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La dimensione giornalistica, ma soprattutto l’attenzione posta dall’autore nel voler creare un prodotto che consapevolmente potesse essere fruito da un pubblico vasto ed eterogeneo, ha fatto sì che il reportage deamicisiano venisse strutturato dal proprio autore come un testo caratterizzato da una semplicità di fruizione per il lettore alla quale corrisponde un’altrettanta facilità per il critico nell’individuare le componenti narrative interne che lo sorreggono, ovvero quei temi e quei motivi principali che

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dobbiamo tanto alla linea editoriale della rivista quanto alle idee e al sentire politico di un allora giovane Edmondo De Amicis.

Due appaiono i termini di riferimento essenziali entro i quali è necessario inserire il reportage deamicisiano per capirne le dinamiche più intime e profonde: da un alto troviamo naturalmente quella rivista alla quale De Amicis avrebbe destinato i propri articoli, quell’Italia Militare nata appena qualche anno prima come organo di stampa dell’esercito a risposta di un clima non certo sereno nei confronti della nuova istituzione nazionale, dall’altro vi erano più nel profondo quegli indirizzi assunti in quel 1870 da una politica governativa di stampo conservatrice, per intenderci la stessa che aveva tanto investito nell’idea di “necessità” politica e morale per l’intera penisola di una Roma italiana e capitale del regno.

All’interno di un orizzonte così determinato, e considerata l’entità stessa di queste forze che gravitavano attorno all’incarico di reporter che avrebbe dovuto svolgere De Amicis, appare più che lecito sospettare come il testo redatto dal nostro giovane autore accompagnasse alla volontà di presentare una cronaca fedele agli avvenimenti, quella di raggiungere determinate finalità di carattere politico e propagandistico; si tratta di quegli stessi scopi che sorreggono alla base l’intera trama tematica del reportage, richiedendo di conseguenza quella giusta attenzione critica necessaria per individuarne e investigarne i meccanismi di realizzazione, e svelare quindi le strategie attuate dall’autore per veicolarvi precisi messaggi e significati. Nelle corrispondenze deamicisiane troviamo quindi determinate tensioni narrative che vengono ad alimentarsi di temi e motivi specifici che animano dall’interno una trama complessa e sapientemente elaborata anche nei messaggi che lo stesso reportage intende lanciare al proprio pubblico, contrapponendo in ultimo alla facilità di fruizione che riscontriamo leggendo le missive deamicisiane una organizzazione testuale inaspettatamente molto ragionata e articolata.

Due appaiono le direttrici tematiche intorno alle quali De Amicis sembra voglia sviluppare l’intera sezione preromana delle corrispondenze concentrata sul racconto

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delle fasi d’avvicinamento delle truppe alla città eterna: se da una parte emerge forte l’“idea” di una Roma tanto attesa, di lì a pochissimo finalmente “italiana”, dall’altra avvertiamo tra le righe – e talvolta anche in modo fin troppo esplicita – la volontà deamicisiana di celebrare l’esercito, portando all’attenzione del pubblico italiano le gesta eroiche di una giovanissima istituzione nazionale sorta appena undici anni prima. A questi che costituiscono senza alcun dubbio i temi principali del reportage deamicisiano, il nostro autore collega quindi tutta una serie di motivi secondari che servono nell’intera economia del racconto a dare spessore e sostanza al tessuto narrativo, rafforzandone, marcandoli con maggiore incisione, proprio quei temi principali ai quali questi stessi motivi secondari si connettono per complementarietà o per contrasto: su tutti ad esempio il costante richiamo alla figura del popolo romano, al suo entusiasmo e alle sue manifestazioni di favore e affetto dimostrate fin dai primissimi momenti nei riguardi dei “nuovi arrivati”; ma anche i numerosi riferimenti all’immagine negativa dei soldati pontifici, gli zuavi, attraverso cui l’autore esalta per opposizione la figura eroica e virtuosa dei militari italiani.

Del resto che sia proprio l’Idea di Roma a occupare una posizione centrale all’interno del reportage deamicisiano non ci deve assolutamente sorprendere; ciò che sembra interessante è semmai investigare fino a che punto, quello che costituisce un fatto ovvio e scontato, venga ad assumere una rilevanza critica di enorme valore per entrare nel vivo del testo, soprattutto se analizzato in relazione all’idea di Roma e ai sentimenti espressi da De Amicis nei confronti della città, ma anche relativamente alle modalità rappresentative attuate dal nostro stesso autore per dare un espressione concreta a questo suo personale sentire: idee e sentimenti dietro i quali in verità riecheggiano più o meno esplicitamente precisi significati storici e una precisa simbologia assegnata alla città eterna fin dal tempo della prima propaganda risorgimentale; un coacervo di emozioni, di passioni e di allegorie ancora vive e

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presenti tanto nell’immaginario quanto nei cuori degli italiani di allora, seppure in realtà arrivati molto attenuati nei toni alla vigilia di quel 20 settembre110.

Nonostante infatti intorno a quella che sarebbe divenuta la futura capitale del regno, risplendesse ancora in quel 1870 l’aurea del mito risorgimentale della Terza Roma – quello stesso con cui si auspicava un ruolo centrale per la città in funzione di una rigenerazione politica e morale della penisola, degli italiani, e che avrebbe poi coinvolto in senso lato tutta l’Europa111 – è pur vero che gli anni da quel 1860 trascorsi a indugiare nei confronti di una risoluzione decisa nei confronti della città

eterna, avevano finito con il logorare tutta la potenza originaria del mito di Roma:

una serie vorticosa di dubbi e incertezze che investivano le capacità effettive della

110 Alla vigilia del 20 settembre alcuni precisi fattori avevano comportato ad un depotenziamento dell’originaria

propaganda risorgimentale con ricadute significative sul mito di Roma per come era stato diffuso e alimentato fin dai primissimi atti dei moti risorgimentali. Su tutti sicuramente l’aggravarsi di quel conflitto tanto ideologico quanto politico che interessava direttamente la figura tradizionale del pontefice nelle sue specifiche prerogative di potere come capo spirituale e temporale insieme: uno scontro che esploderà in tutta la sua urgenza tra Stato Pontificio e Regno d’Italia a seguito delle dichiarazioni cavouriane, avallate poi dal parlamento italiano nelle sedute del 27 marzo e 5 aprile del 1861, con le quali il regno rivendicava ufficialmente Roma come propria capitale naturale. A queste precise determinazioni seguirà tuttavia quella politica di compromesso attuata poi dallo stesso Cavour (famosa la sua frase «Libera Chiesa in libero Stato») nei confronti delle forze politiche pontificie e di quelle cattoliche italiane sempre più forti sulla penisola: la politica attendista e di accomodamento adottata dalla “destra storica” nei confronti della

questione romana finì nel complesso col mitigare la potenza originaria del mito di Roma italiana. Cfr., Il mondo contemporaneo. Storia d’Italia, a cura di Fabio Levi, Umberto Levra, Nicola Tranfaglia, la nuova Italia Editrice,

Firenze, Tomo III, pp. 984-990.

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Lasciamo alle parole dei grandi protagonisti del Risorgimento italiano per rendere sia l’idea dell’entità originaria del mito di Roma, sia della ferrea volontà di “fare” italiana la città eterna, come del resto anche delle speranze riposte sul ruolo stesso che la città si credeva avrebbe assunto nell’ottica di una rigenerazione morale italiana, ed europea in senso lato. Mazzini, ad esempio, scrisse: «Roma era il segno de’ miei giovani anni, l’idea madre nel concetto della mente, la religione dell’animo; e v’entrai, la sera, a piedi, sui primi del marzo [1849], terpido e quasi adorando. Per me, Roma era – ed è tuttavia malgrado la vergogna dell’oggi, il Tempio dell’umanità; da Roma escirà quando che sia la trasformazione religiosa che darà, per la terza volta, unità morale all’Europa». G.Mazzini, Note autobiografiche, Rizzoli, Milano, 1986, p.382. Giuseppe Garibaldi a sua volta aveva affermato chiaramente: «Roma per me è l’Italia», citato in P.Treves, L’idea di Roma e la cultura italiana del secolo XIX, Ricciardi, Milano-Napoli, 1962, p.78. E Cavour più tardi: «Roma sola deve essere la capitale d’Italia», discorso del 25 marzo 1861, C. Benso conte di Cavour, Discorsi

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città nell’assumere la carica di capitale, unite al più grave dibattito aperto sulle reali necessità per l’Italia di una “Roma italiana”, accompagnavano di fatto – destabilizzandola – l’azione militare, politica e diplomatica che avrebbe dovuto condurre alla sua liberazione. Sussistevano in effetti alcune questioni da risolvere, le cui criticità, riversandosi all’interno dei dibattiti politici del tempo, minavano alla base l’Idea di Roma propugnata fino allora: l’atteggiamento attendista e spesso ambiguo nei confronti della questione romana112, assunto da quelle forze di governo intenzionate, più che a sferrare un attacco diretto alla città e al cuore del potere pontificio, a voler inserire la “questione” all’interno di una scena politica internazionale più ampia, arrivando a giocare l’intera partita sul tavolo della diplomazia continentale piuttosto che su quello strettamente bellico113; la presenza

112 Questione romana è un'espressione utilizzata dalla storiografia italiana per identificare la controversia risorgimentale

sorta in relazione al futuro ruolo di Roma, sede del potere temporale e spirituale del papa, all’interno del panorama più ampio di un Regno d’Italia una volta annessa la città eterna. È impossibile riassumere la questione romana in poche righe, soprattutto perché – come è stato ben osservato – «lungi dall’essere riconducibile al puro fatto territoriale, cioè ai problemi connessi al passaggio, avvenuto nel 1870, del territorio di Roma dalla sovranità pontificia allo stato italiano, con funzioni di capitali; costituisce sotto ogni aspetto di vista uno dei nodi cruciali della storia italiana risorgimentale e postrisorgimentale, da un lato, e della storia della chiesa e del mondo contemporaneo, dall’altro». Il mondo

contemporaneo, a cura di Levi, Levra, Tranfaglia, op. cit., p. 984. Per un approfondimento sulla questione romana si

rimanda al volume appena citato.

113 Al momento della dichiarazione del Regno d’Italia avvenuta nel 1861 perché si completasse l’unità politica

dell’intera penisola mancavano ancora il Veneto, sotto dominio austriaco, e lo Stato Pontificio, protetto dalla Francia di Napoleone III. Il completamento dell’unificazione nazionale avverrà a tappe successive sulla base di precise logiche di politica internazionale: nel 1866, nonostante la disastrosa battaglia di Custoza patita dall’esercito italiano ad opera di quello austriaco, in quella che conosciamo come la Terza guerra d’Indipendenza, il Regno d’Italia riesce ad annettere il Veneto in virtù delle vittorie di Francia e Germania, alleati italiani, ottenute proprio contro l’Austria; ancora più significativa riguardo alle logiche internazionali determinanti per le sorti dell’Italia unita, appare in tal senso proprio gli avvenimenti che portarono all’annessione di Roma: a seguito della sconfitta dell’esercito francese a Sedan avvenuta il 1 settembre 1870 per opera della Prussia (Guerra Franco-Prussiana), e quindi dell’abbandono del trono da parte di Napoleone III con la conseguente proclamazione della Repubblica in Francia, l’esercito italiano poté liberamente entrare a Roma il 20 settembre senza incontrare alcuna resistenza, né da parte dei militari pontifici (in realtà numericamente inconsistenti e impreparati) né da parte di quei soldati francesi, sempre “di guardia” a Roma per volere di Napoleone III, ora ritiratisi dall’Italia perché richiamati in patria. È impossibile in questa sede dare conto dell’estesa bibliografia relativa al periodo che va dal primo Risorgimento all’unificazione dell’Italia; cito quindi i soli testi

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sempre più cospicua di una componente cattolico-liberale all’interno del pensiero politico italiano di allora, comprensibilmente poco incline ad intraprendere azioni forti e decise nei confronti dello Stato Pontificio; nonché la necessità che si sarebbe presentata di ridefinire a livello politico le prerogative di Papa-re, capo spirituale e temporale, all’interno nuovo assetto del Regno d’Italia una volta conquistata Roma. Sono queste solo una minima ma significativa parte delle numerose problematiche e criticità presenti sulla penisola che si erano presentate in tutta la loro urgenza, addensandosi, nel frattempo, minacciose intorno alla città eterna, arrivando a depotenziarne il mito risorgimentale, sminuendone il carattere simbolico e allegorico, arrivando a frammentare non solo il panorama politico ma anche la stessa opinione pubblica nei confronti dell’idea di una necessità italiana di conquistare la città pontificia.

Proprio all’interno di un contesto così determinato, e quando forte si presentava dunque l’urgenza di rilanciare la politica governativa su Roma, bisogna collocare il reportage del nostro De Amicis; un testo che si mostra, fin dai primissimi articoli, particolarmente attento a ridefinire al proprio lettore i termini e le dinamiche entro le quali andava considerata l’intera spedizione romana, più volte sottolineando come l’idea e l’azione mirate alla “presa” della città rispondesse ad una volontà esclusivamente italiana, nazionale e popolare. È proprio per enfatizzare questo determinato aspetto che del resto vediamo l’autore impegnarsi alacremente per mantenere integro e rivitalizzare il carattere originario e simbolico della conquista di Roma, prima di tutto allontanando con fermezza quei sospetti e quelle supposizioni che potessero agli occhi dell’opinione pubblica far credere che l’“impresa romana” si dovesse a trattative diplomatiche internazionali e con delle grandi potenze europee:

consultati durante la stesura di questo studio; ritenuti significativi per ottenere un quadro esaustivo del periodo: Alfonso Scirocco, L’Italia del Risorgimento, Bologna 1993; Derek Beales e Eugenio F. Biagini, Il Risorgimento e l’unificazione

dell’Italia, Bologna 2005; Gilles Pécout, Naissance de l’Italie contemporaine (1770-1922), Edition Nathan, Paris, 1997

[trad. it. Il lungo risorgimento. La nascita dell’Italia contemporanea (1770-1922), Milano 1999 ]; A. M. Banti, Il

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La gente che segue la truppe si divise in vari drappelli dietro le diverse divisioni. Chi vuol accompagnare i soldati a piedi, chi vuol accompagnarli a cavallo, chi sui carri dell’ambulanza, chi sui biroccini; tutti vogliono vederli proprio nel momento che passano il confine […].

Chi parla più della guerra tra la Francia e la Prussia?

Come appare diversa le quistione romana, e come se ne senta sicura e inevitabile la soluzione, stando qui in mezzo a tutto questo movimento e a questo strepito di armi e popolo. Non andare a Roma? Non passa neanche per la mente, non c’è nessuno che lo supponga possibile, non vien fatto in alcun modo di dubitare che quest’impeto, questa foga irresistibile di affetti e di desideri possa essere arrestata114.

Il nome di Roma appare dunque fin dalla prima lettera inviata da Terni il 10 Settembre 1870: una missiva d’apertura assai significativa per i dignificati del reportage deamicisiano, all’interno della quale possiamo apprezzare gli sforzi compiuti da un De Amicis che, per specificare e chiarire i motivi e il carattere della missione militare intrapresa, si sofferma con regolarità a rendere lo spirito che albergava nell’animo dei protagonisti in marcia verso la città:

114 E. De Amicis, Lettera da Narni, 11 settembre 1870. Solo per un gusto aneddotico, che svela tuttavia fino a che

punto De Amicis fosse in linea con i poteri forti del periodo, si riporta il proclama del generale Cadorna agli «Italiani delle Provincie Romane» fatto circolare presso la popolazione pontificia da Terni il 10 settembre e che il giovane Edmondo cita implicitamente con quella frase «L’esercito italiano non entra negli stati del Pontefice per far la guerra, ma per portarvi la libertà», contenuta proprio nell’estratto del reportage sopra riportato. Scrive Cadorna: «L’esercito, simbolo e prova della concordia e dell’unità nazionale, viene tra voi con affetto fraterno, per tutelare la sicurezza d’Italia e le vostre libertà. Voi saprete provare all’Europa come l’esercizio di tutti i vostri diritti possa congiungersi col rispetto alla dignità ad all’autorità spirituale del Sommo Pontefice. La indipendenza della Santa Sede rimarrà inviolabile in mezzo alle libertà cittadine, meglio che non sia mai stata sotto la protezione degli interventi stranieri. Noi non veniamo a portare la guerra, ma la pace e l’ordine vero. Io non devo intervenire nel Governo e nelle amministrazioni, a cui provvederete voi stessi. Il mio compito si limita a mantenere l’ordine pubblico, ed a difendere l’inviolabilità del suolo della nostra patria comune». Il proclama è stato ripreso da: Da Firenze a Roma. Diario storico-politico del 1870-

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Il considerare l’occupazione dello stato pontificio unicamente come fatto militare, e però cercarne, per così dire, il diritto nel merito, la giustizia nella gloria, è cosa che non può farsi se non da chi abbia esaurito invano altri novecentonovantanove argomenti diretti a provare che non si deve andare a Roma. L’esercito italiano non entra negli stati del Pontefice per far la guerra, ma per portarvi la libertà; non per cercarvi la gloria, ma per assicurarvi la pace; va ad affermarvi un grande diritto nazionale; va a rimenarvi migliaia e migliaia di fratelli italiani; va a porger la mano a Roma e a dirle: – Sorgi, o ultima aspettata, e vivi nell’amplesso della madre comune115

.

Dopo aver indugiato sui motivi dell’impresa, e senza tralasciare alcune velate polemiche nei confronti di quanti all’epoca ritenessero la presa di Roma come una un’iniziativa utile più al governo che al futuro dell’Italia, De Amicis procede immediatamente e d’improvviso con l’accendere il contenuto del proprio reportage intorno a due determinate quanto fondamentali questioni: l’idea della fatalità di una Roma-italiana e la fermezza con la quale l’esercito (di riflesso anche il governo) si stava impegnando a reclamarla:

Una strada è aperta dinanzi a noi, bisogna percorrerla, si percorrerà, e tutto quello che si può opporre al nostro passo per noi non è altro che un ingombro materiale, a cui si passa sopra senza chinare gli occhi e senza ricordarsi poi d’averlo superato116.

È su questa identica strada, percorsa dall’autore in compagnia dell’esercito italiano, che la penna di De Amicis segnerà il cammino che condurrà il lettore fin sotto le mura della città eterna; e lo farà innanzitutto puntando sulla forza suggestiva e persuasiva di una Roma “collettiva” che sapeva con i cui simboli e i suoi miti suscitare sempre forti passioni nei cuori di molti italiani dell’epoca.

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E. De Amicis, Lettera da Terni, 10 settembre 1870.

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Constatata la volontà di condurre il lettore tramite la propria scrittura fin dentro le mura della città di Roma, quel che a noi interessa maggiormente, è constatare se e fino a che punto l’itinerario reale condotto da De Amicis e dall’esercito in direzione della città – fisico e allo stesso momento ideale –, sia stato dal nostro autore riportato su pagina ricorrendo, più o meno consapevolmente, a metodi e moduli narrativi che possiamo collegare a quella lunga tradizione odeporica che da tempo aveva “formalizzato” il grande tema del viaggio a Roma; in altre parole, rilevare se sussiste, e valutandone eventualmente l’entità, un rapporto di reciprocità tra le prose deamicisiane e la più ampia letteratura di viaggio a Roma, attuato dal giovane Edmondo sfruttando quei temi e motivi classici dell’odeporica romana per dare sostanza narrativa e maggiore caratterizzazione simbolica al racconto del viaggio e dell’impresa che l’autore è chiamato a prefigurare al proprio pubblico.

Proprio all’interno di una simile prospettiva di analisi diventa possibile constatare ad esempio come De Amicis abbia strutturato il proprio racconto odeporico ricorrendo anzitutto ad uno dei più classici topoi che attualmente contraddistingue la critica relativa alla letteratura di viaggio su Roma. Un determinato elemento narrativo che costituisce la trasposizione letteraria di una specifica quanto particolare predisposizione mentale che animava il viaggiatore durante quel suo progressivo e graduale approssimarsi ad meta tanto agognata: il riferimento va direttamente a quel determinato sentimento che definiamo ansia della meta e per il quale l’idea stessa di una Roma prossima assumeva nella mente del viaggiatore in cammino un valore sempre maggiore che cresceva proporzionalmente al graduale avvicinamento alla città. Un sentire tutto personale che segnava i viaggiatori d’ogni età e status diretti a Roma e che si alimentava delle aspettative più intime che l’individuo in viaggio riservava nei confronti di una città tanto unica che avrebbe finalmente visitato dopo averla tanto sognata e attesa; una Roma il cui solo pensiero – è lecito ritenere – faceva impallidire qualsiasi viaggiatore del passato che su di essa aveva tanto letto e studiato, o anche appreso da memorie odeporiche di altri visitatori e dalle stampe più

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fortunate che circolavano da tempo sull’interno continente: un luogo incomparabile, lo stesso che, dalla concezione classica di caput mundi a quella più moderna di gran

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