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Seconda Sezione.

Oltre lo stato dell’arte: per una nuova proposta teorico-metodologica

All’interno della prima sezione abbiamo perseguito un triplice obiettivo. Innanzitutto, la ricognizione e l’esposizione dello stato dell’arte concernente le forme dell’audiovisivo analogico amatoriale, siano esse riguardanti in maniera specifica il film o il video oppure si riferiscano a una valutazione globale del fenomeno amatoriale. Il quadro generale delineato ha fatto emergere come il tema delle relazioni tra film e video analogico non fosse estraneo al dibattito della prima generazione: anche se al video è solitamente concesso uno spazio marginale, la sua presenza indica che, sebbene afferisca a una specificità tecno-mediale diversa rispetto a quella del film, nel momento in cui il discorso muove verso problemi connessi alla pratica e al rapporto tra tecniche, il video analogico mostra diversi legami con il film, talvolta anche solo nei termini di una transizione mediale1.

È emerso inoltre – ed ecco il secondo obiettivo – come la transizione mediale rappresentasse solo una delle molteplici possibilità di interrelazione tra film e video analogico all’interno del complesso quadro dell’amatorialismo tra gli anni Settanta e i primi anni Novanta. Il rapporto tra film amatoriale e video non è stato quindi valutato in funzione di una supposta egemonia del film o del video analogico, ma come coesistenza all’interno di reti pratiche complesse, in cui le attività dei cine-videoamatori appartengono sostanzialmente a due categorie: quella dei serious amateur e quella degli everyday user2. In particolare, abbiamo deciso di occuparci degli everyday user analogici, ossia di coloro che, al contrario degli “amatori seri”, utilizzavano le tecniche audiovisive senza particolari competenze, con l’unico scopo di tenere traccia della quotidianità in cui si trovavano immersi. Per loro, la pratica amatoriale non era riconducibile all’acquisizione di specifiche conoscenze tecniche, a un’evoluta sperimentazione linguistica e all’applicazione della grammatica audiovisiva, ma a un utilizzo talvolta impensato e casuale delle tecniche video-filmiche capace anche di dare vita a interessanti rilievi sperimentali. Insomma, abbiamo messo in evidenza l’attrito presente tra pratica audiovisiva e quotidianità, che coinvolge sia la pratica cineamatoriale sia quella videoamatoriale, assolvendo una funzione culturale di assoluta rilevanza.

Il terzo obiettivo della prima sezione ha riguardato, dunque, la ripresa del discorso attorno alla questione tassonomica, e in particolare alla definizione di audiovisivo analogico della quotidianità. Ci siamo concentrati sulle funzioni inclusive del termine audiovisivo e sul tema del sincretismo !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

1 Riprendiamo, in questo senso, le già citate elaborazioni di Chalfen, Zimmermann e Odin. Cfr. R. Chalfen, “Home Video Versions of Life – Anything New?”, cit., pp. 1-5; cfr. P.R. Zimmermann, Reel Families: A Social History of

Amateur Film, cit., pp. 143-167; cfr. R. Odin, “Il cinema amatoriale”, cit., pp. 348-352; cfr. R. Odin, “The Home Movie

and Space of Communication”, cit., pp. 18-21.

2 Cfr. D. Buckingham, M. Pini, R. Willett, “‘Take back to the tube!’: The Discursive Construction of Amateur Film- and Video-Making”, cit., pp. 59-60.

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materiale di cui Gianfranco Bettetini ha trattato nel suo lavoro seminale del 1996 3. Riprendendo la sua teoria, che mostra notevoli punti di convergenza con l’uso comune del lemma audiovisivo, abbiamo la possibilità di superare i discorsi sulla specificità onto-tecnologica dei media, giungendo a una riflessione più ampia che sappia intrecciare gli orizzonti tecnologico, pratico e testuale e porli su un piano teorico complesso, in cui le questioni discorsive e non-discorsive entrano in dialogo, se non in dialettica.

Come abbiamo suggerito nella prima sezione, ciò non vuol dire che la questione della specificità mediale sia da trascurare, ma, al contrario, che essa va approfondita superando la stretta corrispondenza tra limiti onto-tecnologici e orizzonte pratico. In questo senso, per noi torna a essere centrale la riflessione elaborata da James Moran riguardo alla nozione di medium. Nell’introduzione a There Is No Place Like Home Video, il teorico statunitense afferma che i sostenitori di tale corrispondenza non tengono conto di due questioni fondamentali: in primo luogo, essi considerano spesso (anche se non necessariamente) la tecnica del medium come una struttura materiale incapace di modificarsi in funzione dei cambiamenti storici 4; in secondo luogo, essi non riescono a concepire il medium come una rete di relazioni in cui le tecniche divengono parte di un sistema di negoziazione di significati e di funzioni. Al contrario, il medium appare come un semplice contenitore materiale capace di prescrivere ciò che può essere fatto, come se vi fosse un legame univoco e monodimensionale tra i macchinari e le pratiche.

Il filone deterministico, che, secondo Moran, ha assunto diverse forme all’interno della storia della teoria dei media – oltre ad Arnheim, l’obiettivo critico del teorico statunitense è rappresentato, ovviamente, dalle evoluzioni del pensiero di Marshall McLuhan 5 –, si dimostra dunque incapace di concepire il medium come un sistema dinamico al cui interno, attraverso un’ampia gamma di relazioni intermediali storicamente connotate, si rielaborano le regole della produzione culturale (intesa nella sua accezione più ampia, ossia anche come produzione sub-culturale e contro-culturale). Un simile atteggiamento, tuttavia, non è immune da possibili distorsioni epistemologiche. Il rischio maggiore è, infatti, quello di considerare alcuni media non solo come se non rimandassero ad alcuna forma di specificità, ma come se essi non imponessero degli spunti teorici propri. In questo senso, appaiono emblematiche le posizioni tenute da Frederic Jameson !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

3 Cfr. G. Bettetini, L’audiovisivo, cit., pp. 8-9.

4 L’obiettivo polemico di Moran, in questo caso, fa riferimento a una delle fonti originarie della teoria del cinema in quanto medium, ossia Rudolf Arnheim: «[a] tacit technological determinist, Arnheim declared that visual recording mechanisms had reached their apotheosis during the early twenties, as if they had been invented expressly for the production of “silent films” per se, and that the introduction for new devices must inevitably undermine cinema aesthetics. Unlike Bazin [...] Arnheim mistook cinema’s historical existence with eternal essence and prescribed a film aesthetics determined more by technology than human intention. [...] That is, the technological specificity of the filmic medium can never be stabilized as a single synchronic configuration outside the diachronic fluctuation of its history». J.M. Moran, There Is No Place Like Home Video, cit., p. XIII.

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riguardo al video. Secondo il pensatore statunitense, il video è un medium senza teoria. L’autore di Postmodernism, or the Cultural Logic of Late Capitalism afferma infatti che i tentativi di speculazione sull’immagine elettronica sono compromessi

by several shortcomings: (1) the logic of symptomatic causality that identifies video practices as uniform expressions of late capital’s economic structures, (2) an epistemological conflation of broadcast television and experimental video joined by a misappropriation of Raymond Williams’s concept of flow as the only commonly accepted framework of analysis, and (3) a distrust in new unfamiliar practices and developments outside canonical discourse 6.

All’interno di una simile prospettiva teorico-metodologica7, il video è un medium indeterminato, le cui fluttuazioni confondono le unità di tempo e spazio e le posizioni di soggetto e oggetto, inficiando, di conseguenza, la possibilità di tenere un atteggiamento critico nei suoi confronti. Se, da un lato, un simile quadro rende visibile (per negazione) alcuni tratti peculiari del video, dall’altro pone in evidenza alcune difficoltà connesse alla riflessione sullo specifico mediale, che emergono nel momento in cui si prescinde da un’attenta indagine dei caratteri tecnologici del “medium video”. Tra i due estremi, ossia l’impossibilità di stabilire i contorni della specificità di un medium (che diviene impossibilità di teorizzare sul medium) e le molteplici forme assunte dal determinismo tecnologico, vi sono almeno due opzioni.

La prima fa riferimento a una metaforizzazione dei caratteri tecnici del mezzo, come avviene nel caso della scansione elicoidale in Videography: Video Media as Art and Culture di Sean Cubitt8 oppure nel caso della nozione di medium riflessivo nel saggio seminale di Yvonne Spielmann 9. In entrambi i casi, i caratteri tecnici si trasformano in metafore del funzionamento generale del medium. Secondo Cubitt, il meccanismo della scansione elicoidale, che prevede, per la registrazione e la lettura dei nastri magnetici, l’utilizzo di due testine capaci di auto-bilanciarsi al fine di ottimizzare le interferenze, diviene emblema dell’essenza dialettica del mezzo, le cui applicazioni in campo artistico e culturale operano in maniera analoga evidenziando, al contempo, la natura oppositiva del video10. Secondo Spielmann, invece, i meccanismi della scansione elettronica, anziché riguardare la rappresentazione di un oggetto, concernono innanzitutto la loro stessa presentazione: metaforizzandone il senso, potremmo dire che, nel momento in cui guardiamo un video, infatti, non stiamo semplicemente osservando azioni e oggetti ripresi attraverso un apparecchio elettronico, ma stiamo osservando come il video rappresenta se stesso mentre rappresenta azioni e oggetti. Ciò, oltre a collocare baudrillardianamente il video all’interno di un !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

6 Ivi, p. 15.

7 Cfr. F. Jameson, Postmodernismo. Ovvero la logica culturale del tardo capitalismo [1991], Fazi, Roma 2015, pp. 88-107.

8 Cfr. S. Cubitt, Videography: Video Media as Art and Culture, St. Martin’s Press, New York 1993, pp. 3-18.

9 Cfr. Y. Spielmann, Video: The Reflexive Medium, cit., pp. 4-13.

10 In questo senso, appare importante sottolineare che, secondo Cubitt, il video deve essere considerato in opposizione alla televisione. Cfr. S. Cubitt, Timeshift on Video Culture, Routledge, London-New York, p. 9.

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regime simulacrale, rende l’immagine elettronica un analogon riflessivo della tecnologia che la produce. Sia per Cubitt sia per Spielmann, dunque, al contrario di quanto avviene per i sostenitori del determinismo tecnologico, non esiste una linea causale che collega la struttura tecnica del medium alle pratiche e, soprattutto, alle qualità dell’immagine. Al contrario, il tema della metaforizzazione dei caratteri tecnici evidenzia come la riflessione sulla tecnica si configuri innanzitutto come discorso sulla tecnica e non come una sua descrizione oggettiva.

La seconda possibilità, invece, prende avvio dalla nozione di soft determination elaborata da Raymond Williams all’interno del saggio Televisione. Tecnologia e forma culturale11. Qui il teorico statunitense, riflettendo sul rapporto tra agency e tecnologia, sostiene che le posizioni deterministe non riescono a cogliere il senso della relazione tra mezzi espressivi e pratiche perché ritengono che i primi costituiscano positivamente le dinamiche strutturali delle seconde, mentre, in realtà, essi stabiliscono solo i limiti al cui interno la pratiche mediali (intese come pratiche culturali) si sviluppano12. All’interno di una simile prospettiva, le linee deterministico-causali si trasformano in molteplici orizzonti motivazionali in cui la tecnologia, pur rappresentando un punto di riferimento di fondamentale importanza, non adombra il ruolo altrettanto fondamentale dell’attività degli user nell’individuare dinamiche di senso connesse all’utilizzo delle tecniche mediali. Come sostiene James Moran, il ruolo di Williams è fondamentale nel momento in cui ci troviamo di fronte alla necessità di conciliare gli aspetti materiali del nostro rapporto con le tecniche il set di codici culturali e immateriali che innervano la sua dimensione abitudinaria, ideologica e immaginaria 13. Poiché, in questo modo, la dialettica tra i poli della materialità e dell’immaterialità tecno-mediale appare come una questione essenzialmente storica e poiché tale dialettica costituisce il nucleo della specificità di un medium, dobbiamo tenere ben presente che essa è suscettibile di trasformazioni in senso diacronico.

Una simile affermazione, in apparenza banale, nasconde una sottile profondità teorico-metodologica. Poiché il rapporto tra materialità e immaterialità rimanda a uno sviluppo storico, la !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

11 Cfr. R. Williams, Televisione. Tecnologia e forma culturale [1974], Editori Riuniti, Roma 2000, pp. 148-153.

12 In questa direzione sembra dirigersi l’interpretazione delle teorie williamsiane fornita da Vincent Mosco. Cfr. V. Mosco, The Political Economy of Communication: Re-Thinking and Renewal, Sage, Thousend Oaks 1996, p. 5. Tale interpretazione trova pieno riscontro in un passo di Televisione. Tecnologia e forma culturale, in cui Williams afferma che «il determinismo tecnologico è una nozione che non tiene, poiché scambia la casualità di un’invenzione o un’astratta essenza umana per un’intenzionalità sociale, politica ed economica; ma propone anche una versione egualmente unilaterale del progresso umano. L’intenzionalità è un processo reale, ma non costituisce mai (come affermano alcune interpretazioni dogmatiche o marxiste) un insieme di cause interamente predittive e direttive. Essa rappresenta piuttosto quell’insieme di limiti e di pressioni da cui sono interessate, ma mai controllate, le pratiche sociali. Non dobbiamo pensare all’intenzionalità come a una singola forza o un’unica astrazione di forze, ma come un processo in cui sono i reali fattori determinanti (la distribuzione del potere o del capitale, l’eredità fisica e sociale, i rapporti di

forza esistenti tra i gruppi) a stabilire e a esercitare pressioni, ma non controllano mai né prevedono interamente il risultato dell’attività complessiva sia rispetto ai limiti che alle pressioni». R. Williams, Televisione. Tecnologia e forma

culturale, cit., p. 149.

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specificità mediale è definita non da caratteri strutturali definiti una volta per tutte, ma dal modo in cui pratiche e oggetti tecnici si modificano a vicenda, stabilendo, dal punto di vista delle tecniche, una serie di limiti alle pratiche (si pensi, per esempio, ai limiti della durata delle riprese cineamatoriali connessi all’utilizzo di cartucce da quindici metri di film in Super8 e alla dilatazione temporale legata al passaggio al nastro magnetico) e, dal punto di vista delle pratiche, la possibilità di agire, in maniera consapevole o inconsapevole, sui limiti tecnici (si pensi, sia per quanto riguarda le cineprese sia per quanto riguarda le videocamere, agli errori di bilanciamento del bianco e ai particolari effetti di dominante riconducibili a essi).

L’interpretazione delle teorie di Raymond Williams da parte di Moran 14, pur permettendo di estendere il tema della specificità mediale oltre i confini dell’ontologia tecnologica e suggerendo l’importanza della riflessione sulle pratiche all’interno degli studi sull’amatorialismo, presenta un limite considerevole: la speculazione sviluppata in There Is No Place Like Home Video tende infatti a confinare il ragionamento all’interno del campo del video analogico, con digressioni relative ai rapporti tra video e televisione15 e all’utilizzo del video consumer in alcuni film mainstream 16. Egli sembra tuttavia trascurare che, nel periodo preso in considerazione, le reti delle pratiche videoamatoriali si estendevano ben oltre programmi televisivi come America’s Funniest Home Videos (negli Stati Uniti) o Paperissima (in Italia). Poiché, come abbiamo visto, il tema mediale va coniugato innanzitutto in senso storico, non possiamo non riconoscere che, oltre ai rapporti con la TV e il cinema mainstream, gli altri snodi di interrelazione rimandano alla fotografia e al cinema amatoriali. Come già evidenziato, qui favoriremo l’indagine dei rapporti tra cinema e video analogico, pur essendo ben consapevoli che un simile taglio prospettico non può non essere parziale. D’altra parte, tuttavia, ciò sembra rispondere a due ordini di necessità: la prima di ordine metodologico, l’altra di ordine più strettamente epistemico.

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14 Come abbiamo suggerito all’interno della prima sezione: cfr. p. 13 di questo elaborato.

15 Digressioni basate su una sorta di “omologia tecnologica” – Moran parla esplicitamente di “sibling media”. Tale rapporto è stato ben evidenziato anche da Sandra Lischi in Il linguaggio del video, Carocci, Roma 2005, p. 7.

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1. Prima nota teorica: inter-specificità e post-medialità

Per quanto riguarda la necessità di ordine metodologico, la premessa è nella rielaborazione del concetto di specificità mediale come capacità di dare forma a reti pratiche sulla base dei limiti degli oggetti tecnici (si pensi al concetto di soft determination di Williams) e del loro rapporto con altre dispositivi (di ripresa o di fruizione) 17. In altri termini, all’interno del nostro framework teorico, il problema della specificità mediale viene re-interpretato sulla scorta della nozione di serie culturale elaborata a più riprese da André Gaudreault e Philippe Marion, nozione in grado di porre in evidenza la relazione tra piattaforme tecniche, pratiche e produzione testuale. Più precisamente, concentreremo l’attenzione sulle ultime evoluzioni del concetto presenti nel saggio “Défense et illustration de la notion de série culturelle” 18. Qui la serie culturale è definita, da un lato, come un tentativo di ricostruzione delle pratiche culturali da parte di un ricercatore19, dall’altro come una rete di pratiche che si sviluppano diacronicamente20. Volendo essere più precisi, potremmo affermare che

[u]ne série culturelle, si on essaie de lire cette définition de manière aussi large et ouverte que possible, serait donc un certain type de faire (par exemple raconter une histoire ou essayer de reproduire la réalité) doté d’une « identité » culturelle et médiatique historiquement identifiable et qui peut prendre les formes matérielles et médiatiques les plus diverses (on peut raconter des histoires à l’aide de mots mais aussi à l’aide de sons ou d’images, tout comme on peut essayer de reproduire le réel, ou un aspect ou une partie du réel, au moyen d’instruments visuels ou verbaux, analogiques ou digitaux, concrets ou abstraits, et ainsi de suite) 21.

Nel nostro caso, si potrebbe sostenere che l’audiovisivo analogico della quotidianità rappresenti, all’interno di una macro-area costituita dalle diverse forme di amatorialismo (fotografico, letterario, pittorico, etc.), una serie culturale che emerge a visibilità nel momento in cui il ricercatore pone in evidenza gli elementi di continuità 22 tra cineamatorialismo e videoamatorialismo all’interno di un preciso lasso di tempo. L’audiovisivo analogico della quotidianità si configura così come un !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

17 Il termine “dispositivo” è utilizzato, in questo caso, secondo l’accezione comune: è, infatti, un sinonimo di oggetto tecnico e di apparecchiatura.

18 Cfr. A. Gaudreault, P. Marion, “Défense et illustration de la notion de série culturelle”, cit., pp. 59-71.

19 «Ce que cette conception de la « série culturelle » a de fondamental, c’est qu’il ne s’agit pas seulement d’une pratique culturelle, il s’agit surtout d’un choix problématique du chercheur, qui porte à l’existence une catégorie qui lui semble faire sens. Ainsi conçue, la notion de « série culturelle » constitue un outil de recherche qui produit de l’intelligibilité qui soit la moins biaisée possible». Flaurette Gautier, “Compte rendu de la 2e séance du séminaire ‘série culturelle’ : Laurent Gerbier, ‘Naissance d’un genre, naissance d’un medium : les séries culturelles et la question des origines (science fiction et comic books)’”, https://intru.hypotheses.org/537, ultimo accesso il 13 dicembre 2015.

20 Cfr. A. Gaudreault, P. Marion, “Défense et illustration de la notion de série culturelle”, cit., p. 60.

21 Jan Baetens et al., “Transformations médiatiques : quelques réflexions sur la notion de “série culturelle” chez André Gaudreault et Philippe Marion”, in Recherches en communication, n. 41 (2016), pp. 221-232. La citazione è stata estratta da A. Gaudreault, P. Marion, “Défense et illustration de la notion de série culturelle”, cit., p. 64.

22 Per Gaudreault e Marion il concetto di continuità è di fondamentale importanza: «[t]oute construction d’une série culturelle se fait bien entendu sur la base d’un principe de continuité» (ibidem). Tale nozione può essere interpretata in senso reciproco e speculare rispetto a quella di rottura epistemologica così rilevante per l’archeologia foucaultiana e per quelle branche dell’archeologia dei media che a essa si ispirano. Inoltre, ricordiamo qui che il tema della continuità non viene completamente abbandonato da Foucault: a esso, infatti, il filosofo francese dedica diverse pagine ne’

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aggregato di pratiche caratterizzate da forme di sincretismo materiale23 e da un continuo dialogo con il contesto storico. Attraverso tali pratiche, l’everyday user utilizza le immagini in movimento per documentare (e tenere memoria del-)la propria quotidianità.

Per quanto concerne, invece, la questione di ordine epistemico, dobbiamo fare riferimento agli spunti teorici connessi all’emergenza del fenomeno video come oggetto di ricerca scientifica – come oggetto epistemico, per l’appunto. In questo senso, appare fondamentale il magistero di Sandra Lischi, che, pur non essendosi occupata di amatorialismo, ha proposto (e continua a proporre) considerazioni di assoluta rilevanza per la globalità della ricerca sull’immagine elettronica. Come sostiene in Cine ma video, essa

è radicalmente diversa da quella cinematografica. Basta entrare in uno studio di montaggio video dalle capacità anche limitate, basta guardare nel visore di una telecamera accesa, per misurare questa distanza. Fra cinema e video c’è un balzo: il balzo che separa la chimica dall’elettronica, il balzo che separa un’immagine fotografica ancora ferma (in “falso

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