DON LORENZO MILANI E MARIA MONTESSORI DUE PENSATORI TRA SOCIETà E INFANZIA
2. La scelta di Dio e della Chiesa
A venti anni don Lorenzo Milani si converte e diventa parte attiva della Chiesa. È la prima scelta, imprevista, ma fondamentale e impre-scindibile per comprendere le sue idee, le sue scelte successive, la sua vita, i suoi scritti.
La sua fede è ortodossa e nello stesso tempo libera e liberante. Scri-vendo a Giorgio Pecorini, si attribuisce «assoluta indifferenza per i dogmi. Loro [i liberali] non li rammentano mai perché non ci credo-no. Io non li rammento mai perché ci credo. Quando una cosa ti è davanti agli occhi come una realtà oggettiva e ben palpabile, non perdi tempo a rammentarla e descriverla e difenderla ogni cinque minuti.
Nessuno scrive libri o fa conferenze o ingaggia appassionate discussio-ni per dimostrare che di giorno c’è il sole e di notte c’è il buio. E così faccio con l’esistenza di Dio e la storicità del Vangelo ecc. ecc. A scuola le discussioni si prendono su argomenti più seri. Quelli che si danno pensiero ad immettere nei loro discorsi a ogni piè sospinto la verità della fede sono anime che reggono la fede disperatamente attaccata alla mente con la volontà e la reggono con le unghie e con i denti per paura di perderla, perché sono interiormente rosi dal terrore che non sia proprio tutto vero ciò che insegnano. Ogni nuova idea, ogni nuovo
53 governo, ogni nuovo libro, ogni nuovo partito li mette in allarme.
Fanno pensare alla psicosi del crollo che si è diffusa dopo il crollo di Barletta. Gente sempre con il puntello in mano accanto al palazzo che sono incaricati di custodire e della cui solidità dubitano. […] Non po-trei vivere nella Chiesa neanche un minuto se dovessi viverci in questo atteggiamento difensivo e disperato. Io ci vivo e ci parlo e ci scrivo con la più assoluta libertà di parola, di pensiero, di metodo, di ogni cosa;
se dicessi che credo in Dio direi troppo poco, perché gli voglio bene.
E capirai che voler bene a uno è qualcosa di più che credere nella sua esistenza!!! E così di tutto il resto della dottrina. Ecco perché la mia scuola è assolutamente aconfessionale come quella di un liberalaccio miscredente».
Con parole analoghe scrive in Esperienze pastorali: «Quando ci si affanna a cercar apposta l’occasione di infilar la fede nei discorsi, si mostra di averne poca, di pensare che la fede sia qualcosa di artificiale aggiunto alla vita e non invece modo di vivere e di pensare». Il rapporto con la Curia e con il vescovo diventa presto problematico e doloroso, ma, nonostante tutto, la fedeltà alla Chiesa e la “fame” di ortodossia non vengono mai meno. I contrasti con la Curia e il vescovo nascono già a San Donato in seguito alla scelta “pastorale” di dedicare il suo tempo alla scuola popolare per i suoi giovani operai.
La destinazione di Barbiana, poi, è un «assurdo esilio in una par-rocchia disabitata», «il confino in un deserto e praticamente lo spre-tamento», ma la fiducia nella Chiesa e la “fame” di ortodossia del gio-vane prete non vengono meno: «Mi hanno confinato in un deserto perché non potessi nuocere. […] Con pazienza da eremita ho trasfor-mato il deserto in un minuscolo giardino». Scrive la mamma Alice alla figlia Elena: don Lorenzo «è bello e dolce a Barbiana, ma non si può, o almeno io non posso, rassegnarmi a quel deserto intellettuale in cui si dibatte una forza intellettuale (oltre che morale) come quella di Lorenzo».
Forza morale e intellettuale che don Milani, scrivendo a don
Anto-nio Arfanotti, esprime in questi termini: «Combattivi fino all’ultimo sangue e a costo di farsi relegare in una parrocchia di 90 anime in montagna e di farsi ritirare i libri dal commercio, sì tutto, ma senza perdere il sorriso sulle labbra e nel cuore e senza un attimo di dispe-razione o di malinconia o di scoraggiamento o di amarezza. Prima di tutto c’è Dio e poi la Vita Eterna».
L’essere nella Chiesa non comporta la rinuncia alla critica. Per don Milani la critica non è solo lecita e naturale, ma diventa doverosa,
«un preciso dovere di pietà filiale. È un nobile dovere proprio perché adempierlo costa caro». Il motivo profondo di questo atteggiamento critico è nel loro bene: «Vogliamo loro bene. Vogliamo il loro bene, cioè che diventino migliori». Amore strano, violento, ma simile a quello di Dio che ci «ama così, in modo violento».
Nella lettera-articolo per Nicola Pistelli, il discorso diventa più serrato e organico. «Nessun vescovo può vantarsi di non aver nulla da imparare.
Ne ha bisogno come tutti noi per la responsabilità maggiore che porta e per l’isolamento in cui la carica stessa lo costringe. E non è superbia voler insegnare al vescovo, perché cercheremo di parlargli ognuno di quelle cose di cui noi abbiamo esperienza diretta e lui nessuna. L’ul-timo parroco di montagna conosce il proprio popolo; il Vescovo quel popolo non lo conosce. L’ultimo garzone di pecoraio può dar notizie sulla condizione operaia da far rabbrividire dieci vescovi, non uno.
L’ultimo converso della Certosa può avere più rapporto con Dio che non il vescovo indaffaratissimo. E il vescovo a sua volta ha un campo in cui può trattarci tutti come scolaretti. Ed è il sacramento che porta e quelli che può dare. In questo campo non possiamo presentarci a lui che in ginocchio. In tutti gli altri ci presenteremo in piedi. Talvolta anche seduti e su cattedre più alte della sua. Quelle in cui Dio ha posto noi e non lui. L’ultimo di noi ne ha almeno una di queste cattedre e il vescovo davanti a lui come uno scolaretto».
Analogo pensiero e analoghe espressioni sono presenti in una lette-ra a Elena Blette-rambilla del 28 aprile 1965: «Vorrei piuttosto che i giovani
55 preti maturassero la coscienza di essere loro stessi responsabili delle loro parole e dei loro atti, riconoscendo al vescovo solo la autorità di punire chi sbaglia e non quella di prender lui tutte le responsabilità e le decisioni. In altre parole: obbedienza assoluta quando arriva la condanna, mai chiedere consiglio prima di prendere una decisione».
Nell’ambito della vicenda che ha inizio con la Risposta di don Lo-renzo Milani ai cappellani militari toscani che hanno sottoscritto il co-municato dell’11 febbraio 1965 (conosciuta come Lettera ai cappellani militari), secondo i quali l’obiezione di coscienza sarebbe «un insulto alla patria e ai suoi caduti» e, «estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà», porta il sacerdote davanti al Tribu-nale peTribu-nale per apologia di reato. L’atteggiamento di critica responsa-bile e costruttiva non solo verso l’autorità ecclesiastica ma anche verso quella civile trova la sua sintesi nell’espressione l’obbedienza non è più una virtù, che non è un invito alla subordinazione ma ad assumere le proprie responsabilità e a non delegarle ad altri, a uscire dalla sotto-missione passiva e diventare sovrani.