mia madre era di Colorno (Parma) e mio padre di Cagliari, e io ho scritto anche in genovese e colornese, oltre che in milanese. Ho persino scritto un capitolo de L’angel in romanesco e un altro in italiano.
Quando sono arrivato a Milano nel 1937, questa città era completamente di- versa. C’erano, per esempio, i Navigli e i fiumi che attraversavano la città. I Navigli percorrevano, in parte, la circonvallazione attorno al Duomo e si diramavano in va- rie direzioni; in più c’erano l’Olona, la Martesana, il Seveso, la Vetra, la Vettabbia, il Lambro, dove ancora negli anni Cinquanta si andava a fare il bagno, per non parlare del Tombon de San March, davanti alla Chiesa di San Marco, luogo di diramazione o di rapporto dei Navigli coi fiumi. Tutto è stato trasformato in piazze o viali percorsi da automobili; sono rimasti soltanto i due Navigli, che collegano il Ticino di Pavia e
28 D. Alighieri, Purgatorio, XXIV, 52-54, in La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di G. Pe-
Vigevano, e la Darsena tra Porta Genova e Porta Ticinese, che però è l’ombra della vecchia distesa d’acqua, oggi inquinata.
L’automobile è diventata oggi la vera padrona delle strade, su cui ancora negli anni Cinquanta giocavamo a pallone noi ragazzi e i bambini, e la gente camminava o passava in bicicletta. Devo anche dire che, per effetto di un fenomeno di cui quasi nessuno parla – la trasformazione dell’industria manifatturiera in industria elettro- nica – stiamo vivendo una rivoluzione sociale pari a quella del nascere della prima industria. Causa, col prevalere della concorrenza cinese e indiana e il trasferimento di molte fabbriche all’estero, della crisi che stiamo imputando spesso alla speculazione bancaria e a quella politica. Basti pensare che Milano era la città della manifattura operaia e artigiana, mentre oggi tutti noi – lavoratori, ladri, professori, banchieri, bot- tegai, sterratori, elettricisti, veniamo indicati e confusi nel termine “terziario”.
L’esistenza di questa classe operaia faceva sì che ci fosse in Milano e fuori Mila- no, in tutta la Lombardia, una cittadinanza più colta, più cosciente di sé e più pron- ta ad aiutare gli altri. Poiché un uomo che lavora, se ama il proprio “fare”, impara qualcosa di sé e qualcosa della materia a cui si applica. C’erano operai che erano coscienti di questo e l’insegnavano persino a me.
Sì, la poesia ha sempre a che fare con il luogo in cui il poeta vive la propria vita. Se no che esperienza farebbe? Si tratta della propria attenzione al rapporto con gli uomini, le cose e l’ambiente in cui si opera… Quindi anch’io ho parlato della città di Milano, della sua trasformazione, del suo impoverimento sociale, dello smog, della riduzione degli alberi e dei giardini, del mio amore per la natura, delle paure, degli amori, ecc. Non ne parlo certo come un sociologo o uno studioso dei costumi. Tut- tavia la parola – e anche la musicalità – rendono conto delle gioie, dei dolori, delle paure, dei sogni e delle delusioni di una città che ho vissuto per più di ottant’anni. In quanto al mutamento, più case, più automobili, il continuo cambiamento delle case, dei negozi, la sparizione della gente per diverse cause, meno conoscenza e amicizia con la gente in strada, meno prati e gioco e meno voci dei bambini, meno aria os- sigenata: tutto questo ha il suo peso nella vita di ogni giorno. Si aggiunga che dagli anni Trenta fino agli anni Sessanta si sentiva ovunque la parlata milanese, una lingua che aveva segnato, per me, le vicende della guerra, del lavoro, della speranza; oggi invece la gente parla malamente l’italiano che non conosce, e i ragazzi stanno intan- to imparando l’inglese, lingua della pubblicità televisiva, della moda e dell’impero americano detto “globalizzazione”.
I.: Ci sono poeti che per una vita tornano sugli stessi temi o sugli stessi nodi – basti pensare a quell’«ostinata fedeltà» di cui parla Mengaldo a proposito di Sereni. Quanto, a distanza di anni, le sembra che la sua poesia rielabori e riprenda alcuni temi particolari?
F.L.: Be’, questo è un po’ difficile dirlo per Omero o per Dante. A mia volta, pen-
so di aver toccato troppi diversi “nodi” per poter dire qualcosa di simile.
Direi piuttosto che ci sono, in ogni poeta, parole simbolo che ritornano, e che però non hanno sempre lo stesso significato. Ad esempio, l’aria, l’umbra, el vent – per citarne qualcuna. L’aria, per esempio, può voler dire atmosfera, atteggiamento d’un uomo, clima, senso della storia, spirito dell’agire ecc. Per un ultimo esempio, se qualcuno dice: «Che aria tira?», o: «Tira un’aria!», sono due cose diverse. La prima significa “cosa sta accadendo?” o “che tipo di atteggiamento ha la gente?”; la seconda
può essere una minaccia, o constatare un’avversità. L’aria è uno di quei termini che uso spesso per significare qualcosa di così leggero o misterioso, per cui qualsiasi altra parola, forse più precisa e attinente, diventerebbe sviante e meno carica della complessità dei significati, o troppo riduttiva e più grossolana. Inoltre l’aria, a se- conda di come la collochi o come la dici, può essere segno d’inesistenza o di forte materialità. E quante cose sono esistenti eppure non le vediamo o tocchiamo. Gli atomi, oppure certe lontane galassie, o gli angeli, i ricordi del passato, le persone scomparse: la parola aria può farle sentire come esistenti.
Concedo che alcune volte si torna sugli stessi temi, ma da un punto di vista di- verso e spesso quello stesso argomento ci pare del tutto mutato. È come quando si legge un libro a dieci anni e poi a venti o a trenta e poi ancora più avanti. Col mutare della nostra coscienza, ecco che quella stessa cosa la vediamo diversa.
Tuttavia la poesia è uno dei processi creativi più liberi. Non sottostà a nessuna regola, nemmeno quella linguistica. Perché spesso chi scrive inventa le parole più consone alla musicalità del verso o all’efficacia sonora di una parola.
Anche per questo tutte le disquisizioni su lingua, dialetti o parlate gergali di- venta soltanto uno sfoggio professorale e per nulla attinente al farsi della poesia. La citazione già fatta di Leopardi significa anche tutto questo. Ma si può citare anche Benedetto Croce, del quale la figlia ha fatto pubblicare da Laterza un libro sulla po- esia. Egli afferma che nel filosofo accade il medesimo che nel poeta. Non è lui che filosofa, ma Dio o la natura… Anzi, dirò di più, è la cosa stessa che pensa sé stessa in lui. E questo lo cito perché non si pensi che quanto detto sia pensato durante la fase creativa, giacché è comunque sempre inconscio il fare delle arti e delle filosofie.
I.: Quando è venuto a Siena, come anche poco fa, ha accennato all’esistenza di alcuni quaderni dove appuntava suggestioni, pensieri, cose della vita, che in alcuni casi si sono poi trasformate in poesia. In cosa consistono questi qua- derni? Le capita ancora di annotare fatti minimi che rielabora in un secondo momento, anche dopo molti anni dalla loro stesura iniziale?