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S.: Sì Però si trovano, la casa editrice Fandango li sta ripubblicando A quell’e-

tà lì io leggevo tanta letteratura francese, soprattutto l’Ottocento francese, quindi poi le letture che fanno tutti, cioè che dovrebbero fare tutti, ecco non credo di avere avu- to particolari autori. Se volete sapere qual è il libro che sta più dietro Violazione, in realtà è un saggio. Ovviamente non ha un rapporto diretto di filiazione con il testo, ma ha fatto da sfondo di idee in maniera molto forte: Vita activa di Hannah Arendt. Poi, quando avevo già iniziato il romanzo, anzi l’avevo già quasi finito, ho incontrato Il cielo è dei violenti di Flannery O’Connor e lì mi sono resa conto che c’erano dei punti di continuità, di vicinanza molto forti, almeno che io sentivo molto forti, poi con un libro in traduzione non si può mai parlare di vicinanza di scrittura, sono altri i punti di continuità. Queste direi che sono un po’ state le letture, se vogliamo, dietro al testo.

8 gennaio 2013

INCONTROTESTO: Iniziamo la nostra conversazione con una domanda sul- la funzione del milanese nella sua poesia. Lei ha esordito nel 1965, anche se i primi componimenti sono usciti negli anni Settanta. In quegli anni scrivere in dialetto rispondeva anche, almeno in parte, a un’esigenza mimetica? C’era il desiderio di riportare sulla pagina in maniera appropriata la “lingua di tutti”? Sulla rivista «Nuovo Argomenti», su cui sono uscite le prime poesie, descriveva la sua particolare forma di milanese come un «dizionario condizionato dalla classe sociale, dalle passioni che l’hanno alimentato, dal momento storico che si vuole esprimere». Quali sono dunque i motivi che l’hanno portata a scrivere in dialetto?

FRANCO LOI: Intanto vi prego di non considerare mai le date delle pubblica-

zioni come quelle in cui sono state scritte le poesie. Ci sono poesie che ho scritto nel 1965 che non sono state ancora pubblicate. Una l’ho pubblicata recentemente da Interlinea – I niül, nuvole – ed è addirittura del ’63, in origine era un monologo teatrale. Le poesie a cui accennate, pubblicate nel ’71, le ho invece scritte nel ’65. Inoltre ho scoperto, grazie al dottorato di uno studente allievo di Giovanni Tesio, che ha voluto studiare tutti i miei diari, che avevo scritto tante poesie in italiano di cui non avevo memoria.

Poi, che posso dire del futuro della poesia? Chissà quanti poeti, ma anche nar- ratori, filosofi, saggisti ecc., sono spariti col decadere delle tante civiltà che ci hanno preceduti. Voglio ricordarle l’incendio della Biblioteca di Alessandria d’Egitto, per fare un esempio – per non parlare del Diluvio universale.

E veniamo alla lingua milanese. Qualcuno ha scritto che non sono stato io a scegliere questa lingua, ma che è stato il milanese a scegliere me. Me lo sono trovato dentro attraverso l’esperienza: il lavoro, la politica, il contatto con la gente comune. In quel tempo, prima e dopo la guerra, persino gli immigrati da diverse parti d’Italia tentavano di parlare il milanese, spesso introducendo vocaboli delle loro regioni. Non ho mai sentito parlare milanese soltanto i toscani e i veneti.

Certo nella mia scelta ci sono anche motivi culturali e sociali e persino politici. L’usura dell’italiano e la sua inadeguatezza a esprimere le esperienze vissute tra la gente del popolo. E non si deve trascurare il fatto che l’italiano è una lingua inventata nel Cinquecento, prendendo a modello la parlata toscana colta e la sua letteratura più che la pratica linguistica dei nostri popoli. Dante ha scritto nel De vulgari elo- quentia, parlando del latino: “Diciamo che parlar vulgare s’intende quello nel quale son fatti esperti i fanciulli dai lor circostanti quando cominciano dapprima a distin- guere i suoni… V’ha bensì un altro parlare che i romani dissero grammatica… Di questi due parlari è adunque più nobile il vulgare, come quello che prima fu usato

27 Incontrotesto ha conosciuto Franco Loi il 24 novembre 2012 in occasione della serata Vèss òm e vèss puèta. Bobo Rondelli incontra Franco Loi. L’intervista qui riprodotta nasce da un secondo

dal genere umano, e come quello che è a noi naturale essendo l’altro artificioso”. D’altra parte, il grande linguista Graziadio Ascoli ha scritto che hanno statuto di lingua soltanto le lingue parlate da un popolo, mentre le altre non sono vere e pro- prie lingue, ma accorgimenti di natura politica, sia di natura nazionale o imperiale.

Inizialmente non scrivevo nemmeno poesie. Da bambino scrivevo cose di teatro, e più avanti racconti, tentativi di romanzi, saggi. Ho anche sempre tenuto un diario. Scrivevo ovunque, come potevo: in tram, in treno, sui posti di lavoro, quando leggevo libri; e scrivevo su agendine, su quaderni, su fogli sparsi, sui moduli di lavoro. Ma nell’estate del ’65 mi capitò di leggere I sonetti del Belli e nel settembre mi venne voglia di scrivere poesie. Cominciai in italiano. Ero stato a scuola, in casa si parlava italiano, salvo mia madre che spesso usava il suo parmigiano-colornese. Ma subito mi sono accorto che l’italiano non era adatto a esprimere quel che sentivo dentro di me. Spesso mi pareva d’imitare qualcuno dei poeti che avevo letto o imparato a scuola. Ci fu anche un pensiero di “appartenenza”: mi pareva che tutto ciò che avevo vissuto fuori dalla famiglia e dalla scuola aveva piuttosto il suono della lingua milanese. La prima poesia che scrissi in questa lingua aveva però anche inserti di parole italiane dette alla maniera di Milano: ad esempio sbevere, rezzo. D’altra parte tutti sappiamo che la gran parte delle lingue popolari – per il milanese circa il settantacinque, ot- tanta per cento delle parole – sono d’origine latina o greca, e che è spesso la parlata popolare a conservare vocaboli che nell’uso non hanno più corso.

I.: Secondo lei, qual è il futuro della poesia? E, nello specifico, di quella in dialetto?