L’attività di impresa è costituita da relazioni sul mercato, dove ovviamente coesistono più imprenditori che producono oppure distribuiscono beni o servizi spesso identici o simili tra di loro; per questo motivo ciascun imprenditore utilizza segni distintivi che consentono di individuarlo sul mercato e così di distinguerlo dai concorrenti.
I principali segni distintivi dell’imprenditore sono: la ditta, l’insegna e il marchio. La ditta costituisce il nome commerciale dell’imprenditore, l’insegna contraddistingue i locali dell’impresa e ha funzione di richiamo per la clientela, mentre il marchio è il segno distintivo dei prodotti o dei servizi dell’impresa.
«Crescente rilievo va acquistando, inoltre, il nome a dominio che individua il sito internet aziendale» (CAMPOBASSO, Diritto commerciale. 1. Diritto dell’impresa, Torino, 2010, p. 161).
I segni distintivi, ditta, insegna e marchio, sono “collettori di clientela” in quanto consentono agli utenti del mercato di distinguere tra loro i vari operatori economici. Nel contratto di trasferimento dell’azienda non può ovviamente non essere considerata la sorte dei segni distintivi.
Nel nostro ordinamento ditta, insegna e marchio sono disciplinati separatamente, con disposizioni in parte differenti e, soprattutto, di diversa portata.
La ditta individua l’imprenditore come soggetto di diritto nell’esercizio dell’attività di impresa: è un segno distintivo necessario, nel senso che «In mancanza di diversa scelta essa coincide col nome civile dell’imprenditore. (…) mentre l’omonimia tra nomi civili è sempre ammessa, non è invece consentita omonimia fra ditte di imprenditori in rapporto di concorrenza, quand’anche entrambe corrispondenti ai rispettivi nomi civili» (CAMPOBASSO, Diritto commerciale. 1. Diritto dell’impresa, Torino, 2010, p. 164 e 169).
Nella scelta della ditta l’imprenditore incontra due limiti, quello della verità e quello della novità. La ditta sarà originaria se scelta ab origine dall’imprenditore ovvero derivata se trasferita da questo a un altro operatore economico In quest’ultimo caso non è necessaria un’integrazione della ditta con la propria o con il proprio nome.
«Quanto alla ditta, la dottrina ritiene che non possa essere trasferita separatamente dall’azienda, al fine di tutelare quanti (creditori, fornitori e clienti) possano avere avuto rapporti con l’originario imprenditore» (FERRENTINO-FERRUCCI, Dell’azienda, Milano, 2014, p. 131).
Tuttavia, non è vero il contrario: l’azienda può essere alienata anche senza la relativa ditta.
Tale affermazione è confermata dalla disposizione di cui all’art. 2565, 2° comma, c.c., il quale stabilisce che, nel trasferimento dell’azienda per atto tra vivi, la ditta non si trasferisce all’acquirente senza il consenso – espresso – dell’alienante.
In caso di successione mortis causa la ditta è trasferita all’erede o al legatario, salvo che una diversa disposizione testamentaria preveda diversamente sul punto.
«Il trasferimento della ditta, pertanto, non costituisce un effetto naturale del contratto di cessione di azienda: è conseguenza del trasferimento dell’azienda, ma è frutto di un espresso accordo, in mancanza del quale la ditta rimane in capo al cedente» (FERRENTINO-FERRUCCI, Dell’azienda, Milano, 2014, p. 132).
In tale senso anche la giurisprudenza, secondo cui «con riguardo al trasferimento di azienda per atto tra vivi, il contestuale trasferimento anche della ditta (ai sensi del secondo comma dell’art. 2565 c.c.) deve essere oggetto di una distinta manifestazione di volontà negoziale, che tuttavia non richiede un’esplicita menzione della ditta nell’atto di trasferimento, potendo la volontà di estendere quest’ultimo alla ditta ricavarsi dall’interpretazione dell’atto, sulla base dei criteri interpretativi indicati dagli artt. 1362 e s. c.c.» (Cass. 26 marzo 2009, n. 7305, inwww.dirittoegiustizia.it).
Per ciò che concerne l’insegna, questa contraddistingue i locali dell’impresa e, comunque, l’intero complesso aziendale; in merito al suo trasferimento nulla è detto dal legislatore.
L’orientamento prevalente in dottrina e in giurisprudenza è nel senso di considerare l’insegna strettamente collegata all’azienda e quindi il suo trasferimento congiuntamente alla stessa (e alla ditta). Altri orientamenti considerano pacifico che il diritto sull’insegna possa essere trasferito, ritenendo che in materia debba «(…) trovare applicazione la più permissiva disciplina prevista per il trasferimento del marchio, dato che l’insegna identifica pur sempre elementi materiali (locali e azienda) e non la persona dell’imprenditore» (CAMPOBASSO, Diritto commerciale. 1. Diritto dell’impresa, Torino, 2010, p. 190).
Il marchio è il segno distintivo dei prodotti o dei servizi dell’impresa e trova la sua disciplina su tre piani: nazionale (artt. 2569-2574 c.c. e codice proprietà industriale- d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30), comunitario (Regolamento CE n. 40/94 del 20 dicembre 1993) e internazionale (Convenzione d’Unione di Parigi del 1983 e l’accordo di Madrid del 1981, integrato dal Protocollo di Madrid del 1989).
La disciplina della circolazione dei marchi prevede che gli stessi possano essere liberamente trasferiti, a titolo sia definitivo sia temporaneo (cd. licenza di marchio), anche separatamente all’azienda, purché non sussista il rischio di inganni o dubbi sull’uso del marchio presso i consumatori.
«Si può anche trasferire o concedere in licenza per tutti o per parte dei prodotti per i quali è stato registrato» (CAMPOBASSO, Diritto commerciale. 1. Diritto dell’impresa, Torino, 2010, p. 188).
Il trasferimento a titolo definitivo del marchio per una parte dei prodotti e con contitolarità dello stesso è possibile, ma rimane controverso se sia anche fattibile in caso di prodotti identici o affini a quelli che l’alienante, lecitamente, continua a produrre.
Il principio cardine di ogni trasferimento o licenza del marchio è che «(…) non si generino inganni nei caratteri dei prodotti o servizi che sono essenziali nell’apprezzamento del pubblico» (CAMPOBASSO, Diritto commerciale. 1. Diritto dell’impresa, Torino, 2010, p. 189).
In caso di licenza non esclusiva, il licenziatario è obbligato a utilizzare il marchio per prodotti che abbiano caratteristiche – qualitativamente – uguali a quelle corrispondenti ai prodotti del concedente o degli altri licenziatari. Il titolare del marchio potrà avvalersi degli strumenti di tutela previsti (come l’inibitoria o l’azione di rimozione) e, in caso di violazione, la sanzione potrebbe anche essere la decadenza totale o parziale, per sopravvenuto uso ingannevole del marchio.
In assenza di una disciplina espressa in merito alla forma da adottarsi per il trasferimento del marchio, è da ritenersi che trovi piena applicazione il principio generale della libertà della forma negoziale, con la conseguenza che appare legittimo che la volontà delle parti, di trasferire il marchio, possa essere manifestata sia attraverso una dichiarazione espressa, sia per facta concludentia.
«A norma dell’art. 2573 c.c non occorre che la cessione del marchio sia contestuale o contemporanea al trasferimento dell’azienda, in quanto la ratio del divieto di alienazione non esige la contemporaneità dell’un trasferimento rispetto all’altro, ma richiede che la cessione del marchio possa ricollegarsi, secondo un rapporto di complementarità economica, alla cessione dell’azienda, al fine di prevenire la possibilità di inganni e di frodi circa la provenienza del prodotto» (Cass. 20 novembre 1982, n. 6259, in Mass. giur. it., 1982).
7. L’affitto e l’usufrutto d’azienda.