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Senza queste premesse credo sia difficile entrare nel merito di un’analisi rivolta a identificare le modalità di rappresentazione attuate da De Amicis per costruire in

Impressioni l’immagine della città eterna; presupposti fondamentali per individuare il

senso ultimo della natura impressa dall’autore ad un racconto odeporico su Roma che costituisce anzitutto un tentativo personale effettuato dallo scrittore per investigare la realtà di una città tanto significativa per l’immaginario comune degli italiani; uno

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spazio da dover ritrarre in relazione ad un evento storico decisivo per il futuro della

città eterna come dell’Italia intera.

Certo, se dovessimo considerare le numerose testimonianze pervenuteci attraverso le penne dei molti reporter presenti come De Amicis al momento dei fati, potremmo ancora discutere sull’effettivo valore dell’azione bellica che si svolse sotto e dentro le mura della città di Roma; in questo senso basterebbe solo considerare i toni pacati sulle vicende espressi ad esempio da un altro patriota presente, ovvero quel garibaldino Giuseppe Guerzoni che ci narra i medesimi fatti relativi a quel 20 settembre con uno sguardo invero completamente differente rispetto a quello proposto dal nostro De Amicis, soprattutto con valutazioni e significati che con l’epopea deamicisiana non hanno nulla a che fare: «L’impresa che ci schiuse le porte di Roma non ebbe di militare che le fatiche, lo spettacolo e il clamore: nulli i pericoli, minimi i danni, adeguata la gloria»172. Senza entrare nel merito di una riflessione storiografica mirata a riflettere sulla natura e sul carattere di un’impresa, che senza dubbio ci apparirebbe più diplomatica che militare, nondimeno ciò che sembra essere indiscutibile è l’entità di un fenomeno, l’“entrata” italiana a Roma, che ha saputo agire come un vero e proprio spartiacque sia per quanto riguarda la storia della città stessa che, in senso più generale, in seno a quella politica, culturale e sociale dell’intera penisola173

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Il fatto è che quel 20 settembre del 1870, la breccia aperta a cannonate nelle mura pontificie ha prodotto qualcosa in più che il semplice dato storico che noi tutti riconosciamo e ricordiamo nei libri di storia; quel giorno avvenne soprattutto un’«apertura simbolica»174

attraverso la quale ha avuto luogo il primo contatto tra due

172 G. Guerzoni, L’ultima spedizione di Roma, op.cit., p. 581.

173 In relazione alla portata epocale che si deve riconoscere ai fatti del 20 settembre 1870, Bonomi, racchiudendo

l’intero significato dell’evento relativo alla “breccia”, scrive: «Militarmente un piccolo evento […] Politicamente, invece, l’episodio raggiungeva i culmini della storia: chiudeva un’epoca e ne dischiudeva un’altra». P Bonomi, La

politica italiana da Porta Pia a Vittorio Veneto (1870-!918), Torino 1944, p.5.

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mondi per molti aspetti simili ma allo stesso tempo profondamente distanti tra loro, per storia e tradizioni: il Regno d’Italia e lo Stato Pontificio; un fenomeno per tutti ovvio, dato spesso per scontato anche dai libri di storia che ricordano la breccia del 20 settembre, ma in realtà poco investigato nei suoi significati e nelle sue implicazioni più intime.

Ecco perché le numerose “voci” pervenuteci da quanti furono presenti agli eventi come il nostro De Amicis, naturalmente considerandone l’eterogeneità dei sentimenti espressi e dei punti di vista impressi a seconda della fazione di appartenenza175, rappresentano in prima istanza testimonianze vive e appassionate su un evento sul quale fin troppo spesso ci sfugge l’importanza che ha rivestito per la storia e la politica, sociale e culturale, dell’Italia unita. La ricchezza dei dati e delle informazioni “di prima mano” che queste tipologie di testimonianze contengono, insieme ai toni appassionati e partecipi dei loro autori, aggiungono, al valore documentaristico che gli possiamo (con le dovute cautele, certo) attribuire, quello – a mio avviso ancora più importante – di fonte diretta sui fatti avvenuti. Vere e proprie testimonianze “del momento” dunque, all’interno delle quali in primis è custodito tutto il senso di novità e unicità connesso a quella stessa “apertura” accompagnata dai sospiri, positivi o negativi che fossero, di quei contemporanei che ne intesero perfettamente tutta la portata epocale: e mentre Roma libera e il suo popolo si aprivano finalmente a tutti quegli italiani che erano sempre stati avvertiti – e del resto

175 Per comprendere l’eterogeneità dei sentimenti, spesso anche antitetici fra loro, risulta utile fare riferimento alla

diversa denominazione con cui la storiografia dell’epoca, ma anche le testimonianze dirette dei testimoni, diede alle due fazioni contrapposte, e dietro la quale si celavano naturalmente quelle precise identità politiche impegnate a dare un valore negativo o positivo a quella “apertura simbolica”: Italiani e Romani è forse l’accezione più neutra che si ritrova all’interno delle diverse fonti, alla quale si contrappongono, da un lato, liberatori e liberati, frutto del pensiero politico liberale di coloro che erano giunti a Roma per conquistarla, e, dall’altro, invasori e invasi, espressione tipica di quella propaganda pontificia che puntava ad enfatizzare l’idea di usurpazione perpetrata ai danni dello Stato Pontificio, del Pontefice, e del suo popolo.

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si erano sempre sentiti! – stranieri tra le sue mura176, i cittadini della penisola, dal canto loro e una volta per tutte, potevano abbracciare quella città tanto sognata e desiderata, verso la quale riponevano molte delle speranze per il futuro regno intero: una città che quel 20 settembre fremevano solo di conoscere in maniera concreta e effettiva.

De Amicis tra i tanti reporter di parte “italiana” presenti – perché come ovvio v’erano alcuni di parte pontificia e quindi ostili all’idea di una Roma italiana – si colloca forse come uno dei cantori più entusiasti nei confronti dell’avvenuta liberazione della città

eterna; non solo, attraverso le sue prose ha chiaramente mostrato non solo di voler

cogliere ma di saper rappresentare in pieno il valore di quell’apertura simbolica, tentando di offrire al pubblico da casa, per mezzo della sua scrittura, un’immagine intensa e appassionata dei primissimi momenti riferiti proprio a quell’incontro avvenuto tra due mondi, due popoli e due culture così diversi e al contempo profondamente simili tra loro, quello subalpino-piemontese, “italiano” in generale, da un lato e quello pontificio dall’altro.

A questa precisa prerogativa, che nel testo deamicisiano si traduce in una tensione apologetica sempre tesa a celebrare le dinamiche e i significati riconducibili a questo inedito quanto insolito incontro, il giovane Edmondo associa un’ulteriore consapevolezza narrativa, quella di dover descrivere e rappresentare – e forse per la prima volta nell’ambito della tradizione “di viaggio” – la città eterna ad un pubblico di massa, tutto italiano, per il quale Roma aveva le forme di città “nota” e “ignota”

176 Il fatto che gli italiani si sentissero stranieri a Roma, seppure professando la medesima religione e parlando la stessa

lingua, è un fatto che ai nostri occhi potrebbe risultare alquanto eccessivo. Eppure gli italiani che si recavano a Roma quando ancora vi era lo Stato Pontificio, erano soggetti, alla stregua di qualsiasi altro viaggiatore d’oltralpe, a rispettare la rigida burocrazia vigente tra i diversi stati: se ai passaporti da richiedere al proprio ambasciatore, da mostrare alla frontiera e poi in ogni controllo interno alla città deciso autonomamente dalle autorità locali, uniamo quei bollettini di sanità da mostrare alla dogana, e dove la perquisizione non si limitava alla persona ma anche alle merci e al bagaglio, uniti ai dazi e gabelle che si dovevano pagare per il passaggio, comprendiamo bene fino a che punto un cittadino della nostra penisola si dovesse sentire veramente straniero a Roma.

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insieme. Queste, in sostanza, costituiscono le basi di una scrittura deamicisiana che sembra svilupparsi all’interno di un racconto odeporico la cui diegesi viene dispiegandosi, talvolta fin troppo chiaramente, su due aspetti e necessità essenziali: da un lato l’esaltazione dell’idea di una “conquista” che viene narrata attraverso toni epici e trionfalistici con il solo obiettivo di ricreare nel complesso, celebrandola, il senso di una vittoria tanto grande e attesa quanto insperata; dall’altro, la “frenesia conoscitiva” che muove l’animo di quei soldati deamicisiani all’interno del tessuto urbano della città non appena varcata la breccia e abbandonate le armi.

Una caratteristica e comprensibile «ansia dell’esplorazione»177 che da sempre contraddistingueva l’atteggiamento dei viaggiatori che giungevano a Roma e che, ora, con grande meraviglia e piacevolezza riscontriamo persino nel comportamento di questi nostri semplici e umili soldati italiani: un’“ansia” provocata loro dal contrasto in atto nella loro mente tra l’immaginario che possedevano sulla città eterna, seppure molto semplice, e lo spazio reale di una città che si apriva loro per la prima volta, preparandosi ad essere vissuta e conosciuta praticamente sotto ogni aspetto. Approfondendo poi questo particolare stato d’animo che sembrava impossessarsi di qualunque visitatore giunto in città, quel 20 settembre, a De Amicis e ai soldati italiani, la città eterna si presentava come un luogo ai loro occhi finalmente reale ma, insieme, profondamente sconosciuto nella sua concretezza: una città che poteva certamente meravigliare – e lo farà di sicuro! – per le sue numerose bellezze e risorse artistiche ma anche deludere per la fatiscenza inaspettata di alcune sue zone meno note e celebri; una metropoli talmente unica e straordinaria che era in grado, nel bene o nel male, di assicurare ai viaggiatori ricche e profonde emozioni, fascinazioni e turbamenti.

177 Con questo termine ci si riferisce al naturale spaesamento che i soldati italiani, come del resto tutti coloro che

giunsero in città subito dopo il 1870 dal resto della penisola, provarono nel momento del primo impatto con Roma e durante la visita alla città eterna: città nota e ignota insieme, conosciuta sulla scorta di un immaginario collettivo definito da secoli ma al contempo sconosciuta nelle sue specificità di città reale ed effettiva. Cfr. F. Bartoccini, Roma nell’Ottocento, Vol.II, op.cit., pp.413 e sgg.

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Roma, dunque, come città “ideale” e “reale” insieme, rappresenta quel dato oggettivo fondamentale che dobbiamo necessariamente e preventivamente rilevare, senza il quale non ci sarebbe consentito di individuare sia il senso ultimo del racconto deamicisiano, sia il valore da attribuire alla personale rappresentazione che l’autore ci offre su una città che si prestava ad essere visitata e conosciuta da una massa inconsueta di visitatori, tanto nella sua tradizionale veste di “museo a cielo aperto”, quanto in relazione a quel nuovo ruolo di capitale del regno che avrebbe, di lì a poco, assunto. È proprio all’interno di questa duplice prospettiva che De Amicis, fra i numerosi reporter presenti, saprà distinguersi senza dubbio come l’inviato speciale più abile e attento per descrivere e rappresentare al grande pubblico la città eterna in quei giorni di settembre del 1870, prima intuendo, e poi facendo propria, la natura intima di una città che, Roma, che costituiva un autentico mitologema naturale; forse l’unico autore che in quei giorni è arrivato ad utilizzarne miti, simboli e luoghi comuni, per le proprie finalità narrative.

Per questo ciò che sorprende il lettore impegnato a sfogliare le pagine di Impressioni, è su tutti quel preciso senso di freschezza e leggerezza che De Amicis stesso è riuscito a infondere all’interno del proprio racconto romano: in seno ad una già ricca e multiforme tradizione odeporica su Roma, la vera illuminazione del nostro giovane Edmondo si rivela nella specifica capacità di aver saputo elaborare e quindi stendere un personalissimo racconto di viaggio sulla città pontificia che fosse in grado di puntare l’attenzione soprattutto sul fattore “novità” costituito dall’inedita presenza a Roma dell’esercito italiano e dei suoi soldati come visitatori inusuali per la città; su questa intuizione l’autore ha concentrarvi poi l’intera narrazione. Un fattore specifico, questo, che da solo indica tutta l’originalità e l’unicità che possiamo attribuire alla prosa del nostro scrittore: nei confronti di una secolare tradizione odeporica romana, costituita da relazioni, diari di viaggio o vojage pittoresque, sempre frutti delle esperienze personali di singoli viaggiatori, De Amicis, al contrario, allestisce la propria narrativa calibrando il punto di vista del proprio

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racconto romano sull’occhio collettivo di più visitatori insieme, ovvero quei soldati italiani che freneticamente e per la prima volta avevano la possibilità di visitare la

città eterna. Si tratta di una determinata prospettiva narrativa che permetterà al nostro

autore di dare alla rappresentazione della visita compiuta dai soldati all’interno di Roma, un taglio fresco perché inconsueto, nel contempo riuscendo a rendere il pubblico dei suoi lettori perfettamente partecipe del senso di quella graduale “scoperta” della città fatta dagli stessi soldati; una città la cui rappresentazione risentirà efficacemente dello “sguardo collettivo” impresso dall’autore per la sua descrizione e raffigurazione.

Questo, tuttavia, non significa che Impressioni sia privo di una prospettiva soggettiva dell’autore: essa in realtà trova il modo di esprimersi compiutamente in quelle numerose reazioni emotive che la vista e l’ammirazione dei magnifici monumenti di Roma suscita anche nell’animo dell nostro De Amicis; del resto l’autore stesso sembra non è immune neppure alle scene più emozionanti viste e vissute come protagonista e testimone in mezzo al popolo romano in festa e ai soldati italiani esultanti. Piuttosto potremmo dire come nel complesso l’aspetto soggettivo del nostro

traveller sembri, per gran parte del racconto, quasi sacrificarsi per immergersi e

combinarsi all’interno di una dimensione corale più ampia che unisce soldati, popolo di Roma, pubblico da casa e De Amicis stesso. D'altronde è lo scrittore in prima persona a suggerire questa singolare e originale prospettiva impressa alla propria relazione, quando, nel descriversi una delle primissime scene alle quali assistette sotto la grande cupola michelangiolesca, definisce chiaramente la natura unica di un racconto di viaggio che saprà svilupparsi sul carattere e le aspettative di una tipologia di viaggiatore senza alcun dubbio inedito per la tradizione odeporica riferita alla città

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non è fatto cenno, credo né dalle guide, né dai libri archeologici, né dalle opere artistiche»178.

È con questa frase che De Amicis designa d’un colpo una nuova categoria di viaggio e viaggiatori per la propria relazione: agendo lontano dai modelli e dalle figure tipiche della tradizione odeporica romana, fosse il Grand Tour con i suoi tuoristes amanti della classicità, il viaggio religioso dei pellegrini verso il centro della cattolicità, o anche il viaggio politico di quei principi e ambasciatori diretti a Roma «vero teatro di tutto il mondo», il nostro scrittore punta con fermezza il focus della sua personale narrazione direttamente sulla tipologia di un visitatore che è in tutto estraneo tanto dalla figura quanto dagli scopi e finalità che identificavano il tradizionale “viaggiatore romano”. Esagerando potremmo azzardare affermando come il viaggiatore deamicisiano non goda neppure di una sua specifica fisionomia; un’affermazione ironica che serve a rilevare quanto in realtà in quella generica specificazione di “bersagliere”, De Amicis abbia voluto volontariamente allontanare il suo visitatore dalla caratterizzazione di “individuo” facendogli acquisire, di contro, il preciso carattere di una massa indistinta, la stessa formata appunto da quei numerosi soldati presenti a Roma quel 20 settembre. Tuttavia (e qui risiede la grandezza deamicisiana), se di massa si tratta, essa ha in sé un valore e una connotazione particolare, perché tutta italiana, di media cultura, e per la quale la città di Roma appariva in primo luogo attraverso i contorni sfumati di un immaginario molto semplice, popolare e poco erudito. Ecco che la straordinarietà del nostro autore è presto svelata nella capacità di aver applicato al proprio racconto su Roma – e quindi alla rappresentazione che ci propone su carta dell’immagine dell’Urbe – un filtro sicuramente unico nell’ambito della tradizione odeporica moderna riferita alla

città eterna: ovvero, l’“occhio collettivo” di quei bersaglieri, il cui punto di vista per

eterogeneità geografica e medesima sensibilità culturale diventa per trasposizione lo

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stesso “occhio collettivo” dei lettori ai quali De Amicis intendeva rivolgersi e che possono dunque riconoscersi senza alcuna fatica nelle medesime dimostrazioni di stupore e meraviglia espressi dai soldati stessi; un pubblico quindi ben determinato nelle intenzioni del nostro giovane Edmondo, caratterizzato da precisi gusti letterari e inserito in un orizzonte di attesa già tutto italiano e borghese.

È proprio qui a mio avviso che risiede uno dei punti di forza della prosa deamicisiana, lo stesso che ha permesso a questa sua narrativa di resistere intatta nel tempo e di adattarsi di volta in volta a necessità editoriali differenti tra loro. Riflettendo un attimo sulla schiera inconsueta dei visitatori ritratta da De Amicis non possiamo certo affermare che essa conoscesse approfonditamente la storia, la cultura e l’arte della città pontificia, come al contrario avveniva per un informatissimo tourist moderno; il fatto è piuttosto – e De Amicis lo sa benissimo – che questa tipologia di visitatori ritratta era perfettamente in sintonia con il resto dei cittadini della penisola alla quale rivolgeva la sua stessa prosa, i quali «in realtà non conosceva Roma, o piuttosto la conosceva male, attraverso gli specchi deformati dei miti e delle loro interpretazioni»179. È pertanto lecito credere che per i suoi soldati, ma del resto come per gran parte degli italiani tra cui pochi potevano dire di aver visitato la città eterna prima del 1870180, quel 20 settembre la città fu vissuta come un coacervo di sentimenti diversissimi fra loro, anzitutto spontanei, genuini e privi di sovrastrutture erudite; vi si mescolavano così i ricordi ancora vivi nella mente della propaganda risorgimentale e patriottica, le fascinazioni di un immaginario semplice ma presente su Roma, le naturali suggestioni che suscitava loro una città sede della medesima religione che professavano, o ancora, per i più fortunati, i ricordi di racconti letti, notizie sentite e passate di bocca in bocca dai viaggiatori, ma anche le immagini di Roma ritratte nei dipinti o nelle incisioni più famosi: sono tutti elementi che in modo

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F. Bartoccini, Roma nell’Ottocento, Vol.II, p.416

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Esemplificativo in tal senso appaiono le parole di Boggio nel 1865: «I più stranieri a Roma non sono i Tedeschi, gli Spagnoli o i Russi, ma gli Italiani». P.C. Boggio, La questione romana studiata in Roma, Torino 1865, p.65.

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del tutto logico e normale dobbiamo ritenere abbiano agito nell’animo dei soldati italiani non appena varcarono la breccia e entrarono all’interno di quella città tanto attesa, e voluta da tutti gli italiani che lì rappresentavano. Un insieme di suggestioni, sentimenti e aspettative che tanto ci dice su quanto in realtà i soldati deamicisiani conoscessero Roma; un aspetto che, del resto, meraviglia e non poco anche il nostro De Amicis: «È singolare. Non solo essi lo avevano caro codesto nome di Roma, come di città italiana; ma lo capivano tutti, anche il più incolto coscritto; e tutti mostravano di sentire che in esso v’è qualcosa che dilata il cuore e leva in alto il pensiero»181.

È all’interno di un’ottica simile che appare congrua, e certo non spregiativa, l’immagine resa da De Amicis per rendere lo spirito e l’atteggiamento di questi particolari “visitatori romani” in quei giorni di fine settembre del 1870. Si tratta nello specifico di una rappresentazione dove ritroviamo questi soldati impegnati a visitare e conoscere Roma, paragonati a vere e proprie formiche; un’allegoria davvero suggestiva che l’autore crea riadattando un pensiero di uno dei suoi più cari scrittori francesi, quel Victor Hugo che citerà direttamente anche nel testo182: una metafora che se da un lato permette al giovane Edmondo di rendere con un sol colpo tutte le sfumature del naturale senso di spaesamento provocato nell’animo dei nostri “piccoli” protagonisti dalla magnificente e gigantesca scenografia di Roma, dall’altro da’ perfettamente la misura della frenesia – in tutto simile al movimento operoso delle formiche – che, immaginiamo, doveva spingere quegli stessi soldati impegnati a sperimentare e conoscere uno spazio per loro del tutto nuovo. Un luogo in cui certamente anche il semplice riscontro dal vivo delle poche conoscenze che

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