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rimaneggiato nel periodo trascorso a Millesimo, forse con l’intento di vederlo pubblicato 12 Dal suo arresto, avvenuto nel luglio 1945, alla conversione della

pena in ergastolo nel 1947, Contini era in attesa di essere fucilato, logorato

dall’inconcombenza della morte. I protagonisti della narrazione erano tre

fascisti, catturati dai partigiani, processati e condannati alla pena capitale:

Enrico Biddau (psuedononimo dell’autore), Marcello Caviglia e Paolo Zangani

(nome fittizio dietro cui si celava Romeo Zambianchi, tristemente noto per le

vicende legate al “boia di Albenga”). I tre personaggi, chiusi in una «cella di

punizione» in cui «in due ci si stava piuttosto stretti», avevano incrociato i loro

destini tra le mura di un carcere. Il racconto di Contini sembra essere il

rovescio della medaglia del ben più famoso Il muro, pubblicato da Jean-Paul

Sartre nel 1939 in Francia e tradotto nel 1947 in Italia da Einaudi. In Sartre i

condannati a morte erano tre antifascisti, oppositori del regime totalitario

franchista durante la guerra civile spagnola; in Contini invece i tre reclusi erano

fascisti, ultimi rappresentanti di un regime dittatoriale ormai decaduto. Per

ironia della sorte anche un personaggio di Contini, Paolo, aveva lo stesso nome

del protagonista de Il muro, Pablo Ibbieta. Vista da due prospettive poste agli

antipodi la morte era la stessa, e uguale la riflessione sulla vita. Scriveva Sartre:

«qualche ora o qualche anno d’attesa è assolutamente la stessa cosa, una volta

che si è perduto l’illusione d’essere eterni. Non temevo più niente»; e Contini

dopo la fucilazione di Paolo affermava: «Ormai non lo temevo più… […] Che

però non è facile dimenticare, anche se si sarà costretti a vivere…».

L’inevitabilità della morte, promessa non mantenuta per i due protagonisti

Enrico e Pablo era toccata invece – e anche in questo caso le affinità tra i due

racconti sono evidenti – a uno dei loro compagni: è la morte la vera

protagonista della narrazione, che aleggia per tutta la durata della storia e dalla

quale rinasce la vita. Enrico, come Pablo, rifletteva sull’insensatezza

dell’esistenza ed è proprio in quel momento che, istintivamente, continuava ad

aggrapparsi alla vita: «Ed in quel punto, io ero solo contento di rimanere e di

vivere»:

                     

12 Il lungo racconto, quasi un romanzo breve, è stato pubblicato postumo nel volume Ennio Contini, Racconti, cit., pp. 67-177.

Chiusero la porta, lo sportellino: le tenebre annullarono il mio corpo. E dopo il brusio, il vociare di prima, nel cortile fu il silenzio, assoluto: un vuoto che mi colmò tutto. E subito mi dissi: «È partito un uomo, un fratello...». Un vuoto che annullava i muscoli, il sangue, le ossa, ma non il pensiero, non la voce penetrante della coscienza. Cercai di confondere questa voce, abbandonandomi disperatamente alle cose reali, al mondo che già mi veniva incontro con tutte le sue bellezze e con tutte le sue miserie, al solco profondo e sanguigno lasciatomi ai polsi dalle manette. Inutilmente. Ed ecco, non appena mi capitò di sollevare lo sguardo al pancaccio, apparire il volto di Paolo: pallido e illuminato dal sorriso triste che lo aveva accompagnato oltre la porta. E allora il cuore impazzì e martellò contro le costole, su nella gola: un cuore pazzo e triste. E mi si palesò per intero la mia sostanza miserabile, l’effimera sostanza della mia argilla, e, dentro, qualcosa prese a lacerarmi, a dilaniarmi l’anima: il rimorso di non aver saputo adoperarmi sinceramente e tangibilmente per un uomo innocente, per il soldatino ch’era andato a scontare gli errori degli altri.

La cella ormai non era che un pozzo posseduto dal silenzio e dalle tenebre, eppure dovetti tenere le palpebre abbassate, aggiungere tenebra a tenebre, per non impazzire, per non vedere il volto pallido di Paolo galleggiare sull’invisibile pancaccio. E rimanere fermo anche, immoto, per non scontrarmi con lui; e neppure ardivo accendere la sigaretta; a ciò costretto da quella gioia maligna ch’è la gioia dei sopravvissuti; la gioia che si spinge verso l'incoscienza e ci propone («se vuoi vivere, se vuoi godere la vita»), di far saltare i ponti che ci legano al passato, di sottrarci alle braccia mortificanti di quel fantasma che ha nome Morale […]. E si è come pazzi allora: il cuore martella contro le costole e si ha nausea di noi stessi, proprio come quando s’è goduto il piacere d’una debole donna, di una donna che non è nostra; o si ha gioia per un’esistenza che più non merita d’essere vissuta. Ma questa gioia c’era, anzi ingrandiva: la stessa gioia che si prova alle partenze, ch’è un misto di lacrime per ciò che si lascia e di sfrenato desiderio di nuovi orizzonti, ma ch’è pur sempre tormento. E, per questa gioia, le tenebre mi diventavano amiche calde, e spezzavano la tensione ch’era in me, dandomi nel contempo il sentimento d’essere ormai in alto mare… Sì, io vivevo nella città ch’era stata la mia culla e non mi riusciva più di decifrare il suo linguaggio. Il giorno della mia condanna, io avevo parlato una lingua, e loro, i miei concittadini, ne avevano parlato un’altra: troppo repentina ed illogica, pensai, era stata la frattura fra me e loro […]. Ed ecco, m’invase, e proseguì, incenerendo ogni mia riposta cellula, il dolore lancinante dell’esilio: «Oh sì, sono un deraciné...» pensai «E l’unico che potesse comprendere il mio linguaggio è morto, ed era un vagabondo... Come me, del resto: sì, come lo sarò io da questo momento». Respirai profondamente, quasi mi fossi dovuto preparare ad una lotta tremenda o a sopportare il peso d’un destino eccessivo. E come aprii gli occhi vidi, bianco e tondo come una luna di settembre, il volto di Paolo, le

palpebre abbassate, morto. Pallido e morto come una luna di settembre quando ancora non s’è spenta del tutto all’alba, e dalle brughiere, dai boschi di castagni, s’alza il fischio di richiamo dei cacciatori. E non riabbassai gli occhi: ormai non lo temevo più: «era una cosa morta... Che però, non è facile dimenticare» pensai «anche se si sarà costretti a vivere... anche se riusciremo, condotti dal caso o dalla debolezza dei vincitori, a risalire l’aspro pendio che mena allo squallido altipiano della vita»13.

Amore, mistero, morte e rinascita ma anche ironia si alternano nei racconti di Ennio