LE FIGURE COINVOLTE NELLE CURE PALLIATIVE
7. Il ruolo del malato
Fino ad questo punto si è provveduto all'analisi delle figure professionali coinvolte nel processo di presa in carico nelle cure palliative. Si ritiene a questo punto importante cercare di capire anche le altre persone che sono implicate in questo particolare ambito.
Prima di tutti i professionisti, le reti sociali, la persona che principalmente vive le difficoltà legate alla sua condizione medico-sanitaria è il malato.
129 op.cit. pag.38;
130 Federazione Cure Palliative Onlus, Il ruolo del volontariato nelle cure palliative. Relazione di Stefano
Il malato terminale, come già citato nei paragrafi precedenti, è considerato quella persona affetta da una patologia cronico-evolutiva per la quale o non esistono delle terapie o se esistono risultano troppo sproporzionate rispetto alle caratteristiche della persona131.
Ma che cosa prova il malato?. Questa è una domanda che nasce dalla curiosità di scoprire come vive il malato la sua condizione, cosa accade in lui nel momento in cui gli viene comunicata la prognosi e cosa accade invece quando non è consapevole della sua situazione ma si vede comunque catapultato da un cura all'altra.
La situazione in cui si trova il malato, è pervasa dalla sensazione di dolore che come, si è visto nei paragrafi precedenti è un “dolore totale”, un dolore che coinvolge ogni aspetto di se'. Oltre al dolore fisico, dovuto alla patologia e alla reazione delle diverse terapie mediche, il malato può manifestare anche un dolore di tipo psicologico dovuto alla sensazione di essere vicino alla morte, al vedere svanire progressivamente tutti i progetti e i sogni futuri oltre che al fatto di dover dipendere da altre persone per svolgere anche i più semplici atti di vita quotidiana. Il malato terminale quindi si trova a vivere un a vera e propria giostra di emozioni: prima disperazione, poi angoscia, rabbia e così via. Il dolore colpisce anche la dimensione sociale della persona, ovvero, l'insieme delle relazioni che vedono il malato sempre più isolato dai contatti sociali, dalla rete amicale se non solo per visite occasionali, deve quindi operare una ridefinizione del proprio ruolo lavorativo a causa delle minori energie e capacità dovendo così rivedere anche la propria identità sociale, il ruolo che occupa all'interno della società. In realtà, queste modificazioni sono molto significative per la persona, perché si trova a vivere un momento per il quale il suo ruolo sociale si va modificando e i contatti sociali diminuendo e la relativa difficoltà a parlare dei propri vissuti emozioni proprio nel momento in cui ci sarebbe maggiore necessità.
Ulteriore dolore che il malato si trova a vivere è anche spirituale, perché la malattia lo pone in stretta relazione con la religione e con i dubbi e le difficoltà nel cercare delle risposte adeguate alla propria vita, al senso che essa riveste in quel preciso momento per la ricerca anche di una seppur minima speranza per uscire o migliorare la propria situazione, cercando magari di diminuire il senso di colpa. Il rapporto con la dimensione religiosa è diversa per ogni malato, così come differente il rapporto che la persona ha con Dio.
Il malato, nonostante la presenza ingombrante della malattia, ha bisogno di conferire un senso alla propria vita, agli ultimi attimi, di sentirsi comunque parte della società di non essere quindi isolato e dimenticato. Solitamente una delle paure del malato, è proprio quella di rimanere “fuori” dalla vita sociale, di non avere più quel senso di appartenenza che aveva 131 op.cit. pag. 36;
invece in passato. La paura è un'emozione molto frequente nei malati terminali e spesso si tramuta in vera e propria angoscia, ma può essere considerata come un meccanismo di difesa messo in atto per proteggersi da tutto ciò che lo preoccupa, ovvero la paura di un nuovo percorso, di essere lasciato solo in questo mare di difficoltà dai familiari e dagli amici, la paura di perdere rapidamente la propria autonomia e di dipendere dagli altri, nonché l'angoscia di non riconoscersi più allo specchio a causa dei notevoli cambiamenti che la malattia e le varie terapie comportano; paure frequenti inoltre, riguardano, il controllo di se' e del dolore, il fare o dire delle cose che non vorrebbero essere dette. Tutto quindi sembra rappresentare una paura dal quale difendersi. In realtà, tutti questi timori, angosce, possono essere ricondotti ad una sola paura: la paura di morire. Con ancora più precisione la paura di morire equivale alla paura di non sapere che cosa significa morire, dell'ignoto. Si nota, come i timori che normalmente caratterizzano i malati terminale, vengano trasmessi e percepiti anche dai familiari che si prendono cura dello stesso.
In tutto questo, ciò che davvero risulta importante, è il sostegno delle persone care, degli operatori e professionisti al malato che si è visto avere un'influenza notevole sulle sensazioni dello stesso e del relativo percorso di cura. Altro elemento importante è il significato che il malato da, sulla base del proprio vissuto, dei propri valori, sentimenti, emozioni, a quella stessa situazione.
Per analizzare meglio le emozioni vissute dal malato terminale, si può fare riferimento ad un'utile scala che nel corso del tempo è stata sviluppata da due autori Kubler e Ross. Secondo essi, infatti il malato inizialmente reagisce alla malattia con sentimenti di negazione e rifiuto della stessa, limitando di conseguenza l'emergere delle paure che normalmente e naturalmente caratterizzano il malato nella malattia. Una delle domande più frequenti che il malato pone non solo a se stesso, ma anche a medici, infermieri familiari è: “Perché io?”. Dopo tale interrogativo essi sostengono che il paziente deve passare la fase della tristezza e che dopo di essa, se adeguatamente accompagnato e sostenuto in questo percorso di presa di coscienza della propria situazione, che può avere la possibilità di vivere con consapevolezza la propria condizione132.
Si cercherà adesso di analizzare in modo più analitico gli stadi che Kubler e Ross hanno individuato nel percorso di presa di coscienza del malato.
Secondo questi studiosi, nella prima tappa di questo percorso si riscontra dapprima una reazione di shock e sgomento, la quale può durare da alcuni secondi fino giorni interi. La seconda fase invece si caratterizza per uno sfogo emozionale del malato, il quale cerca di 132 http://www.oasinforma.com/pagine/pagine_lz/psico_morente.html;
trovare una risposta o un perché delle propria condizione. Questo lo riversa principalmente contro il personale medico-sanitario e i familiari e/o care givers che gli stanno accanto, oppure cercando risposte nella spiritualità e nel dialogo con Dio. Superato ciò si entra nella terza fase ove il malato cerca ogni tentativo per allungare il più possibile la sua vita contrattando tutto ciò con le persone più vicine, facendo inoltre leva alla spiritualità. Una volta che ha compreso che non è possibile “venire ai patti” con la malattia, il malato terminale è pervaso da una sensazione di profonda tristezza, fino a sfociare nella depressione e nella rassegnazione. Ultima e quinta tappa prevista è una presa di coscienza della propria situazione, diventata cioè anche per la persona irreversibile.
Di questa classificazione, bisogna tenere ben presente che non è e non deve essere concepita come una classificazione rigida e uguale per tutti i malati. Ogni persona è diversa dalle altre sotto diversi aspetti, e quindi di conseguenza, anche le varie tappe possono non essere vissute nello stesso modo e nello stesso ordine nella quale sono state concepite133. Ogni malato infatti, in base al suo vissuto, ha un suo modo di reagire di fronte alle difficoltà e alla morte perché ognuno di noi ha un'ideologia e una spiritualità diversa rispetto alla stessa. Ogni uomo infatti mette in atto diversi meccanismi di difesa, prova emozioni diverse e i bisogni sono molto differenti134.
Quale significato assume questa classificazione di Kubler e Ross nei confronti dell'operatività quotidiana dei diversi professionisti come l'assistente sociale?. Questa stessa classificazione, assume comunque un'importanza operativa perché permette di avere un'idea generale rispetto alle sensazioni che può provare un malato terminale e può quindi essere d'aiuto perché permette una sorta di vicinanza empatica con il malato135.