Appena finisce la raccolta delle olive in Andalusia, tre quarti delle nonne diventano maghe per il diletto dei piccoli nipoti e, soprattutto, per preparare le scorte di olive in salamoia di tutta la famiglia. Non so se sapresti calcolare - cominciando dal volume di acqua con- tenuta nei più strambi recipienti di terracotta - la quantità di sale ne- cessaria per preparare una saporita e sana salamoia concepita per conservare per molti mesi le olive. Io no.
Le nonne andaluse, con l’aiuto di un uovo, lo sanno: “Diluite poco a poco del sale grosso nell’acqua contenuta in qualunque recipiente e, ogni tanto, immergeteci l’uovo “collaboratore”. Inizialmente le ve- drete andare a fondo come un palombaro di piombo, poi, man mano che aumenta la quantità di sale sciolto, si trasformerà lentamente nel miglior dei nuotatori e rimarrà perennemente a galla.
Direte, ma cosa c’entrano le nonne, il sale e l’uovo con il design? C’entrano, c’entrano.
Provate ad immaginare delle sostituzioni: nonne travestite da desi- gner, uova trasformatesi in progetti/prodotti e il sale come cultura umanistica e scientifica, e come tecnologie antichissime e iper mo- derne...ma, anche poesia, musica, capacità d’affabulazione e tutto quello che usate mentre progettate.
Domanderete, e l’acqua? Pensate al rumore di fondo, al processo del progettare, alle perverse distrazioni che, come il Gatto e la Volpe, ten- teranno di convincere il Pinocchio che è in voi a seminare il vostro oro - intuizione, perseveranza, creatività - nell’orto massificato delle tendenze commerciali auto indulgenti.
La salamoia del design oggi è più ricca che mai. La varietà e il numero degli ingredienti a disposizione è in continua crescita e questo com- plica enormemente il processo di progettazione. Come ben sanno i cuochi, i piatti troppo ricchi ed elaborati tendono a giocare brutti scherzi, a volte possono sembrare eccessivi e a volte inconsistenti. Vedere emergere lentamente un prodotto, assistere al suo definivo galleggiamento e guardarlo prendere la sua strada ha qualcosa di sorprendente e magico, esattamente come il diluire - con metodo, perseveranza e cura - sale nell’acqua per conservare e insaporire le olive andaluse
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Santiago Miranda
Designer
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Dopo più di un secolo di Industrial Design cre- do che si possa affermare che la trasversalità nel Design è presente e sta dando risultati, fino a qualche tempo fa impensabili, molto in- teressanti.
La grande trasformazione tecnologica che stiamo vivendo mette a stretto contatto espe- rienze diverse, ampliando i confini del Design tradizionale, permettendo sovrapposizioni e connessioni progettuali, trasversali.
Sempre più i designers sono chiamati alla ri- organizzazione del visibile (Peter Bahrens) applicando soluzioni innovative, digitali e ana- logiche, per riformulare o riinventare prodotti conosciuti e nuovi. Così vediamo ad esempio profonde integrazioni tra architettura, luce, suono, arredo e ancora tra domotica, mobilità e interconnettività: una chiara direzione per prodotti sempre più universali.
Anche il prodotto comunemente descritto come artigianale, inevitabilmente, sarà sog- getto a processi innovativi e metodologie co- struttive sempre più avanzate (vedi stampe 3D), al punto che un pezzo unico per rimanere tale e con una sola anima, dovrà accettare la distruzione del suo software. Ma allo stesso tempo, il crescente uso del Design o della pa- rola Design in modo superficiale ed equivoco, sta provocando una vera e propria decadenza intellettuale e concettuale.
Il Design è in testacoda, pericolosamente fuori controllo. Disciplina, filosofia ed etica proget- tuale sono avvolte da una densa nebbia inqui- nante, composta da figure che nulla hanno a che fare con il Design.
La parola Design è abusata, sfruttata, mal- trattata, utilizzata come una maschera car- nascialesca per coprire lacune culturali e professionali inconfessabili: un opportunismo trasformista che lascia attoniti. Così che ex ar- tisti di spettacolo, sportivi, modelle, cantanti, blogger, politici, piccole e grandi star, marke- ting manager e persino frequentatori di social
network, diventano e si autoproclamano De- signers senza pudore e senza rispetto verso una delle professioni più complesse e artico- late al mondo.
Questi signori (che ovviamente, non si trasfor- mano in avvocati, medici, chirurghi etc etc...) sono mutanti prefabbricati dal marketing e dal consumo sfrenato e superficiale. Sono danno- si. Colgono esclusivamente l’opportunità di in- dossare un velo cosmetico e affondano la loro impreparazione occupandosi solo di “esteti- ca” superficiale e trend marchettari.
Cosa è rimasto del Design? Quale sarà il suo divenire? È rimasto molto, fortunatamente. In primo luogo dietro al buon design c’è e ci sarà sempre un bravo designer preparato. Dalla formazione, Scuole, Università, Master, ai tirocini presso studi professionali e/o pic- cole imprese fino a ciò che le grandi imprese hanno saputo fare e sanno come organizzare in centri di progettazione creativa sempre più strutturati.
È rimasta la cultura del design, con la sua sto- ria industriale...le associazioni, le fondazioni, i musei.
È rimasto che un buon prodotto rispetta un’e- tica progettuale, che engineering ed estetica sono un’unica disciplina per dare senso a una forma.
È rimasto che un vero Designer affronta com- plessità interdisciplinari molto complesse. Ho affrontato per oltre 45 anni di professione moltissime problematiche, dedicando una vita alle auto e ora al product e alle calzature da donna, trovando sempre una soluzione esteticamente valida.
Metodologia, processo e disciplina sono la base di ogni mia nuova idea di ogni nuovo progetto. Sono i punti di partenza per ogni soluzione ai problemi, con l’unica speranza di trovare una risposta all’estetica, alla bellezza e alla poetica
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Walter De Silva Designer Andr ea R ov attiDesign trasversale o
design di traverso?
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I confini del design? Per il designer non credo ne esistano più. Oggi il creativo può esprimer- si su qualsiasi tema, osando anche in settori non propri: sempre più spesso è chiamato a rispondere all’esigenza della contaminazione o a sovraintendere a questo tipo di azioni. Il limite? È la cultura del progetto: troppo spes- so ci si ferma poco dopo l’idea, senza appro- fondire. Approfondimento che può anche di- pendere dal saper ben realizzare, dalla cultura del saper costruire che in ogni settore sembra essere sottostimata tanto da perdersi. I metodi tradizionali “lasciano” a favore delle tecnologie: additiva, sottrattiva, della realtà aumentata, delle “App”.
Oggi il progetto si compie in un mondo fatto di reale ed immateriale dove le forme “prevedi- bili” di una bilancia o di una lampada vengono completate da funzioni più o meno nascoste che ci inviano l’aggiornamento del nostro peso o consentono un appoggio in grado di ricaricare per induzione cellulare un orologio a fine giornata.
Funzioni tanto “necessarie” da divenirne sem- pre più spesso l’elemento di scelta che ne de- creta il successo commerciale che ci “obbliga” a rottamare oggetti del cuore…sempre più inutili. Se tutto era stato inventato, oggi tutto può essere ripensato. Il concetto di “forma e funzione” si aggiorna in un mix complesso
quanto la semplicità con cui spesso, complice un minimalismo dettato più dal risparmio che dallo stile, ci appare il prodotto finito.
In un generale impoverimento del pensiero e del fare tutto questo è progetto o un furbo ammiccamento a mascherare l’incapacità di gestire super capacità? La società merceo- logico-digitale ci lascia un universo saturo di merci, informazioni e tecnologie che fanno parte del nostro quotidiano. Una “vegetazione densa”, post-digitale. Non basta disporre di mezzi, bisogna saper creare ed è necessario tornare a progettare comprendendo il senso e la responsabilità di questa operazione. Troppo spesso i fondamentali si perdono a fa- vore dell’innovazione o dell’innamoramento tecnologico o da marketing: i prodotti diven- tano sempre meno di sostanza e più di appa- renza.
Il manufatto, emblema del “made in Italy”, è sempre più raro. In questo contesto sembra stia tornando di moda lavorare con le mani, in maniera fisica: si parla molto di autoprodu- zione. Il “maker” salverà il mondo? Non credo. L’effetto “villetta del geometra” attende giusto svoltato l’angolo.
I prodotti e gli spazi, il pensiero, devono torna- re al bello, all’utile, all’intelligente.
Ripensare da zero nell’automotive ha significa- to rinnovare il settore nei metodi e nell’offerta.
Gioacchino Acampora Designer Filibert o Mat eldi, 1953