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Mira la rondondella Musica, Storie e Storia dai Castelli Romani; da un’idea di Costanza Calabretta e Alessandro Portelli; letture Nicola Sorrenti e Matilde D’Accardi; musica Sara

Modigliani (voce), Gabriele Modigliani (chitarra), Massimo Lella (chitarra), Roberta Bar- toletti (organetto).

Incontro con

Alessandro Portelli

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Quando intervistai nuovamente gli operai di Terni du- rante lo sciopero nel 2004 dopo averli intervistati negli anni Settanta sullo sciopero del 1953, le parole sembrano le stesse, le cose che hanno fatto sembrano le stesse; ancora all’alba degli anni Ottanta ritenevano che le lotte fatte trent’anni prima avessero un senso, che loro fossero una avanguardia di un futuro possibile; questi di oggi non hanno nessuna palingenesi sociale in vista, si aggrappano disperatamente a quello che hanno, altrimenti non ce la fanno a sopravvivere, non pagano il mutuo, non mantengono la famiglia.

Questo modifica il tuo modo di fare queste ricerche che hanno una tensione politica, dalla scelta del progetto di ricerca, alla modalità con cui la conduci e la condividi.

Nelle due ricerche principali che ho fatto, che sono quella sugli operai a Terni e i minatori nel Kentucky, durate rispetti- vamente 15 e 30 anni (perché uno dei problemi è che non sai mai quando finisce, e non sai mai quando finisce perché l’og- getto ti si trasforma sotto gli occhi), la mia formuletta è che ero partito per fare l’epica della classe operaia e ne ho fatto l’elegia. E quindi è cambiato il mio rapporto con queste co- se. Devo dire che non sono consapevole di un cambiamento specifico da parte mia. Perché siccome la cosa fondamentale di tutto questo è l’ascolto, se tu ti metti in un atteggiamen- to di ascolto, ascolti quello che ti dicono. Tu parti in pieno autunno caldo, e ti trovi con i tuoi eroi disoccupati e la tua fabbrica chiusa… E se fai un lavoro sulla resistenza e ti trovi in un mondo in cui fanno i saluti fascisti in piazza e nessuno dice niente! Capito? Questo significa che oggi fare queste cose è molto più politico. Non stai più sull’onda del senso comune. Vai contro il senso comune. E quindi, anche solo parlare di operai…

È una contro storia.

Ti dicono che gli operai non ci sono più… Dopo di che, la mia bene amata Terni nel 2014 si è fatta 40 giorni di sciopero per difendere i posti di lavoro. Eppure vedi questa enorme trasformazione, dall’idea di essere all’attacco all’idea di sal- vare il salvabile. Questo sì.

Le fonti e i metodi

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C’è un aspetto che riguarda l’uso e la conservazioni delle fonti. So che sostieni che nei paesi anglosassoni la storia orale è partita in gran parte dagli archivisti con l’obiettivo di conservare la fonte, mentre c’è nella tradizione italiana una motivazione progettuale molto forte. Tuttavia, non credi importante poter dare accesso alle fonti integrali dando contestualmente gli strumenti per una loro lettura critica?

L’unica strada è la tecnologia. È l’ipertesto. Con questa cau- tela: noi non mettiamo le nostre interviste in rete, per una ragione fondamentale: ci sono state date personalmente. Mentre negli USA, spesso, nei progetti di storia orale acca- de che si facciano interviste per le istituzioni, io quando la faccio dico: «Faccio questa intervista per una mia ricerca personale». Poi aggiungo anche: «Andrà in archivio, potrà essere ascoltata…». Però è innanzitutto una questione di fiducia personale. E, allora, la tua responsabilità nei con- fronti della persona con cui hai parlato non finisce mai. E sei responsabile di ciò che verrà fatto di quelle interviste. E, se la metti in rete, non sai che uso ne potrà essere fatto. Chi vuole viene qui <al Bosio dove sono conservate tutte le interviste e possono essere ascoltate in loco; ma non dupli- cate e non prese a prestito>.

Poi la mia idea di come funziona l’oralità è che l’oralità è sempre una edizione critica di se stessa. Hai di fronte una edizione variorum: un discorso più o meno compiuto, che contiene tutte le sue varianti, tutte le versioni preparatorie.

La cosa che puoi fare… è quel che abbiamo visto pochi giorni fa, su un libro molto bello, Princesa14. La storia di una

trans brasiliana scritta al Carcere di Rebibbia con l’aiuto di un pastore sardo e riscritta da un brigatista. Hanno fatto un

14. «Princesa è considerato uno dei primi titoli della cosiddetta “letteratura migrante” in lingua italiana. Il libro racconta la storia di vita della transgender brasiliana Fernanda Fa- rias de Albuquerque. Scritto nel carcere romano di Rebibbia, dove Fernanda era detenuta per un tentato omicidio, il volume è stato pubblicato nel 1994 dalla casa editrice Sensibili alle foglie. In copertina, due firme: accanto a quella di Farias compare quella di Maurizio Iannelli che, con la prima, ha condiviso la detenzione a Rebibbia ed il lavoro di scrittura. All’origine dell’incontro e della narrazione vi è stato anche un terzo detenuto che ha svol- to un ruolo decisivo nel sollecitare il racconto: il pastore sardo Giovanni Tamponi. Il libro è nato dall’oralità di Fernanda Farias de Albuquerque e dai suoi diari, lettere e note scritte in carcere a partire dalle sollecitazioni di Tamponi e di Iannelli. Quest’ultimo ha poi riversato i diari in un dattiloscritto che ha costituito il brogliaccio del testo edito nel 1994»: <http:// www.princesa20.it/progetto20/>, consultato il 15 marzo 2017.

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sito in cui c’è il testo del romanzo con accanto la colonna che ti rinvia al manoscritto, al verso della canzone di De André, al documentario15. Quella è una possibilità. Fatta su un testo; se

cerchi di farla su tutte le centinaia di interviste nell’archivio, impazzisci. O ti ci vuole l’apparato che ha Spielberg. Dove per altro… Vedi, ci sono cose che il catalogo e le schedature non potranno mai fare. Si scheda l’informazione, non la nar- razione. Proprio per questo io evito la parola testimonianza e preferisco narrazione: la narrazione è sempre centrata sul narratore («Io ho fatto»; «A me è successo») mentre la testi- monianza è centrata su qualcos’altro. L’archivio Spielberg è nato proprio come archivio di testimonianze (vogliamo testimoniare che la Shoah è esistita). Hanno messo insieme 50.000 testimonianze, e dunque tanto di cappello. Tutte sche- date, tutte in video. Mi è capitato di andarci. E lì, con una parola chiave, in 30 secondi ecco l’intervista. Mi fanno fare una prova; come parola chiave indico l’arrivo ad Auschwitz, e in un attimo mi compare l’intervista di un ex deportato ungherese: «Arrivammo al treno, ci fecero scendere… e poi sapete quello che è successo dopo». E la mia risposta è: pri- mo, no non lo sappiamo; secondo: non lo sai del tutto nep- pure tu perché sei ancora vivo e tutta la storia la potrebbero raccontare solo i morti; terzo, questa è una figura retorica, è una litote. Assolutamente identica alla mia intervista a Piero Terracina, quando mi dice: «Eravamo al Regina Coeli con le mani contro il muro e papà ci disse “Qualunque cosa ac- cada, non perdete mai la vostra dignità”. Questo però non fu possibile». Punto. L’intervistatore onesto non gli chiede: perché? Che hai fatto? Registra che l’informazione è il fatto che non ce lo dice. E allora ti immagini a schedare queste 50.000 interviste per figure retoriche? Quante litoti? Perché la litote è un enorme discorso sull’indicibile.

15. «Il progetto Princesa 20 nasce, venti anni dopo l’edizione princeps, dalla volontà di rendere disponibile un’edizione annotata del libro, che tenga conto sia delle scritture avantestuali di Fernanda Farias de Albuquerque e di Giovanni Tamponi che delle produ- zioni multimediali successive. Immediatamente è quindi sorta la necessità di un’edizione digitale e transmediale, per consentire la riproduzione anastatica dei manoscritti e mostra- re, nello stesso ambiente, le relazioni fra diverse forme di scrittura, tra narrazione autobio- grafica, documentaria, letteraria, racconto per immagini e in forma di canzone»: ibidem.

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Forse la schedatura serve per dirti che quella fonte esiste e per incu- riosirti ad andarla ad ascoltare, come schedare un libro.

Sì, ma un romanzo lo analizziamo anche in base alle pro- cedure retoriche, mentre la “testimonianza”, rispetto alla lo- gica documentaria, è più difficile che venga indagata nel suo aspetto formale. In che binario era il treno, esattamente… E questo è esattamente quel che Spielberg non vuole. E dal suo punto di vista ha ragione. A me, se sbagliano binario, piace moltissimo. Gli errori sono pieni di senso. Naturalmente, per sapere che sono errori devi ricostruire, nei limiti del possibi- le, quello che è davvero successo. E poi scavi nello spazio fra i dati e il racconto.

In questo senso il fatto che tu provenga da una formazione diversa rispetto alla maggior parte degli storici orali è una grande risorsa.

In un colloquio con un gruppo del Kossovo che lavora con le fonti orali, una di loro, sociologa, mi chiede: «Come possia- mo evitare che queste interviste diventino qualcosa di lette- rario?». E io ho risposto: «Ecco, per voi sociologi ‘letterario’ è un insulto. Per noi letterati ‘sociologico’ è un insulto». In realtà le due cose si intrecciano. La modalità formale della narrazione è un fatto, un dato sociologicamente importante.

Per esempio nelle nostre interviste, quando accade di intervistare chi per professione usa la finzione come autorappresentazione di sé…

È un po’ simile a quando noi intervistavamo gli studenti di filosofia che si rifiutavano di raccontarti la storia perché vole- vano già darti la conclusione o l’interpretazione. È il discorso del mettersi in posa: come vuole essere vista questa persona? E questo fa parte di come è.

Riesci a trasmettere artigianalmente il tuo sapere in merito alla ricer- ca con e sulle fonti orali?

Io sono un autodidatta. Quindi… Tutte le volte che chiedi a un operaio come è il suo lavoro, ti accorgi che fa fatica a spiegarlo a parole perché non l’ha imparato a parole, l’ha imparato con gli occhi. Qui sono fondamentali i ge- sti: chiedi a un tornitore «Che fa?», e lui non te lo spiega,

Incontro con

Alessandro Portelli

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si alza e te lo fa vedere a gesti. Qui ha ragione Giovanni Contini a proposito dell’uso del video nelle interviste: il lavoro, o la danza, tutto quello che si esprime col corpo, ha bisogno dell’immagine. Io faccio altro. Il lavoro sul linguag- gio. Perciò siccome quello che faccio non l’ho imparato a parole, non mi viene facile spiegarlo, tendo più che altro a mostrarlo, come il tornitore. Quindi, quello che io tendo a fare è raccontare le mie esperienze. Anche perché non penso affatto che sia necessariamente insegnabile né che bisogna insegnare come ciascuno fa. La mia didattica è quel che ho fatto.

Questo modo ha influenzato anche il modo di insegnare letteratura?

Ciò che in questo campo tu trasmetti è che tu hai un rap- porto con quel testo. Provi a mantenere vivo un elemento di relazione, e magari agli studenti viene voglia di condividerlo.

Alessandro Portelli ha insegnato Letteratura americana alla Fa- coltà di Scienze Umanistiche dell’Università di Roma La Sapienza. Ha fondato e presiede il Circolo Gianni Bosio di Roma per la co- noscenza critica e la presenza alternativa della cultura popolare. Collabora con la Casa della Memoria e della Storia di Roma e con «il manifesto».

È considerato uno dei padri fondatori della Storia orale. Fra i suoi studi in questo campo ricordiamo: Biografia di una

città: storia e racconto: Terni, 1830-1985 (1985); The Death of Luigi Trastulli and Other Stories: Form and Meaning in Oral History (1991); L’ordine è stato eseguito: Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria (2004); Storie orali. Racconto, immaginazione, dialogo (2007); America profonda. Due secoli raccontati da Harlan County, Kentucky (2011); Mira la ron- dondella: musica, storie e storia dai Castelli romani (2012).

Così scrive in prima persona:

«Ho raccolto le canzoni popolari e politiche e la memoria sto- rica orale di Roma e del Lazio, ho collaborato con il Canzoniere del Lazio, Giovanna Marini, Sara Modigliani, Piero Brega, Ascanio Celestini.

Ho conosciuto i partigiani e le partigiane di Roma e i familiari degli uccisi delle Fosse Ardeatine, e dai loro racconti ho messo insieme la loro storia. Ho ascoltato i racconti delle borgate e dei quartieri popolari, dalle occupazioni delle case degli anni ’70 alla storia orale di Centocelle.

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Ho cercato di non limitarmi a studiare e a scrivere, ma anche di organizzare cultura: mettere in piedi strutture (dal Circolo Bosio alla Casa della Memoria); fondare e far vivere riviste; condividere con gli altri, attraverso dischi e libri, quello che ho imparato; coin- volgere persone più giovani e aprirgli spazi; organizzare eventi, concerti, incontri. Ho accompagnato gli studenti romani ad Au- schwitz, ho girato decine di scuole per parlare della memoria, della democrazia, dell’antifascismo. E ho voglia di continuare a farlo.

Le mie passioni sono l’uguaglianza, la libertà, l’insegnamento, la musica popolare, la memoria, ascoltare i racconti delle persone, i libri e i film, e il rock and roll»16.

16. <http://alessandroportelli.blogspot.it/2006/05/chi-sono.html>, ultima consultazio- ne 15 giugno 2017.

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Marks P., Theater Review. Water World: Love of Plumbing, riportato in <http://martypottenger.com/projects/cwt/press.html> A $5 billion water tunnel stretching 64 miles: they said it couldn’t be done. No, not building one; writing a compelling show about one. The topic does sound better suited to a convention of hydrologists than to an audience of New Yorkers with the usual level of curiosity about urban plumbing. (In other words, zzzzzzz.) But against all odds, Marty Pottenger establishes a city water-delivery system as the backdrop for an often lyrical show that speaks with intimate knowledge, and yes, even love, about holes in the ground and the people who drill them.

City Water Tunnel No. 3 a presentation at the Judith Anderson

Theater written and performed by Ms. Pottenger, a carpenter who spent 20 years in the building trades, gives new meaning to “un- derground theater.”

Embroidered by video scenes of the tunnel in progress and the actress’s compassionate impressions of laborers, engineers and bu- reaucrats, the performance piece consists of vignettes illuminating aspects of the vast project, begun more than 20 years ago and not scheduled for completion for 25 more years: the construction of a third tunnel to carry billions of gallons of drinking water to the city from upstate reservoirs. The challenge here, of course, is to make the prosaic poetic. The construction job - «the largest nondefense public works project in the Western Hemisphere,» the narrator tells us - already has scale.

What it needs is personality, which Ms. Pottenger supplies, in her own voice and the voices of the workers whose verbatim stories she tells. The big pipe, or rather, «this beautiful concrete cylinder,» as Ms. Pottenger calls it, is a conveyance for a portrait of contem- porary folkways; it’s as if the actress were paddling here and there along a cement Mississippi. On a stage designed to look like a con- struction site, she offers a primer on tunneling, from the floating of the bonds to the opening of the valves. Safety is essential on such a project - 24 people have died building this one - and so is the om- nipresent pot of coffee. Her characters tell New York stories, immi- grant stories, in the accents of Poland, Russia, Ireland and Jamaica. The approach is a blending of Studs Terkel, Anna Deavere Smith and Pete Seeger, in which Ms. Pottenger seeks to bind the people building the pipe to the people it is meant to serve. As Tony, one of the workers Ms. Pottenger impersonates, puts it, without the project New York might not survive, because there would be «no drinkin’, no floatin’, no flushin’, no soapin’ and no scrubbin’.»

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has its advantages and drawbacks: while her soft spot for each and every subject is apparent, it’s hard to believe a task this complex could be accomplished with so little rancor. She also hints at an on-the-job sexism that as a woman in the construction business she must have experienced firsthand. You do, at times, get the feeling that she’s holding back something. Maybe that’s for another show.

Written and performed by Marty Pottenger; directed by Jayne Austin-Williams; Steve Elson, composer; Tony Giovannetti, lighting and technical director; sound by Mio Morales; Arden Kirkland, costume consultant. Presented by the Working Theater, Robert Arcaro, artistic director; Mark Plesent, producing director. At the Judith Anderson Theater, 424 West 42d Street, Clinton.

Memorie sotterranee. Storia e racconti della Borsa di Arlecchino e del Beat 72

21 Il percorso dall’orale allo scritto di queste pagine si è svolto in più tappe. Il primo incontro con Laura Mariani è avvenuto il 29 dicembre 2014 a casa sua, a Bologna, con una lunga intervista durata quasi tre ore. Dall’ascolto di quel colloquio è nato il primo atto scritto, una descrizione dettaglia dei contenuti, utile a riordinare il viaggio compiuto dalle nostre voci. Un nuovo ascolto ha generato una trascrizione parziale che manteneva e riproponeva le scansioni di quel viaggio, ma che selezionava e si soffermava su alcuni passaggi specifici. Su queste parole trascritte, intervistata e intervistatrice hanno lavorato separatamente tra aprile e luglio 2015, come su un cano- vaccio, utilizzando lo strumento della scrittura individuale e a distanza. È stato un cammino a ritroso: se l’intervista era nata dalle domande, ora venivano rielaborate prima le risposte e, dopo, le domande. Le pagine che seguono non vogliono essere dunque la trascrizione di un colloquio orale, ma piuttosto una ‘non trascrizione’, fedele a due caratteristiche importanti della fonte orale in sé: la corresponsabilità nella direzione del viaggio e l’uso della forma dialogica come «vettura».

Il tuo percorso di studiosa si svolge a cavallo tra storia orale, tea tro, storia di genere/storia delle donne. Anzitutto mi interessa mettere a fuoco le origini di questo percorso: quale è stata la tua formazione? Quali snodi della tua storia di vita ti hanno portato verso questo incrocio di discipline?

Incontro con Laura Mariani

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Mi sono laureata in Lettere Moderne all’Università di Roma. Dovevo fare una tesi in Storia del tea tro con Giovanni Mac- chia, ma c’è stato il ’68 e ho fatto una tesi con Franco Ferra- rotti sul problema della casa. Poi sette anni di militanza in un gruppo marxista-leninista, tra Perugia e Milano, fino al 1975, quando con tre figlie e mio marito <Claudio Meldolesi>, che avevo incontrato per i comuni interessi tea trali, ci siamo tra- sferiti a Spoleto, mia città natale. Qui abbiamo dato vita a un comitato di lotta vittorioso contro il manicomio criminale di Montelupo Fiorentino dove un ragazzo spoletino era mor- to di disidratazione. Un altro modo di fare politica, finché una scrittrice francese politicamente molto impegnata, Paule Lejeune, mi ha chiesto di scrivere sulle donne italiane nella Resistenza, potendo liberamente scegliere cosa e come. È ricominciato così il mio percorso intellettuale: con una ricer- ca di Storia orale. Lo racconto perché, a questo punto della vita, in un contesto completamente mutato da tutti i punti di vista, mi sento io stessa una testimone. Posso dire di aver vissuto nel mio piccolo le convulsioni novecentesche. E così vivo l’intervista che mi stai facendo, come una bella possibi- lità di ripensare la ricerca e la scrittura all’interno del flusso che le ha originate.

Su cosa scrivere? Non volevo fare il ritratto di un’unica partigiana, ero attratta piuttosto dal rapporto fra generazio- ni (una madre/una figlia). Alla fine decisi di studiare un universo femminile compatto ma composito: le “rivoluziona- rie professionali” che arrivarono alla Resistenza dopo essere state condannate al carcere dal Tribunale speciale. Sotto il fascismo ci furono decine di detenute politiche, un fenome- no nuovo. Prima le donne pubblicamente impegnate erano