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2.4 – Scopi individuali e scopi organizzativi: ipotesi di potenziale conflittualità

Dopo l'introduzione dell'organizzazione scientifica del lavoro e le analisi svolte da Mayo sull'influenza del fattore umano nei processi produttivi, si evolve lentamente la percezione di osservatori e studiosi circa il rapporto tra la base ed il vertice dell'organizzazione.

Se i lavoratori subordinati riescono a mettere in atto dinamiche a livello informale che si ripercuotono (positivamente o negativamente) sulla produttività dell'organizzazione, cominciano ad emergere i primi dubbi relativi alla completa efficienza del metodo produttivo scientifico e sui procedimenti di astrazione/estraneazione messi in atto con la razionalizzazione della lavorazione. Mentre Mayo ed i suoi collaboratori tendevano ad un'ideale coincidenza tra l'adesione emotiva dei dipendenti ed il fine dell'impresa, qualche autore comincia a mettere in dubbio proprio questa ipotetica coincidenza.

Chester Barnard (che scrive alla fine degli anni '30) avanza infatti l'ipotesi per cui il massimo a cui si può tendere è di ampliare quanto più possibile la disposizione ad obbedire (che l'autore chiama, in un interpretazione più neutrale, “zona di indifferenza”) dei lavoratori. Anch'egli, come Taylor non è uno studioso di dottrine organizzative, ma è uomo di mestiere: manager e dirigente

industriale.

Taylor e Mayo nelle loro elaborazioni teoriche, vedevano l'individuo come elemento irrazionale da dominare in tutto e per tutto (l'uno considerandolo naturalmente infingardo, l'altro dandogli la possibilità di esternare parte della propria soggettività); Barnard invece eleva l'individuo, considerandolo tendenzialmente razionale nel senso che agisce in base all'utilità netta data dalla differenza tra costi ed incentivi della partecipazione alla cooperazione (se la differenza è positiva coopera, altrimenti decide di non partecipare ad essa), ma bisogna tener presente l'assunto principale per cui i moventi individuali non coincidono e non coincideranno mai con quelli organizzativi. La razionalità individuale può allora rappresentare qualcosa di opposto a quella organizzativa. E' questo l'assunto fondamentale su cui viene costruita la sua elaborazione teorica.112

Vi è quindi una tensione, non potenziale ma effettiva, tra i moventi individuali e quelli organizzativi, tanto da rendere improbabile la loro convergenza.

La centralità della funzione dirigente per Barnard è allora data dalla necessità di valorizzare la cooperazione tra dipendenti ed organizzazione, data questa incongruenza di fondo. La figura di dirigente che propone Barnard è quella di un dirigente invisibile, che deve esercitare “un'arte delicata”113 nel cercare di mantenere delle relazioni con il personale che siano una vantaggiosa

condizione di impiego e che possano anche soddisfare i moventi individuali dei singoli. Comunque l'individuo è visto in funzione degli scopi dell'organizzazione.114

Cooperazione e direzione sono due aspetti inscindibili del suo studio sulle organizzazioni. L'autore sembra non mettere mai in discussione il problematico concetto di cooperazione, nonostante le premesse su riportate; nei suoi scritti non fa mai riferimento al conflitto, bensì le tensioni espresse tramite la non coincidenza tra motivazioni individuale e organizzative possono sfociare al massimo in una cooperazione sempre più limitata che può ipoteticamente portare alla dissoluzione dell'organizzazione; ma il conflitto non è mai esplicitamente considerato dall'autore. Un altro aspetto controverso è quello che riguarda l'alto livello di astrazione delle sue elaborazioni, sia per quanto riguarda i soggetti interessati, ovvero i collaboratori (categoria entro la quale ricomprende tutti i soggetti che instaurano un rapporto con l'azienda basato sull'equilibrio incentivi/contributi), sia per quanto riguarda il concetto di organizzazione, entro la quale l'autore cerca di ricomprendere qualsiasi tipo di organizzazione (economica, religiosa, politica ecc ecc).

Barnard apre il suo discorso partendo da lontano, definendo un individuo come colui il quale ha

112 Chester Barnard, Le funzioni del dirigente. Organizzazione e direzione, Utet, Torino, 1970, p XIV. 113 Ivi, p 91.

un comportamento derivante da “fattori psicologici” risultanti da fattori fisici, biologici e sociali che interagiscono con l'ambiente circostante.115 Il suo comportamento si assume che sia libero,

ma questa libertà risulta avere dei limiti: tali limiti sono dati dalla scarsità delle risorse, dalla storia fisiologica e biologica dell'individuo stesso (es.: gli esseri umani non hanno le ali, quindi non possono volare) ed anche dal fatto che se il ventaglio di opzioni è troppo ampio la scelta diventa più problematica. I limiti sopra elencati non devono essere interpretati come una negazione del libero arbitrio, ma la condizione che ne evidenzia l'importanza fondamentale. Una delle principali funzioni del dirigente in un'organizzazione è quella di far sì che il comportamento individuale si basi sul libero arbitrio.

Le scelte consapevoli che si effettuano sotto tali vincoli, infine, sono generalmente finalizzate ad uno scopo.116 Lo scopo organizzativo viene descritto dall'Autore come ciò che è necessario fare

per esercitare il lavoro quotidiano, per far sì che ogni cooperante esegua precisamente ciò che ci si aspetta che egli esegua. Barnard sembra quasi voler banalizzare il concetto.

In questo senso lo scopo organizzativo allora non è qualcosa che viene deciso dall'alto e che riguarda esclusivamente la dirigenza ma al contrario, lo scopo organizzativo è ciò che ogni individuo fa concretamente e riguarda tutti i gradini della gerarchia e tutti i membri che collaborano al concreto andamento dell'organizzazione (dai dirigenti ai fornitori, dai lavoratori ai clienti).

Perseguendo lo scopo organizzativo si raggiunge anche l'efficacia organizzativa in termini di realizzazione concreta e quotidiana di singoli atti produttivi. Si adotta questa particolare concezione perché, secondo Barnard, parlando di fini organizzativi si tende a generalizzare il concetto: per esempio, per un'azienda che produce scarpe si dice che il fine ultimo sia proprio quello di produrre scarpe, mentre a livello concreto il suo fine è quello di mettere in atto quotidianamente le azioni che permettono a quell'azienda di produrre ogni giorno scarpe diverse. L'insieme dei fini concreti, continuamente riprodotti o rinnovati, crea in effetti il fine ultimo generale, che non rispecchia però il reale svolgersi dell'attività lavorativa.

L'efficienza invece per Barnard, ha a che fare con i moventi individuali e dipende solamente dalla percezione del grado di soddisfazione di questi ultimi, che hanno i singoli individui. Il sistema cooperativo può agire positivamente sui moventi individuali soprattutto attraverso la distribuzione dei fattori produttivi risultanti dal processo cooperativo; essi possono essere materiali ed immateriali ed ogni individuo ha bisogno di un diverso equilibrio tra gli uni e gli altri in modo che il saldo non sia pari a zero ma positivo.117 Se il saldo della somma della

115 Ivi, p 24. 116 Ivi, p 25.

percezione di soddisfazione dei singoli individui è positiva, l'organizzazione sarà in grado di sopravvivere ed essere anche efficace. Sembra che “la sola misura dell'efficienza di un sistema cooperativo sia la sua capacità di sopravvivere”118. Si può ipotizzare allora che l'efficienza sia

l'unica variabile dell'efficacia organizzativa?

Barnard basa il concetto di efficienza sulla soddisfazione delle motivazioni individuali grazie ad incentivi materiali ma soprattutto non materiali, per includere nella sua analisi tutta quella parte di organizzazioni che non si basano su una distribuzione di incentivi materiali ai propri cooperanti (associazioni religiose, culturali, volontaristiche ecc ecc), in modo da poter adattare l'analisi ad un livello di astrazione molto elevato.

Si procede poi a sottolineare che un individuo può essere considerato sia come una funzione di un determinato sistema cooperativo (il dirigente, il manutentore, l'operaio), sia come elemento esterno ad essa, unico ed irripetibile: nelle parole dell'autore “[...] una volta come funzione, un'altra come persona”119. Dal punto di vista della “persona”, l'individuo risulta essere, secondo

l'autore, isolato ed addirittura opposto al sistema cooperativo120 proprio perché agisce in base a

quei fattori psicologici, che l'autore chiama moventi, che derivano da quegli elementi precedentemente richiamati (fattori fisici, biologici e sociali) che sono in massima parte esterni all'organizzazione stessa, che hanno natura complessa e composita e che hanno a che fare comunque con l'individuo.

Ammettendo momentaneamente solo esigenze fisiche e biologiche si avrebbe cooperazione solo per superare limiti individuali in vista di un preciso scopo.

Si comincia a delineare allora, la fondamentale distinzione tra moventi individuali e fini organizzativi: una volta avviata una collaborazione tra due o più persone, lo scopo a cui è finalizzata la collaborazione non è più personale ma congiunto; e si precisa anche che i fini individuali non possono essere raggiunti attraverso l'azione cooperativa se non avviene in quest'ultima, un processo intermedio di tipo distributivo. È interessante notare come Barnard si curi di specificare che: “Qualunque cosa si ottenga con l'azione cooperativa […] non è mai distribuita direttamente e raramente viene distribuita tutta. Inoltre non c'è e non può esserci alcuna diretta relazione causale fra gli sforzi individuali che costituiscono una parte di un sistema cooperativo di sforzi e l'intero prodotto cooperativo o qualsivoglia parte distribuita di esso”.121

Barnard però non giustifica e non spiega questa importante affermazione; in essa si può forse riscontrare una sorta di formulazione alternativa del concetto di plusvalore, quando egli afferma

118 Ivi, p 49. 119 Ivi, p 26.

120 Ma potremmo fare la stessa considerazione per il proprietario dell'organizzazione? In tal caso l'opposizione sembra non risultare cosi evidente.

che il risultato ottenuto dall'azione cooperativa non è mai distribuito integralmente, come se una quota più o meno consistente di esso debba rimanere, come effettivamente rimane, nelle mani di chi raccoglie il risultato dell'azione cooperativa stessa. Inoltre, si nega esplicitamente che possa esserci una relazione causale o qualsiasi rapporto di proporzionalità, tra lo sforzo prestato e la ricompensa ricevuta; in tal modo si nega la crucialità dell'apporto dei lavoratori al processo di lavorazione, come se la qualità e la quantità del loro contributo non fosse effettivamente determinante.

Il riferimento alla cooperazione è stato sviluppato sinora considerando solo i fattori fisici e biologici; devono necessariamente essere considerati nell'argomentazione anche i fattori psicologici e sociali, che sono però per loro natura difficilmente distinguibili e delineabili.

La prima considerazione da fare è che l'individuo, una volta associato, accetta implicitamente di avere interazioni sociali con gli altri individui che compongono l'impresa. Questo fatto, benché non rappresenti uno dei fini organizzativi, non di meno è comunque necessario. Tali interazioni vanno necessariamente a modificare i moventi individuali dei singoli soggetti, o in senso favorevole o in senso contrario all'impresa. Esse inoltre non si hanno soltanto tra singoli individui, ma anche tra individuo e gruppo (non si specifica se gruppo inteso a livello formale o meno), ed hanno parimenti conseguenze sui moventi individuali.

Di conseguenza, sarà compito della dirigenza far sì che queste circostanze volgano a favore dell'impresa e della cooperazione. Se, infatti, queste relazioni tra singoli individui e tra individui e gruppo sono inconsapevoli e non logiche (per i singoli individui), ciò non impedisce che “un sistema cooperativo possa anche avere con un individuo una relazione consapevole e deliberata”.122

Il primo riferimento emerge quando l'autore parla della più semplice formula cooperativa: il colloquio. Esso può essere “alterato con sforzo intenzionale”123, ad un grado elaborato e

complesso e agendo sulle singole parti per influenzare l'intero. L'alterazione è possibile, sostanzialmente, perché nell'opinione dell'autore ogni cosa esistente è influenzata da fattori fisici, biologici e sociali: si può agire efficacemente sia sui fattori fisici che su quelli biologici, ma sembra emergere la circostanza per cui il vero fulcro su cui poggia la leva del cambiamento è quello dei fattori sociali.

Barnard adotta una definizione di organizzazione che gli consente di potervi includere ogni tipo di organizzazione esistente: “[...] organizzazione come un sistema di attività o forze di due o più persone consapevolmente coordinate”.124 L'organizzazione così concepita, è l'elemento che

122 Ivi, p 47. 123 Ivi, p 52.

unisce i vari sistemi (fisici, biologici, psicologici, sociali ecc ecc) che vengono ad operare in tutti i casi in cui si ha una concreta forma di cooperazione. Le azioni e le forze personali a cui ci si riferisce nella definizione sono sempre e soltanto riconducibili alle persone che contribuiscono all'organizzazione e mai alle cose materiali e fisiche, di modo che un cliente che acquista, un lavoratore in catena di montaggio, un fornitore che fornisce materiali contribuiscono all'organizzazione in ordine alla transazione, allo sforzo, al trasferimento dei materiali e non alla cose fisiche in sé. Ma queste azioni sono generalmente impersonali: il carattere di queste “è determinato dalle esigenze del sistema, o di qualunque cosa domini il sistema”.125

Elementi essenziali al costituirsi di un'organizzazione, sono per l'autore:

la comunicazione: la cooperazione ed il raggiungimento di un fine sono possibili solo

attraverso la comunicazione. La definizione di un adeguato sistema comunicativo è uno dei compiti nevralgici riservati alla dirigenza. Per Barnard l'autorità non è tanto la posizione al vertice della gerarchia, quanto la capacità di emanare dei comandi (comunicazioni perentorie) che vengano riconosciuti come tali dai sottoposti perché corrispondono a codici di efficacia e correttezza procedurale. Questa corrispondenza la si può trovare solo nel caso in cui tali codici di efficacia e correttezza siano condivisi da tutti. Per fare questo è necessario un buon sistema di comunicazione. I dirigenti risultano essere punti di intersezione, di smistamento e di selezione di canali informativi, ma non in quanto uomini dotati di capacità straordinarie, ma semplicemente come esecutori di una funzione aziendale (una funzione uguale alle altre, che però ovviamente richiede particolari competenze e capacità: “Gli uomini non sono né buoni né cattivi, ma solo buoni o cattivi in questa o quella posizione”126); ciò non significa che nel sistema di

comunicazione abbia rilevanza soltanto la posizione, ma al contrario esso può essere attivato solo attraverso l'azione umana. Si specifica poi che, data la centralità della funzione direttiva – legata soprattutto al sistema di comunicazione – è proprio (se non esclusivamente) su di essa che si deve esercitare il controllo e la supervisione; i modi, le tecniche ed i soggetti che svolgono tali funzioni di controllo non vengono però discussi dall'autore.127 Il continuo flusso di comunicazione tende a modificare ininterrottamente

gli obiettivi concreti. Barnard sembra essere ben consapevole dell'importanza della base della piramide e del fatto che il lavoro dirigenziale consista in massima parte proprio nel catechizzare quella parte fondamentale dell'organizzazione che ne costituisce la base operativa. Sembra confermare questa ipotesi quando afferma: “Ho l'impressione che

125 Ivi, p 77. 126 Ivi, p 195.

almeno i nove decimi di tutta l'attività dell'organizzazione si basi sulla responsabilità, l'autorità e le specificazioni di coloro che apportano gli ultimi contributi, che applicano energie personali agli obiettivi finali concreti […] La formulazione e la definizione del fine è allora una funzione molto distribuita, di cui solo la parte più generale è direttiva. In questo fatto sta la più importante difficoltà intrinseca nell'attività dei sistemi cooperativi – la necessità di educare quelli che sono ai più bassi livelli, sui fini generali, sulle decisioni importanti, affinché permanga tra essi la coesione e siano in grado di prendere coerentemente le decisioni finali particolari; e la necessità, per coloro che sono ai più alti livelli, di comprendere costantemente le condizioni concrete e le decisioni specifiche dei contribuenti finali, dalle quali e dai quali i dirigenti sono spesso isolati”.128

la propensione a contribuire: con ciò precisamente si intende “abnegazione di sé,

cessione del controllo della condotta personale, spersonalizzazione dell'azione personale”.129 In altre parole, la disponibilità ad unirsi e a fare del proprio personale

contributo un'azione impersonale per un fine altrettanto impersonale. Inoltre, bisogna aggiungere che tale volontà è soggetta a fluttuazioni, non è costante, e varia in base al bilancio costi/benefici che deriva dal cooperare o meno e dai moventi personali dei soggetti. Tale definizione riflette sostanzialmente la posizione di Barnard per cui i moventi individuali sono opposti agli obiettivi organizzativi; pertanto, come egli sottolinea, non è possibile cooperare a meno che non si rinunci al sé, nell'ambito particolare della cooperazione;

il fine comune: su questo punto il discorso è complesso. L'autore infatti ritiene che non è

tanto importante quale sia effettivamente il fine concreto dell'organizzazione; è fondamentale, invece, quello che è ritenuto tale da parte di coloro che cooperano nell'organizzazione. Non ci si riferisce infatti alle singole operazioni quotidiane di cui si è precedentemente parlato, che costituiscono il fine concreto, ma al fine teorico e generico che da queste nasce e che ha il compito di compattare la cooperazione in vista di un più alto obiettivo comune. Tale opera di convincimento è una delle funzioni più importanti della direzione. Più il fine è generale, intangibile e sentimentale, meno emergeranno palesemente le divergenze in merito alla sua interpretazione. La persona ha, nell'ambito organizzativo, due punti di vista, ovvero quello attinente al comportamento organizzativo (in relazione al quale abbiamo ora esposto la teoria della creazione di un fine organizzativo generico, intangibile e sentimentale) ed una motivazione individuale completamente indipendente da esso, talvolta addirittura opposta (nel testo si fa infatti

riferimento ai soldati in guerra, che svolgono con competenza le proprie funzioni a prescindere dal fatto che siano d'accordo in merito ad esse).130

Si è parlato finora di organizzazioni formali perché l'autore fa una netta distinzione tra esse e le organizzazioni informali, che egli descrive come interazioni tra due o più persone che non sono governate da nessun fine comune specifico e consapevole131 (anche se spesso tali relazioni

inconsapevoli portano comunque a dei risultati concreti). In realtà, anche nella definizione su riportata di organizzazione formale, il fine non è espressamente menzionato; si può forse supporre allora che la vera differenza tra queste e quelle sia in effetti solo nella consapevolezza delle azioni?

Si aggiunge anche che tali organizzazioni informali sono spesso collegate a quelle formali e, anzi, sovente rappresentano la base proprio per la formazione di quelle stesse organizzazioni formali.

Sostanzialmente quindi, le organizzazioni formali rappresentano l'impalcatura della società: esse danno continuità e coesione. Al contrario, se non vi fossero tali tipi di organizzazione, si andrebbe incontro a disgregazione ed ostilità. Le organizzazioni formali ed informali però sono interdipendenti: non possono vivere le une senza le altre, ma al contrario rappresentano i presupposti le une delle altre, poiché da un'organizzazione informale ne può nascere una formale che a sua volta influenzerà la potenziale nascita di altre organizzazioni informali e così via. L'autore ammette che: “[...] coloro che hanno una lunga esperienza (funzionari e dirigenti di tutti i tipi di organizzazioni formali) negheranno o dimenticheranno l'esistenza di organizzazioni informali all'interno delle loro proprie organizzazioni formali. Non importa che questo sia dovuto ad un eccessivo concentrarsi su problemi di organizzazione formale o a riluttanza ad ammettere l'esistenza di ciò che è difficile definire o descrivere, o che manca di concretezza. Ma è innegabile che importanti dirigenti ed anche intere organizzazioni direttive sono spesso completamente inconsapevoli di diffuse influenze, atteggiamenti e perturbazioni all'interno delle loro organizzazioni”.132

Parlando poi delle funzioni delle organizzazioni informali nelle organizzazioni formali, si sottolinea che una di queste “consiste nel conservare il sentimento di integrità personale, di autorispetto, di indipendenza nella scelta […] sebbene questa funzione sia giudicata distruttiva dell'organizzazione formale, essa deve essere considerata come un mezzo per mantenere la personalità dell'individuo contro certi effetti delle organizzazioni formali che tendono a

130 Il concetto di inconciliabilità tra le motivazioni personali e quelle organizzative risulta essere quasi manicheo. Questa visione sembra ammettere, quasi involontariamente, la suddivisione in classi e la conflittualità sociale, di cui però non si trova traccia esplicita nel pensiero dell'autore.

disintegrarne la personalità”133. L'impressione che emerge, leggendo l'autore, è che dietro alla sua

definizione di organizzazione informale come interazione inconsapevole, ci sia in realtà qualcosa di più, dato che non si spiega in che modo delle interazioni inconsapevoli possano assolvere a funzioni così importanti come quella appena riportata testualmente. Se si ammette, ipoteticamente, che cada la distinzione basata sulla consapevolezza delle azioni tra i due tipi di organizzazione, ci si deve chiedere allora quale sia la rimanente differenza tra di esse, a parte la mera definizione terminologica. Il concetto fondamentale che risulta dalla sua analisi è comunque quello per cui le une (organizzazioni formali) sono necessarie alle altre (organizzazioni informali) e viceversa, sottolineando però che una società complessa non possa fare a meno delle prime, pena la sua dissoluzione.

Si torna sull'argomento, anche se affrontando la cosa da una prospettiva diversa, quando l'autore