblico vasto e non specializzato. (Spaziante 1996)

L'attenzione esercitata anche sui non addetti ai lavori ha avuto un feed-back di interesse da parte di ricercatori ed operatori che ha prodotto fino alla fine degli anni Novanta molti studi, sia pure con il limite di una scarsa sistematizzazione.

La tendenza più esplicita da parte dell'operatore pubblico, convergente con la linea d'azione dei privati è stata quella di affrontare il riutilizzo delle aree dismesse legandolo al caso singolo e quindi in modo occasionale e casuale non sovrastato da una visione più ampia e preoccupata del fenomeno in via più generale.

Nel frattempo la situazione economica generale era divenuta molto avversa agli investimenti che negli anni Ottanta erano parsi il più naturale sbocco della trasformazione di aree urbane dismesse: gli investimenti nel settore edilizio, in particolare nel terziario.

II tema delle aree dismesse per le sue molteplici valenze ha intersecato le altre problematiche sulle quali si è appuntata l'attenzione degli urbanisti ma anche di sociologi, geografi, giuristi, ecc.

Inoltre, il problema del degrado nel quale versavano questi territori li ha resi protagonisti del tema della "riqualificazione urbana" anche se "è stato il cambiamento della società, il tipo di domanda che ha espresso e, soprattutto le condizioni oggettive del cambiamento socio-economico e demografico avvenuto che hanno di fatto portato alla scelta prioritaria della riqualificazione urbana in ogni paese d'Europa."(Gabrielli 1993)

La riqualificazione urbana è stata vista come l'occasione per ridisegnare e ridefinire parti rilevanti della città per riprogettarla insieme all'intera area metropolitana.

La dismissione industriale è stata affrontata in Europa soprattutto, inizialmente, dalle città capitale (Parigi e Londra) o città di importanza predominante all’interno della nazione di appartenenza (Barcellona), ma ha interessato anche intere regioni (Renania-Westfallia in Germania), le immagini che seguono sintetizzano i maggiori interventi che hanno interessato la Regeneration di queste città e della regione della RUUR in Germania.

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54 Lo Sviluppo sostenibile e la rigenerazione della città

Se il passaggio dalla città industriale densa e compatta, spesso caratterizzata da condizioni di scarsa vivibilità, ad una post-industriale infinitamente dilatata nello spazio e senza più – perlomeno apparentemente – alcuna relazione tra forma e funzioni, ha segnato le trasformazioni urbane del territorio europeo specie nel corso della seconda metà del Novecento, è grosso modo nello stesso periodo che hanno iniziato a manifestarsi i primi problemi legati ad un’eccessiva pressione delle attività umane sull’ambiente.

I processi di globalizzazione delle economie fanno delle città il centro di processi rapidi di cambiamento strutturale e le immergono in un accentuato clima competitivo.

Le città hanno attratto risorse umane e sviluppato posti di lavoro, riorganizzando le attività, produttive e residenziali, secondo modelli a scala territoriale ampia.

La rapidità del cambiamento strutturale impatta su ruoli urbani tradizionali consolidati, imponendo non facili riconversioni produttive.

Le riflessioni sull’opportunità di perseguire forme insediative più compatte subiscono un’accelerazione a seguito degli impegni globali assunti prima dalla World Commission on Environment and Development delle Nazioni Unite, nel 1987 (Rapporto Bruntland) e dopo l’incontro dei Capi di Stato e di Governo, in occasione della Conferenza di Rio de Janeiro sull’Ambiente tenutasi in Brasile nel 1992, tutta la società ha attribuito una maggiore importanza all’ambiente, ai suoi problemi ed al concetto di sviluppo sostenibile.

La pianificazione urbanistico/territoriale, già riconosciuta nella Agenda 21 come uno strumento di fondamentale rilevanza per promuovere uno sviluppo sostenibile (ONU, 1993), è stata ulteriormente rilanciata nella Conferenza Habitat II di Istanbul (ONU, 1996). Il processo di piano, quindi, è il momento nel quale si possono raccordare le istanze, gli obiettivi, i valori molteplici, eterogenei ed anche conflittuali. Il piano è lo strumento che può combinare le istanze della conservazione e dello sviluppo, ordinando l’insieme degli elementi che compongono l’ambiente naturale e costruito. In quest’ottica l’approccio della pianificazione per lo sviluppo sostenibile deve essere integrato.

Da almeno una quarantina d’anni la consapevolezza attorno ai limiti che la pressione esercitata dallo sviluppo umano sull’ambiente ha raggiunto e spesso superato si è

enormemente accresciuta. E non è certo la fin troppo citata definizione di sviluppo sostenibile del Rapporto Brundtland, redatto nel 1987 a completamento dei lavori della World Commission on Environment and Development, che ricordandoci le nostre responsabilità nei confronti delle generazioni future, pur senza rinunciare al diritto alla ricerca del benessere presente, ha reso più consapevole l’uomo dei suoi limiti.

In tempi più recenti il passaggio sempre più marcato dall’economia industriale a quella post-fordista ha reso la localizzazione urbana un fattore sempre meno strategico per le imprese.

Nei loro processi di de-verticalizzazione – ovvero esternalizzazione di funzioni ed attività di produzione in precedenza svolte internamente, con conseguente costruzione di reti interconnesse di attività – esse hanno trovato nella dispersione insediativa non pochi elementi di attrazione: aree a costi più ridotti, minore congestione urbana, disponibilità di mano d’opera grazie alla più o meno contemporanea dispersione residenziale.

In una buona parte di questi impatti negativi la dispersione urbana gioca un ruolo di rilievo ed i suoi devastanti effetti sono divenuti una costante della nostra vita quotidiana:

conversione irreversibile di suoli ad usi urbani in continua crescita, perdita di risorse agricole, ambientali e paesaggistiche, consumi energetici ed inquinamento alle stelle a causa, anche, di un traffico automobilistico ingovernabile.

Se guardiamo oggi ai principi ed alle pratiche più avanzate dello sviluppo urbano sostenibile, quasi sempre non ci troviamo di fronte a qualche cosa di veramente nuovo, che non sia già stato detto e talvolta praticato. Ad esempio l’unità di vicinato di Clarence Perry reinterpretata

55 dalla corrente New Urbanism negli USA, o ancora la forma base dell’esance del piano ottocentesco per Barcellona di Ildefonso Cerdà (isolati aperti), infine la stessa Garden City che mirava a fondere in modo equilibrato città e campagna potrebbe essere oggi più modernamente interpretata come una soluzione verso la sostenibilità grazie ad una ricerca di equilibrio tra economia ed ambiente. Dunque le teorie che nel corso del Novecento hanno prodotto significativi risultati sia sotto il profilo disciplinare che, talvolta, delle pratiche progettuali, hanno certamente contribuito a porre le fondamenta per la visione e costruzione di una città maggiormente sostenibile.

La “sostenibilità” ha forse avuto il merito di contribuire a divulgare maggiormente il ruolo e l’importanza dell’urbanistica – disciplina spesso considerata lontana dai cittadini ancorché essa si occupi (o dovrebbe occuparsi) di molti degli aspetti che incidono quotidianamente sulla loro qualità della vita – esplicitando i suoi obiettivi in una dimensione più percepibile per le persone e che coinvolge, per il loro raggiungimento, i singoli comportamenti umani.

Quegli stessi comportamenti la cui somma genera i tanti problemi legati al raggiungimento di una maggiore qualità della vita che l’urbanistica si prefigge di ottenere attraverso una migliore organizzazione dello spazio. Così dovremmo sempre ricordare la lezione di Lynch:

Ё necessario imparare ciò che è desiderabile quanto studiare ciò che è possibile: agire senza scopo può essere inutile quanto l’idealismo senza potere. Persino la gamma delle cose possibili può essere estesa da una maggiore conoscenza di ciò che è desiderabile.

Oppure il lavoro di Jane Jacobs, riassunto nel suo The Death and Life of Great American Cities, un inno alla città spontanea, densa e compatta, ricca di funzioni e di diversità. Nel libro si analizza e descrive cosa effettivamente fa funzionare i quartieri urbani e come le pratiche del moderno city building tendano in sostanza a cancellare ciò che li fa vivere, riducendone la capacità di uso pedonale, i contatti di vicinato e l’economia di quartiere fondata su mille piccole diverse attività.

Il suo lavoro è stato di grande importanza in quanto ha contribuito allo sviluppo della ricerca nell’environmental design – nel cui ambito si è cercato di comprendere come effettivamente le persone usino gli edifici, le strade ed i quartieri della città – al fine di poter sviluppare un tipo di progettazione in grado di superare la schematicità di semplici criteri architettonici.

Certamente poi il suo lavoro è stata fonte di ispirazione per il movimento americano del New Urbanism ed è stato recentemente rivalutato nel dibattito fra città compatta e città diffusa e dispersa.

La convinzione, a livello accademico ed istituzionale, che si è andata affermando è che certamente il modello della città dispersa non rappresenta una soluzione di sviluppo sostenibile.

In Europa, una chiara posizione istituzionale – ancorché non da tutti condivisa – è stata assunta dall’Unione Europea, che si è apertamente dichiarata a favore della città compatta e del rafforzamento dello sviluppo policentrico. Così lo sviluppo urbano sostenibile e la progettazione urbana sostenibile sono divenuti nel corso degli anni Novanta temi chiave della pianificazione urbanistica e parte integrante, talvolta un pochino ridondante e ripetitiva, del suo lessico. Le politiche e le pratiche poste in essere a seguito di una maggiore consapevolezza dei guasti prodotti dallo sviluppo in termini di disuguaglianze economiche, sociali ed ambientali – originate dalla presa di coscienza istituzionale innescata del citato Rapporto Brundtland – si collocano forse per la prima volta nell’ambito di un punto di vista unificante e (relativamente) nuovo per affrontare problemi in qualche modo vecchi.

La rigenerazione urbana per l’Europa: le carte urbane

La nuova definizione degli interventi di rigenerazione urbana è frutto di una riflessione culturale in linea con il concetto di qualità urbana espresso dall’Unione Europea, concetto strettamente connesso alla sostenibilità, nelle sue tre principali accezioni: ambientale,

56 sociale ed economica. Ci troviamo di fronte al formarsi di una base culturale europea sul tema della qualità urbana. Infatti i tratti generali presenti nei documenti prodotti negli ultimi anni dall’Unione Europea possono essere sintetizzati nel crescente riconoscimento del ruolo cruciale che rivestono le politiche urbane per affrontare le sfide che l’Europa ha di fronte in campo ambientale, economico e sociale; nell’abbinamento del concetto di qualità urbana a quello di sostenibilità (di nuovo ambientale economica e sociale); nella necessità di approcci integrati e olistici, e quindi nei principi di integrazione alla base delle politiche urbane per il perseguimento degli obiettivi di qualità e sostenibilità.

Si tratta di un’evoluzione concettuale costruita in varie tappe che hanno nelle carte urbane europee un percorso culturale non secondario che dovrebbe essere meglio considerato in Italia. È un percorso ormai lungo, che va dalla danese prima Carta di Aalborg sulle città europee verso la sostenibilità del 1994, all’Accordo di Bristol del 2005 sulle comunità sostenibili in Europa che fissava le otto caratteristiche che devono possedere le comunità sostenibili (attive, inclusive e sicure; ben gestite; ben connesse; ben servite; sensibili all’ambiente; prospere; giuste); alla carta di Lipsia, elaborata sotto la presidenza tedesca nel maggio 2007 dall’assemblea dei ministri dei vari stati dell’Unione competenti sulle aree urbane, che impegna all’implementazione di politiche per la sostenibilità dell’ambiente urbano, puntando in particolare su due aspetti: approcci integrati nelle politiche di sviluppo urbano e necessità di porre particolare attenzione alla riqualificazione delle aree urbane svantaggiate. Il percorso è continuato con la Dichiarazione di Marsiglia del 2008 sulle città sostenibili e coese, che riprende i concetti di sviluppo urbano integrato e sostenibile, riconoscendo, tra l’altro, il ruolo chiave dell’architettura e della qualità urbana nelle politiche integrate di sviluppo sostenibile; l’attenzione al cambiamento climatico nelle politiche urbane, anche perché si riconosce che il 69% delle emissioni di gas serra proviene dalle città.

A oggi l’ultima tappa è la Dichiarazione di Toledo del 2010 che esprime la necessità per le aree urbane europee di affrontare e approfondire la Strategia Europa 2020 per una crescita sostenibile, inclusiva e intelligente. La dichiarazione di Toledo chiama le politiche urbane delle città e degli Stati membri a supportare il processo di Marsiglia e a implementare i principi della Carta di Lipsia, anche attraverso la creazione di un References framework for european sustainable cities (RFSC), da costruire attraverso un processo aperto e collettivo che deve essere inteso come uno strumento generale, adattabile e non vincolante per le politiche urbane fondate sui principi della sostenibilità. Inoltre, si sottolinea il bisogno di consolidare un’agenda urbana europea che rafforzi la dimensione della rigenerazione urbana nelle politiche di coesione, supporti una maggiore coerenza tra le agende territoriali e quelle urbane, continui a promuovere la ricerca, gli studi comparativi e lo scambio di dati, la condivisione di best practices e la diffusione di conoscenze sui temi urbani, promuovendo lo sviluppo urbano sostenibile e gli approcci integrati; e infine spinga verso una maggiore attenzione alle sfide che le aree urbane dovranno affrontare nel futuro: il cambiamento climatico e l’impatto dei cambiamenti demografici. Tra le nazioni più attive in Europa verso le politiche ambientali e di rigenerazione urbana si segnalano Germania, Svezia, Finlandia, Olanda, che per prime hanno avviato politiche e programmi, e di seguito si propongono tre

“Eco-quartieri” che rappresentano casi di “best practices” europei.

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Ecoquartiere: "GWL-terrain" (Amsterdam)

GWL-terrain rappresenta un caso importante di trasformazione e riqualificazione di un’area urbana dismessa, utilizzata precedentemente come sede della Compagnia Municipale dell’Acqua. Il progetto del nuovo isolato GWL è integrato nel programma di recupero urbano di Amsterdam lanciato alla fine degli anni ’80, in concomitanza all’aumento della popolazione della capitale seguita al trasferimento di aziende nell’area cittadina e la crescita della presenza studentesca. Il nuovo isolato GWL, è composto da 600 unità residenziali e da alcune attività terziarie. Il sito è contiguo al capolinea del percorso tranviario del Westerpark, che consente un facile collegamento alla rete di mobilità pubblica, e si trova sulla strada per Haarlem. Il consorzio dei costruttori che ha appoggiato il recupero dell’area voleva conciliare “un edificato a alta densità con il desiderio degli abitanti di vivere nel verde.

Inoltre il car-free contribuisce in modo significativo a farlo distinguere per le sue caratteristiche di unicità e sostenibilità.

Fig.1 e 2 - L’area di intervento prima e dopo la trasformazione

Aspetti qualitativi e descrittivi

L’obiettivo del progetto, stabilito fin dalla prima fase dei lavori (1989-1993) per la riqualificazione dell’area dismessa della Compagnia Municipale dell’Acqua di Amsterdam, non era solo quello di creare un’area residenziale, ma la costruzione di un “eco-distretto”. Il progetto non è stato inteso solo in termini di recupero funzionale, ma in termini di sostenibilità ambientale, sociale ed economica, ristabilendo allo stesso tempo la continuità e dialogo tra questo intervento e il tradizionale tessuto urbano del diciannovesimo secolo.

Il quartiere è stato concepito in relazione ai dettami del Programma urbanistico “SPvE” che stabiliva i requisiti che dovessero avere i materiali, gli edifici e il quartiere stesso in termini di sostenibilità ambientale, con particolare riferimento al:

- Riduzione del consumo di acqua e di energia;

- Quartiere car free;

- Materiali ecocompatibili per le costruzioni considerando l’intero ciclo di vita del materiale stesso,

- Progetto di un centro ambientale per la raccolta differenziata (mai realizzato)

Inoltre il quartiere è ad alta densità (600 abitazioni/6 ettari), per consentire un minore consumo di suolo con la possibilità di garantire una superficie per aree verdi maggiore.

L’attenzione per l’aspetto ecologico è evidente anche nella cura per l’orientamento solare delle abitazioni, nella raccolta e riciclaggio dell’acqua piovana, nell’impianto combinato per il calore e l’elettricità destinato a risparmiare energia, nel sistema sotterraneo per la raccolta

58 differenziata dei rifiuti ed infine nella scelta di realizzare un quartiere privo internamente di posteggi per auto.

Il nuovo isolato è molto diverso da quelli che lo circondano che sono a corte chiusa; più della metà delle abitazioni sono contenute in un lungo edificio, da quattro a nove piani, che si allunga sul lato ovest, proteggendo l’insediamento dai venti dominanti e dividendolo dalle aree industriali ancora presenti, mentre verso nord un edificio di nove piani protegge dall’inquinamento acustico della via per Haarlem. Gli altri edifici sono di massimo cinque piani e si dispongono su un asse est-ovest per favorire il guadagno passivo di energia solare. Il quartiere, sui lati nord e nord ovest è delimitato da edifici di grandi dimensioni, che fungono da barriera per il vento ed i rumori. Gli edifici della parte centrale del lotto sono esposti tutti verso sud, e le facciate con tale esposizione presentano finestre di dimensioni rispetto a quelle della facciata nord.

Fig.3 e 4 – Assi di impianto e destinazioni d’uso

La costruzione del distretto è stata avviata nel 1994, per svolgersi successivamente in tre fasi e concludersi dieci anni dopo. Per primo è stato realizzato il blocco residenziale progettato da DKV: 130 alloggi in 20 tipologie differenti in un complesso “a forma di serpente” ed altezza variabile dai 5 ai 9 piani, i primi cinque dei quali raggiungibili attraverso portici esterni. Il secondo grande complesso edificato, quello che disegna la parte perimetrale angolare dell’area, progettato da Neutelings Riedijk, è composto per lo più da appartamenti di proprietà. Nella terza fase di progetto, sono stati riqualificati alcuni degli edifici preesistenti, localizzando in essi le destinazioni collettive. Quattordici sono i blocchi residenziali di minore estensione che costellano la planimetria del sito e conservano, nelle differenze di conformazione tipologica, la somiglianza ed omogeneità attribuite loro dal rosso mattone olandese.

Il quartiere non prevede la presenza di soli alloggi, ma anche altri servizi necessari per la comunità – e la pluralità tipologica delle residenze e delle forme di fruizione delle stesse corrispondono alle esigenze di un sistema sociale complesso, misto e diversificato. Il programma ha stabilito, infatti, questa suddivisione: 150 alloggi a libero mercato, 350 di social housing, 300 in affitto a canone agevolato e 150 in vendita a prezzi calmierati.

L’area di progetto è divisa in due da un canale. La zona più popolata è quella a nord e si sviluppa attorno a due piazze: su una affacciano, sul lato nord e ovest, i giardini degli alloggi e sull’altra affacciano i negozi ricavati all’interno degli ex edifici industriali, così come in negozi si sono trasformati la vecchia torre dell’acqua e due ex edifici industriali. Il grande

59 edificio recuperato situato lungo il canale interno ospita uno studio televisivo e alcuni caffè/ristorante.

Fig.5 e 6 – Il canale centrale e l’edificio “a serpente”

Fig.7 e 8 vista assonometrica e immagine satellitare del quartiere

A sud del canale si dispongono, invece, le case isolate, tutte con giardino privato. In questa zona dell’intervento gli edifici in prossimità della strada ospitano attività come atelier, un asilo, uffici e un circolo creativo. Gli alloggi sono di diverse metrature, questo per garantire la presenza di diversi nuclei familiari, con una particolare attenzione nei confronti delle famiglie al cui interno vi sono componenti disabili.

Per sfruttare i vantaggi della compattezza gli edifici dispongono di un unico gruppo scale per cui l’accesso ai singoli appartamenti è garantito dai ballatoi. Questi in alcuni casi si allargano per fungere da terrazzo. Tutti gli edifici, compreso l’edificio alto, al piano terreno presentano dei giardini in parte a uso collettivo dei residenti e in parte a uso privato degli appartamenti al piano terreno.

La percorrenza automobilistica è permessa solo lungo il perimetro del lotto, mentre quella

La percorrenza automobilistica è permessa solo lungo il perimetro del lotto, mentre quella

Nel documento MATERIALE DIDATTICO INTEGRATIVO (pagine 23-68)

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