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Le vendite dei complessi aziendali nelle procedure concorsuali.

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Academic year: 2021

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Le vendite dei complessi aziendali

nelle procedure concorsuali

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INDICE

INTRODUZIONE.

PARTE PRIMA: IL TRASFERIMENTO D’AZIENDA E LA SUA DISCIPLINA CIVILISTICA.

1. Premessa.

1.1. L’ambito di applicazione. Le nozioni di azienda e di ramo d’azienda.

1.2. Disposizioni normative in tema di “trasferimento di personale”. 2. Nozione di azienda.

3. Gli elementi costitutivi dell’azienda.

4. La circolazione dell’azienda. Profili di carattere generale. 5. Il trasferimento d’azienda.

5.1. Aspetti generali.

5.2. Il divieto di concorrenza. 5.3. La successione nei contratti.

5.3.1. Disciplina generale. 5.3.2. Il contratto di locazione. 5.4. La successione nei crediti e nei debiti.

5.4.1. La sorte dei crediti. 5.4.2. La sorte dei debiti. 6. I segni distintivi.

7. L’affitto e l’usufrutto d’azienda. 7.1. La disciplina.

7.2. La cessazione del contratto d’affitto. 7.2.1. Premessa.

7.2.2. Il dato normativo.

7.2.3. Le cause di cessazione del contratto.

7.2.4. L’individuazione dei beni oggetto di retrocessione. 7.2.5. (Segue) L’avviamento.

7.2.6. La valutazione dei beni oggetto di retrocessione. 7.2.7. La determinazione delle differenze d’inventario.

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7.2.8. Il risarcimento dei danni.

7.2.9. La disciplina del divieto di concorrenza.

7.2.10. Gli effetti della cessazione sui rapporti di lavoro. 8. Il sequestro e il pegno d’azienda.

9. La successione e l’azienda.

PARTE SECONDA: IL TRASFERIMENTO D’AZIENDA NEL FALLIMENTO. 1. Premessa.

2. Il programma di liquidazione.

3. L’esercizio provvisorio, l’affitto d’azienda o di singoli rami. 3.1. L’esercizio provvisorio.

3.2. L’affitto dell’azienda o di singoli rami. 4. La cessione dei beni fallimentari.

4.1. Il subentro del curatore nelle procedure esecutive. 4.2. La vendita dei beni.

4.3. Le modalità competitive. 4.4. Il potere di sospensione.

5. La vendita dell’azienda o di singoli rami. 6. La cessione di partecipazioni.

PARTE TERZA: IL TRASFERIMENTO D’AZIENDA NEL CONCORDATO CON CONTINUITA’ AZIENDALE.

1. Individuazione della fattispecie. 2. La continuità aziendale indiretta. 3. Gli strumenti di monitoraggio. 4. Gli strumenti di reazione. 5. Il tema dell’affitto-ponte.

PARTE QUARTA: I PROFILI PENALI NEL TRASFERIMENTO D’AZIENDA. 1. La posizione della giurisprudenza.

PARTE QUINTA: I METODI DI VALUTAZIONE DELL’AZIENDA

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1. Individuazione dei metodi di valutazione dell’azienda. 1.1. Breve disamina dei metodi valutativi.

1.2. Il metodo patrimoniale semplice. 1.3. Il metodo patrimoniale complesso. 1.4. Il metodo reddituale.

1.5. Il metodo misto con stima autonoma dell’avviamento.

1.6. Il metodo misto con valutazione controllata delle immobilizzazioni. 1.7. Il metodo misto EVA.

1.8. Il metodo Discounted Cash Flow. 1.9. I metodi dei multipli.

2. La valutazione delle aziende in esercizio. 3. La valutazione del canone d’affitto d’azienda.

3.1. Considerazioni teoriche. 3.2. La prassi applicativa.

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INTRODUZIONE.

Un sistema, nel suo significato più generico, è un insieme di elementi o sottosistemi interconnessi tra di loro o con l’ambiente esterno tramite reciproche relazioni, ma che si comporta come un tutt’uno, secondo proprie regole generali. Più in particolare, può essere definito come l’unità fisica e funzionale, costituita da più parti o sottosistemi interagenti (od in relazione funzionale) tra loro (e con altri sistemi), formando un’entità unitaria, in cui ogni parte dà il proprio contributo per una finalità comune od un obiettivo identificativo di quel sistema (Wikipedia, voce “Sistema”).

La caratteristica di un sistema è l’equilibrio complessivo che si crea fra le singole parti che lo costituiscono; tuttavia, l’equilibrio diventa instabile nel caso in cui il sistema appartenga alla categoria dei sistemi complessi.

In fisica un sistema complesso è un sistema in cui le singole parti sono interessate da interazioni locali, che provocano cambiamenti nella struttura complessiva. Maggiore è la quantità e la varietà delle relazioni fra gli elementi di un sistema, maggiore è la sua complessità (Wikipedia, voce “Sistema complesso”).

Un’altra caratteristica di un sistema complesso è che può produrre un comportamento emergente, cioè un comportamento complesso non prevedibile e non desumibile dalla semplice sommatoria degli elementi che lo compongono.

Il comportamento emergente è la situazione nella quale un sistema esibisce proprietà inspiegabili sulla base delle leggi che governano le sue componenti prese singolarmente (Wikipedia, voce “Comportamento emergente”).

Un comportamento emergente o proprietà emergente può comparire quando un numero di entità semplici (agenti) operano in un ambiente, dando origine a comportamenti più complessi in quanto collettività. La proprietà stessa non è predicibile e non ha precedenti, e rappresenta un nuovo livello di evoluzione del sistema.

Infatti, come affermato Philip Warren Anderson, premio Nobel per la fisica nel 1977, «More is different». L’insieme è, spesso, più della somma delle sue parti; ciò perché presenta, normalmente, proprietà che non sono la semplice somma delle proprietà delle sue parti: presenta cioè proprietà emergenti, difficilmente prevedibili studiando le sue singole componenti. Egli, più in particolare, osserva: «Prendete una molecola di questo comunissimo liquido (n.d.r. l’acqua). In essa non c’è nulla di particolarmente complicato. C’è un grosso atomo, l’ossigeno, legato a due piccoli atomi di idrogeno. Il comportamento di una molecola d’acqua è descritto (con qualche difficoltà di carattere

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pratico) da note equazioni della meccanica quantistica. Ma mettiamo insieme miliardi e miliardi di molecole di acqua in un recipiente, a temperatura e pressione ambiente. Vedremo questo collettivo di molecole che inizia a gorgogliare, a gocciolare, a luccicare. Le molecole hanno acquistato una proprietà collettiva: sono diventate un liquido. Nessuna di esse, presa singolarmente, può essere definita una molecola liquida. Lo stato liquido – conclude Anderson – è una proprietà emergente. Una proprietà che è sola dell’insieme di molecole».

Il biologo Herbert Simon ha proposto che devono essere considerate emergenti quelle caratteristiche dei sistemi nel loro insieme che «non possono (nemmeno in teoria) essere dedotte dalla più completa conoscenza delle componenti, prese separatamente o in altre combinazioni parziali».

L’azienda, di cui si avrà modo di parlare diffusamente, è un sistema complesso con proprietà emergenti: come vedremo, infatti, l’azienda è qualcosa di più delle singole parti che la compongono ed in quanto tale è un sistema. Inoltre, possiede proprietà emergenti, che la rendono un sistema complesso; come è noto, le proprietà emergenti possono essere racchiuse nell’unitaria nozione di avviamento (v. infra).

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PARTE PRIMA: IL TRASFERIMENTO D’AZIENDA E LA SUA DISCIPLINA CIVILISTICA.

1. Premessa.

1.1. L’ambito d applicazione. Le nozioni di azienda e di ramo d’azienda.

Per azienda – sebbene tale locuzione sia impropriamente utilizzata, anche in ambito professionale, come sinonimo di impresa o società – si intende il complesso di beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’attività di impresa, sia individuale sia collettiva: è uno strumento dell’imprenditore, suscettibile di autonoma valorizzazione e circolazione, nel quale normalmente si configura un quid pluris rispetto agli elementi che lo compongono, dato dall’organizzazione e qualificato tecnicamente come “avviamento”.

La disciplina giuridica dell’azienda è stata introdotta dal Codice Civile del 1942 e non ha formato oggetto di alcuna rilevante innovazione legislativa sino ad oggi. Una recentissima Sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione ha stabilito che l’azienda deve essere considerata come un bene distinto dai singoli componenti, suscettibile di essere unitariamente posseduto e – se concorrono gli elementi indicati dalla legge – usucapito (Cass. S.U. 5 marzo 2014, n. 5087, inwww.dirittoegiustizia.it). La disciplina dell’azienda si applica ad ogni forma di impresa, a prescindere dal tipo di attività svolta (commerciale, agricola, artigiana o – qualora ritenuta ammissibile – civile). Non può essere invece applicata al complesso di beni organizzato dal professionista per lo svolgimento della propria attività, in quanto non sussiste uno dei requisiti per la configurazione di un’azienda, ossia l’attività di impresa.

L’azienda, in quanto complesso di beni organizzato, può formare oggetto di autonomo trasferimento.

Come precisato dalla giurisprudenza, è possibile affermare di essere di fronte ad ipotesi di trasferimento d'azienda «…ogni qual volta venga ceduto un insieme di elementi costituenti un complesso organico e funzionalmente adeguati a conseguire lo scopo in vista del quale il loro coordinamento è stato posto in essere, essendo necessario e sufficiente che sia stata ceduta un'entità economica ancora esistente, la cui gestione sia stata effettivamente proseguita o ripresa dal nuovo titolare con le stesse o analoghe attività economiche [...]» (Cass. 12 luglio 2002, n. 10193); la giurisprudenza ha, inoltre, aggiunto «…che la nozione di trasferimento di azienda rilevante ai fini dell'art. 2112 c.c. novellato si identifica con qualsiasi operazione che comporti, indipendentemente

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dal trasferimento di proprietà dei beni aziendali, il mutamento, anche parziale, nella titolarità di un'attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità» (Cass. 17 luglio 2002, n. 10348).

In sostanza, la Suprema Corte ha individuato l'esistenza del trasferimento d'azienda ogni qualvolta:

 muti il titolare dell'attività (nella sostanza, il datore di lavoro);  siano trasferiti i beni facenti parte del complesso aziendale;  siano ceduti i contratti con la clientela;

 il personale continui a lavorare per il nuovo datore, o comunque venga riassunto, senza soluzione di continuità tra i due rapporti di lavoro;

 vengano mantenuti lo stabile ed il luogo di lavoro;  venga svolta la medesima precedente attività del cedente.

Nel caso in cui l’impresa – individuale o collettiva – svolga più attività distinte, l’azienda si scompone in più rami d’azienda caratterizzati da autonomia funzionale ed organizzativa.

La Circolare Ministeriale n. 9/9/252 del 21 marzo 1980 individua quale condicio sine qua non al fine di identificare un “ramo d’azienda” l’esistenza di un collegamento tra gli elementi che la compongono, tale da costituire un’organizzazione produttiva; deve, cioè, trattarsi di un complesso di beni idoneo all’esercizio di un’attività economica finalizzata al perseguimento di uno specifico scopo, nonché al soddisfacimento delle esigenze tecniche richieste dall’attività produttiva.

Occorre, inoltre, rammentare come la Corte di Cassazione – nel tempo – si sia più volte pronunciata sul concetto di “ramo d’azienda”, precisando in particolare che: «… per “ramo d'azienda”, ai sensi dell'art. 2112 c.c., suscettibile di autonomo trasferimento riconducibile alla disciplina dettata per la cessione di azienda, deve intendersi ogni entità economica organizzata in maniera stabile, la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identità. Il che presuppone una preesistente realtà produttiva autonoma e funzionalmente esistente, e non anche una struttura produttiva creata ad hoc in occasione del trasferimento, o come tale identificata dalle parti del negozio traslativo, essendo preclusa l'esternalizzazione come firma incontrollata di espulsione di frazioni non coordinate fa loro, di semplici reparti o uffici, di

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articolazioni non autonome, unificate soltanto dalla volontà dell'imprenditore e non dall'inerenza dei rapporti di lavoro ad un ramo di azienda già costituito…».

Ne discende che si applica la disciplina dettata dall'art. 2112 c.c., anche in caso di cessione di parte dell’azienda, purché si tratti di un insieme organicamente finalizzato all'esercizio dell'attività di impresa, con autonomia funzionale di beni e strutture.

Da ultimo, si ritiene utile richiamare la recente pronuncia della Suprema Corte, la quale ha ribadito l’insindacabilità, nonché la liceità, dell’operazione, qualora l’oggetto del trasferimento sia costituito da un’entità economica con propria identità, ovvero organizzata in modo stabile, e non destinata all’esecuzione di una sola opera, bensì costituente un legame funzionale tale da rendere l’attività dei lavoratori interagenti e capaci di tradursi in beni o servizi determinati (Cass. 24 ottobre 2014, n. 22688).

La Corte di Giustizia Europea (Sentenza del 6 marzo 2014 n. C-458/12), discostandosi dall’orientamento della Corte di Cassazione, ha affermato che l'art. 1, par. 1, lett. a) e b), della direttiva 2001/23 deve essere interpretato nel senso che non osta ad una normativa nazionale la quale, in presenza di un trasferimento di una parte di impresa, consenta la successione del cessionario al cedente nei rapporti di lavoro nell'ipotesi in cui la parte di impresa in questione non costituisca un'entità economica funzionalmente autonoma preesistente al suo trasferimento. Pertanto, si deve ritenere che rientri nella fattispecie del trasferimento di ramo d'azienda anche l’ipotesi in cui quest’ultimo non sia preesistente alla cessione.

1.2. Disposizioni normative in tema di “trasferimento di personale”.

Con l’espressione “trasferimento d’azienda” – a norma dell’art. 2112, comma 5 c.c. – si intende «qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità di un’attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro».

Come è noto, il D.Lgs. n. 28 del 2001 ha modificato l’art. 2112 c.c. prevedendo che:  in caso di trasferimento d’azienda il rapporto di lavoro continua con il

cessionario, ed il lavoratore conserva tutti i diritti che derivano dallo stesso;  il cessionario è tenuto all’applicazione dei trattamenti economici e normativi,

previsti dai contratti collettivi nazionali, territoriali ed aziendali, vigenti alla data del trasferimento, fino alla loro scadenza, salvo che gli stessi siano sostituiti da altri contratti collettivi applicabili all’impresa del cessionario. Il

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lavoratore conserva, pertanto, tutti i diritti derivanti dall’anzianità raggiunta anteriormente al trasferimento;

 il trasferimento d’azienda non costituisce di per sé motivo di licenziamento;  cedente e cessionario sono obbligati in solido per tutti i crediti esistenti

anteriormente alla data del trasferimento. A questo proposito – come chiarito dalla Corte di Cassazione nella Sentenza n. 8179 del 16 giugno 2001 – con il trasferimento non vi è un’estensione automatica della responsabilità dell’acquirente circa i debiti contratti dall’alienante nei confronti degli Istituti Previdenziali, per omesso versamento di contributi obbligatori dei lavoratori dipendenti esistenti al momento del trasferimento, in quanto gli stessi costituiscono debiti inerenti l’attività d’azienda verso terzi e non nei confronti dei dipendenti. Per quanto concerne i debiti INAIL, ai sensi dell’art. 15 del D.P.R. 11241/1965 – in caso di trasferimento d’azienda – l’acquirente è solidalmente obbligato con il venditore per i premi riferiti all’anno di trasferimento ed ai due antecedenti. Tale responsabilità sussiste a prescindere dall’iscrizione dei debiti suddetti nei libri contabili obbligatori. Il Legislatore, con l’art. 2112 c.c., ha quindi voluto evitare che il trasferimento del c.d. “ramo d’azienda” si trasformi in un semplice strumento di sostituzione del datore di lavoro con un altro, sul quale i lavoratori possano riporre minore affidamento sia sul piano della solvibilità, sia dell’attitudine a proseguire con continuità l’attività produttiva (Cass. 9 maggio 2014, n. 10128).

Parte della dottrina, seguita dalla giurisprudenza prevalente, afferma che l’azienda è l’organizzazione non solo di beni, ma anche di servizi; che sono parte integrante della stessa i rapporti di lavoro con il personale, nonché tutti i rapporti contrattuali stipulati per l’esercizio dell’impresa, anche se aventi ad oggetto beni non attualmente impiegati nell’azienda. «Poiché l’azienda è un complesso di beni e di servizi (capitale, fisso e circolante, e lavoro) unificati dalla unitaria destinazione produttiva, in funzione della quale sono organizzati e coordinati dall’imprenditore, essa cessa di esistere quando i vari elementi siano stati dispersi, assumendo i singoli beni destinazioni diverse, nella specie, per la chiusura dell’esercizio di vendita, la rimozione delle merci e delle attrezzature e la restituzione al proprietario del locale» (Cass. 9 giugno 1981, n. 3723, in Giur. Comm., 1981, 1, p. 2942).

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In tale prospettiva, la giurisprudenza giunge al limite di «(…) legittimare in maniera finalmente certa ed inequivocabile una nozione di trasferimento di impresa con più attenuati caratteri di materializzazione e che cioè – in linea con un assetto produttivo diretto a dare sempre maggiore rilevanza alla capacità professionale e alle conoscenze tecniche dei lavoratori – consideri “attività economica” suscettibile di figurare come oggetto di detto trasferimento anche i soli lavoratori, che per essere stati addetti ad un ramo della impresa e per avere acquisito una complesso di nozioni e di esperienze, siano capaci di svolgere autonomamente – e, quindi, pur senza il supporto di beni immobili, macchine, attrezzi di lavoro o di altri beni – le proprie funzioni anche presso il nuovo datore di lavoro» (Cass. 23 luglio 2002, n. 10761, in Leg. e giust., 2003, p. 19). Pertanto, secondo la ricostruzione prevalente sia in dottrina sia in giurisprudenza, si può affermare che l’azienda è un complesso di beni in senso lato – ivi compresi i servizi dei prestatori di lavoro – nella disponibilità o nel godimento attuale dell’imprenditore, in virtù di diritti eterogenei – reali o di credito – strumentalmente coordinati dall’imprenditore in vista di un fine unitario – produttivo o di scambio – che è proprio l’esercizio dell’attività di impresa.

Inoltre, in merito all'autonomia del ramo d'azienda trasferito si è espressa la Corte di Cassazione, con la Sentenza del 4 dicembre 2013, n. 21711, precisando «…che il trasferimento a un altro datore di lavoro di una serie di contratti di lavoro eterogenei, […] rappresenta cessione di ramo d'azienda solo se prima del negozio tra cedente e cessionario questi contratti configuravano una vera e propria struttura aziendale con autonomia funzionale e produttiva: in mancanza di questi elementi, il trasferimento è una mera esternalizzazione». Elemento qualificante dunque, ai fini del riconoscimento dell’operazione come “trasferimento di ramo” e non come mera delocalizzazione – o accentramento del personale –, risulta essere la preesistenza di un segmento aziendale autonomo oggetto di cessione.

Da ultimo, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha confermato il proprio orientamento, ribadendo che il requisito dell’autonomia produttiva e funzionale del ramo d’azienda oggetto del trasferimento deve essere preesistente all’atto del trasferimento stesso, non potendosi creare una struttura produttiva ad hoc al momento della cessione (Cass. S.U. 15 aprile 2014, n. 8756).

Per contro, la Corte di Giustizia Europea ha affermato che l'art. 1, par. 1, lett. a) e b), della direttiva 2001/23 deve essere interpretato nel senso che non osta ad una normativa

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nazionale la quale, in presenza di un trasferimento di una parte di impresa, consenta la successione del cessionario al cedente nei rapporti di lavoro nell'ipotesi in cui la parte di impresa in questione non costituisca un'entità economica funzionalmente autonoma preesistente al suo trasferimento. Pertanto, si deve ritenere che rientri nella fattispecie del trasferimento di ramo d'azienda anche l’ipotesi in cui quest’ultimo non sia preesistente alla cessione; in ciò assecondando il disposto di cui all’art. 2112, comma 5, c.c., secondo cui si avrebbe trasferimento d’azienda anche per quell’attività economica organizzata identificata come tale “dal cedente e dal cessionario al momento del trasferimento” (Sentenza del 6 marzo 2014 n. C-458/12).

Concludendo, secondo l’orientamento prevalente della giurisprudenza – per così dire “domestica” – è necessaria la preesistenza del segmento aziendale oggetto di cessione, nonché la sua autonoma e unitaria organizzazione, quali corollari del principio della conservazione dell’identità del ramo ceduto; al contrario, la giurisprudenza comunitaria ritiene che si rientri nella fattispecie del trasferimento d’azienda anche quando il ramo d’azienda medesimo sia di per sé privo di una preesistente autonomia organizzativa ed economica volta ad uno scopo unitario.

2. Nozione di azienda.

L’art. 2555 c.c. fornisce la nozione di azienda, stabilendo che essa è costituita dal complesso di beni organizzato dall’imprenditore per l’esercizio dell’Impresa.

La definizione lascia intendere che l’azienda non è identificabile con l’attività di Impresa.

In particolare, l’impresa è l’attività (commerciale ai sensi dell’art. 2195 c.c., o agricola ai sensi dell’art. 2135 c.c.) esercitata dall’imprenditore, in forma sia individuale ai sensi degli artt. 2082 e 2083 c.c., sia collettiva secondo le forme previste dai Titoli V, VI e VII del Libro Quinto del Codice Civile.

Di tutt’altra natura è l’azienda, definibile come lo strumento attraverso il quale l’imprenditore esercita l’attività di impresa, composto da un complesso di beni materiali – ad esempio lo stabilimento in cui viene svolta l’attività, la scrivania e le altre strumentazioni – ovvero immateriali – quali le licenze, i brevetti, le conoscenze tecnologiche o personali dell’imprenditore stesso -.

Nella nozione di azienda, particolare rilevanza deve essere data all’organizzazione: l’azienda è un insieme di beni eterogenei che subisce modificazioni qualitative e

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quantitative nel corso dello svolgimento dell’attività d’impresa, pur restando un complesso caratterizzato da unità di tipo funzionale, tenuto conto del coordinamento e del rapporto di complementarietà tra gli elementi costitutivi, nonché dell’unitaria destinazione a uno specifico fine produttivo ad opera dell’imprenditore.

L’esercizio dell’impresa presuppone pertanto tre elementi: uno soggettivo – l’imprenditore –, uno oggettivo – l’azienda – e uno fattuale – l’attività di impresa. Gli elementi devono necessariamente concorrere al fine dell’esercizio effettivo dell’attività. La dottrina evidenzia come «sarebbe possibile immaginare un’azienda senza imprenditore, o un imprenditore senza azienda, o, ancora, un’impresa senza imprenditore. Ma anche una pluralità di aziende esercitate da un’unica impresa o al contrario una pluralità di imprese con una sola azienda. Imprenditore, impresa e azienda sono momenti distinguibili tra di loro e quindi, al limite, possono presentarsi separatamente. Non è detto peraltro che ciò sia sempre e comunque ipotizzabile con facilità. Può esservi – temporaneamente ed eccezionalmente – imprenditore senza impresa e senza azienda, come è accaduto negli anni 1962-1963 in conseguenza della nazionalizzazione delle imprese elettriche nel periodo di tempo intercorso tra l’esproprio degli imprenditori elettrici con la riserva dell’attività all’ENEL e la modifica da parte degli imprenditori espropriati del loro statuto per dare alla loro attività un oggetto diverso. Può esservi azienda senza imprenditore e senza impresa, ad esempio per il periodo di tempo che segue alla sospensione dell’attività in conseguenza della morte o della interdizione o del fallimento del titolare. In questo caso l’azienda non può sopravvivere indefinitamente, ma sino a che si mantiene nella sua unità produttiva ed organizzativa e sino a che conserva la funzionalità all’esercizio dell’impresa, risponde ai requisiti dell’art. 2555 e può formare oggetto di negozio traslativo o essere riattivata.

Non può sussistere invece un’impresa senza azienda. L’attività non si esercita se non vi sono beni con i quali esercitarla. Il nucleo aziendale può essere minimo ed elementare, ma deve esserci. Più delicato è il quesito se possa ipotizzarsi un’impresa senza imprenditore. L’impresa senza imprenditore sembra a prima vista una contraddizione in terminis. Come può esservi esercizio dell’impresa — la domanda sorge spontanea — se non vi è qualcuno (Stato o ente pubblico o privato o persona fisica o collettività di lavoratori) che metta in moto, o a cui ricondurre, il processo economico? L’ipotesi non può tuttavia essere esclusa in modo assoluto allorché l’attività sia svolta da un

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imprenditore individuale e, morto questo, essa prosegua nelle more dell’accettazione dell’eredità da parte degli aventi diritto nel nome di un titolare che non c’è più» (BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, in Trattato di diritto commerciale, vol. I, Padova, 2001, p. 608 ss.).

3. Gli elementi costitutivi dell’azienda.

L’azienda, come si è detto, è un complesso di beni; pare logico, quindi, domandarsi quali siano i beni che la compongono.

Parte della dottrina li individua in tutti i beni, di qualsiasi natura – mobili e immobili, materiali ed immateriali, fungibili ed infungibili – «organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa».

Secondo tale orientamento, per qualificare un dato bene come bene aziendale rileva soltanto la destinazione funzionale, mentre è irrilevante il titolo giuridico (reale od obbligatorio) che legittima l’imprenditore ad utilizzare un dato bene nel processo produttivo. «Pertanto, un bene di proprietà dell’imprenditore che non sia da questi effettivamente destinato allo svolgimento dell’attività di impresa, non è da considerarsi come bene aziendale. Per contro, la qualifica di bene aziendale compete anche ai beni di proprietà di terzi, di cui l’imprenditore può disporre in base ad un valido titolo giuridico, a condizione che li utilizzi nello svolgimento dell’attività di impresa» (CAMPOBASSO, Diritto commerciale. 1. Diritto dell’impresa, Torino, 2010, p. 140 ss.). Al fine di individuare con precisione i beni che compongono l’azienda è dunque necessario scomporre in tre passaggi logici la definizione dell’istituto: con l’aggettivo “tutti” vanno intesi i beni di titolarità sia dell’imprenditore sia di terzi; nell’ambito dell’universalità dei beni, così individuati, i beni ricompresi nell’azienda sono quelli che rientrano nel possesso dell’imprenditore, il quale li organizza, li amministra e gode dei benefici derivanti dal loro utilizzo; il terzo passaggio, fondamentale al fine dell’individuazione, è il complemento di scopo della definizione «per l’esercizio dell’impresa» e cioè la destinazione funzionale della citata universalità di beni.

L’analisi della definizione conduce all’identificazione dei criteri necessari per valutare quali siano i beni da ricomprendere nell’azienda: tutti quei beni, siano essi di proprietà dell’imprenditore o di terzi, che l’imprenditore utilizza al fine di esercitare l’attività di impresa. Sono invece esclusi dal perimetro aziendale tutti i beni di proprietà dello stesso (o di terzi), utilizzati per fini estranei all’attività di impresa.

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Pare quindi potersi affermare che, affinché un bene possa essere qualificato come “bene aziendale” è necessario e sufficiente che lo stesso sia destinato all’esercizio dell’attività di impresa, ossia che il bene stesso sia inserito nel ciclo produttivo-economico volto alla produzione ed allo scambio di beni e servizi.

Controverso è invece, quale sia il significato da attribuire alla parola “beni” di cui all’art. 2555 c.c. e che cosa, quindi, debba ritenersi ricompreso in tale nozione.

La dottrina minoritaria sostiene che fanno parte dell’azienda, ai sensi dell’art. 2555 c.c., solo i beni di cui all’art. 810 c.c. e quindi i beni in senso proprio di cui l’imprenditore si avvale per l’esercizio dell’attività di impresa. «Trattasi di una tesi fedele al dato letterale della norma: poiché, dal punto di vista giuridico, i beni sono solo le res che possono formare oggetto di diritti e la disciplina dell’azienda non pare offrire alcun valido argomento per affermare che nell’art. 2555 c.c. il termine “beni” sia stato utilizzato in un significato diverso e più ampio, la conclusione alla quale si può giungere è che elementi costitutivi dell’azienda sono solo i beni in senso proprio» (FERRENTINO-FERRUCCI, Dell’azienda, Milano, 2014, p. 13).

Altra parte della dottrina, seguita anche dalla giurisprudenza prevalente, tende ad ampliare la nozione di “bene aziendale” e a ricomprendere tra gli elementi costitutivi dell’azienda ogni elemento patrimoniale utilizzato dall’imprenditore nell’esercizio della propria attività e, più in generale, tutto ciò che può costituire oggetto di tutela giuridica. Si afferma, quindi, che l’azienda è l’organizzazione non solo di beni, ma anche di servizi; che sono parte integrante della stessa i rapporti di lavoro con il personale, nonché tutti i rapporti contrattuali stipulati per l’esercizio dell’impresa, anche se aventi ad oggetto beni non attualmente impiegati nell’azienda. «Poiché l’azienda è un complesso di beni e di servizi (capitale, fisso e circolante, e lavoro) unificati dalla unitaria destinazione produttiva, in funzione della quale sono organizzati e coordinati dall’imprenditore, essa cessa di esistere quando i vari elementi siano stati dispersi, assumendo i singoli beni destinazioni diverse, nella specie, per la chiusura dell’esercizio di vendita, la rimozione delle merci e delle attrezzature e la restituzione al proprietario del locale; pertanto, in tale situazione, non è configurabile una misura cautelare (nella specie: sequestro conservativo) sull’azienda stessa, ormai cessata di esistere» (Cass. 9 giugno 1981, n. 3723, in Giur. Comm., 1981, 1, p. 2942).

La successione nei contratti previsti dall’art. 2558 c.c., nel caso di cessione di azienda, è istituto diverso dalla cessione del contratto di cui agli art. 1406 ss. c.c., in quanto può

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intervenire in qualsiasi fase del rapporto contrattuale, purché non del tutto esaurito, e quindi anche nella fase contenziosa, inerente ad una domanda di esatto adempimento, di garanzia per vizi o di risoluzione per inadempimento, con la conseguenza che il cessionario dell’azienda assume la posizione di successore a titolo particolare nel diritto controverso, ai sensi ed agli effetti dell’art. 111 c.p.c. (Cass. 11 agosto 1990, n. 8219, in Mass. Foro it., 1990, p. 979).

In una posizione intermedia si colloca poi parte della dottrina che, pur riconoscendo l’estraneità dei rapporti giuridici alla nozione di azienda, ritiene che gli stessi rapporti siano considerati dalla legge come pertinenziali ad essa.

Si afferma in particolare che: «… per quanto attiene ai rapporti giuridici posti in essere per l’esercizio dell’azienda non sarebbero parti di essa né del diritto su di essa, come confermerebbe un confronto tra gli artt. 2558 e 2555; perterrebbero ed accederebbero però ad essa e tali sarebbero considerati dalla legge. Di questo rapporto pertinenziale la norma darebbe riconoscimento e sanzione formale affermando la stretta inerenza dei contratti al complesso aziendale oggetto di trasferimento ed essenzialmente preoccupandosi di stabilire per quali di essi non si abbia subingresso e sotto quali condizioni si possa recederne. Sicché l’imprenditore, che ne è il titolare, può disporne separatamente, staccandoli dal tutto» (BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, in Trattato di diritto commerciale, vol. I, Padova, 2001, p. 619).

Concludendo, secondo la ricostruzione prevalente sia in dottrina sia in giurisprudenza, si può affermare che l’azienda è un complesso di beni in senso lato – ivi compresi i servizi dei prestatori di lavoro – nella disponibilità o nel godimento attuale dell’imprenditore, in virtù di diritti eterogenei – reali o di credito – strumentalmente coordinati dall’imprenditore in vista di un fine unitario – produttivo o di scambio – che è proprio l’esercizio dell’attività di impresa.

I beni, i diritti e gli altri rapporti sono strettamente funzionali all’organizzazione dei beni stessi, così che questo “collante funzionale” rende l’azienda diversa dalla mera somma dei singoli beni.

Rimane ancora da verificare se siano ricompresi nel compendio aziendale anche gli altri fattori produttivi.

La dottrina economica individua l’azienda nell’unità economica in cui si svolge il processo produttivo. Gli elementi fondamentali della sua attività sono: i fattori

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produttivi da essa impiegati, il prodotto che risulta da tale impiego e il reddito, ossia la differenza tra il valore del prodotto (ricavo) e il valore dei fattori (costo).

In tal senso, la dottrina classica economica individua i fattori produttivi dell’azienda in “terra”, “capitale” e “lavoro”, in cui i beni classificabili come “terra” o “capitale” e il “lavoro” possono essere forniti dall’imprenditore stesso, ovvero da altri soggetti con i quali l’imprenditore stipula contratti di servizio (lavoro dipendente, collaborazioni, fornitura di energia elettrica ecc.).

L’esercizio dell’attività attraverso l’organizzazione dei beni e delle risorse aziendali genera – almeno nella teoria ed in contesti di “normalità” dei mercati – risultati di natura monetaria, qualora l’attività abbia scopo di lucro, o di qualsiasi altra natura. Sulla base di tale presupposto, l’azienda ha un valore differente rispetto alla semplice somma dei valori di alienazione dei singoli componenti.

Questa differenza è denominata “avviamento”, che si estrinseca nella capacità dell’azienda di generare un risultato economico o di altra natura, positivo o negativo. In tal senso, potrebbe quindi configurarsi un avviamento negativo (o “disavviamento”), dovuto all’assorbimento di risorse che l’attività genera con il suo esercizio attraverso detto strumento.

L’avviamento (positivo) può essere, quindi, definito come l’attitudine dell’organismo produttivo a realizzare profitti (ricavi eccedenti i costi) maggiori di quelli raggiungibili attraverso l’utilizzazione isolata dei singoli elementi che la compongono.

L’avviamento, poi, può essere di tipo oggettivo o soggettivo. «L’avviamento oggettivo deriva dalla stessa organizzazione dei beni aziendali ed è ricollegabile a fattori suscettibili di permanere anche se muta il titolare dell’azienda, in quanto insiti nel coordinamento funzionale esistente tra i diversi beni (si pensi alla capacità di un complesso industriale di consentire una produzione a costi competitivi sul mercato). Tale forma di avviamento si trasferisce con l’azienda e, quindi, l’acquirente dell’azienda lo consegue automaticamente, per il solo fatto di avere acquistato l’azienda. L’avviamento soggettivo, invece, dipende dalle qualità personali e dall’abilità operativa dell’imprenditore: esso indica la capacità personale del titolare dell’azienda di utilizzare al meglio i mezzi di cui dispone, competendo con successo sul mercato, procacciandosi e conservando la clientela; esso, per sua natura, è intrasferibile» (FERRENTINO-FERRUCCI, Dell’azienda, Milano, 2014, p. 17).

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In dottrina e giurisprudenza si è largamente discusso circa la natura dell’avviamento: taluni lo identificano come bene ricompreso nel compendio aziendale, altri come una qualità di quest’ultimo.

Più precisamente, la dottrina tradizionale, unitamente a qualche pronuncia di merito, sul riflesso che il complesso aziendale «costituisce una universitas rerum, comprendente cose corporali (mobili e immobili), cose immateriali, compreso l’avviamento, rapporti di lavoro con il personale, crediti e debiti (anche litigiosi) con la clientela, elementi, questi, tutti unificati, in senso funzionale, dalla volontà del titolare, in vista della loro destinazione al comune fine della perseguita attività commerciale» (Trib. Catanzaro, 15 marzo 2011), identifica l’avviamento di un’azienda con la sua clientela: l’azienda è bene avviata e, quindi, ha un buon avviamento quando chi la gestisce può contare su una valida, solida ed affezionata clientela. L’avviamento allora, secondo tale ricostruzione, costituirebbe un bene aziendale di carattere immateriale.

La dottrina prevalente e la Suprema Corte, invece, negano che l’avviamento possa essere considerato come un bene autonomo e distinto, argomentando sulla base del fatto che esso non è suscettibile di autonomo trasferimento. L’avviamento, quindi, non è né un bene, né un diritto facente parte dell’azienda, ma costituisce una semplice qualità dell’azienda, anche se dotato di un proprio distinto valore patrimoniale ed oggetto di autonoma, sia pure parziale, tutela giuridica. In particolare: «L’azienda, quale complesso di beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa, si distingue nettamente dai beni che la compongono e prescinde dalla titolarità di questi ultimi. Essendo poi l’avviamento una qualità dell’azienda, il maggior valore economico che esso fa acquisire agli elementi che la compongono spetta a chi li abbia organizzati ai fini della produzione o dello scambio di beni o di servizi» (Cass. 6 dicembre 1995, n. 12575, inwww.dirittoegiustizia.it).

La consolidata giurisprudenza indica che «l’avviamento, costituendo una qualità dell’azienda, non può farsi rientrare tra le consistenze che costituiscono, invece, elementi (materiali o immateriali) della sua struttura, e non fruisce, perciò, della indennizzabilità prevista dall’ultimo comma dell’art. 2561 c.c. (solo) per gli incrementi di queste ultime prodotti dall’usufruttuario o, ex art. 2562, dall’affittuario» (Cass. 20 aprile 1994, n. 3775, inwww.dirittoegiustizia.it); inoltre, la Suprema Corte ha precisato che «non essendo l’avviamento un bene compreso nell’azienda e del quale si possa ipotizzare un vizio nel senso in cui tale nozione è intesa nell’art. 1490 c.c. in tema di

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vizi della cosa venduta, ma soltanto una qualità immateriale dell’azienda, che può essere dedotta in contratto e dar luogo alla fattispecie d’inadempimento descritta nell’art. 1497 c.c. in tema di mancanza di qualità promesse, la sua mancanza, o il suo valore inferiore alle pattuizioni del contratto non sono oggetto della speciale garanzia per vizi della cosa venduta prevista dalla legge e non possono essere poste a fondamento di un’azione di riduzione del prezzo» (Cass. 8 marzo 2013, n.5845, in

www.dirittoegiustizia.it).

L’avviamento poi non si identifica con la clientela; esso, al contrario, risulta dal concorso di vari elementi, quali ad esempio il rapporto con i fornitori, il grado di capacità dei lavoratori dipendenti e degli altri collaboratori, l’organizzazione della produzione, l’ubicazione dell’azienda, ecc.

«La clientela è, invece, il veicolo necessario attraverso il quale l’imprenditore realizza il suo profitto, identificandosi semplicemente come una delle componenti – seppur probabilmente la più importante – dell’avviamento dell’azienda» (FERRENTINO -FERRUCCI, Dell’azienda, Milano, 2014, p. 18).

«La possibilità di attribuire un distinto valore patrimoniale all’avviamento è confermata anche dal dato codicistico (così come modificato dal D. Lgs. 9 aprile 1991 n. 127), infatti l’art. 2424, 1° comma, c.c. statuisce di indicare nell’attivo dello stato patrimoniale del bilancio il valore dell’avviamento e l’art. 2426, n. 6, c.c. indica i criteri per la valutazione economica dell’avviamento» (FERRENTINO-FERRUCCI, Dell’azienda, Milano, 2014, p. 19).

Oggetto di ampio dibattito è altresì la natura dell’azienda stessa, ove si riscontra il vivo contrasto tra le teorie unitarie e le teorie atomistiche.

La teoria unitaria considera l’azienda come un bene unico: un bene nuovo e distinto rispetto ai singoli beni che la compongono. Si è così affermato che l’azienda è un bene immateriale, rappresentato dall’organizzazione stessa. Nella stessa prospettiva, l’azienda è stata qualificata come un’universalità di beni: opinione quest’ultima che riscuote ancora oggi largo seguito soprattutto in giurisprudenza.

La giurisprudenza ha precisato che: «L’acquisto da parte di un terzo di una quota ideale dell’azienda, già gestita, a scopo di profitto, dall’originario imprenditore individuale, determina tra le parti, in difetto di espressa pattuizione contraria, l’insorgere non già della comunione di godimento di cui l’art. 2248 c.c. – la quale non è configurabile nel caso in cui l’oggetto di comune utilizzazione sia costituito non dai vari beni che

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costituiscono l’azienda, ma da questa stessa, secondo la sua strumentale destinazione all’esercizio dell’impresa – bensì di una società di fatto, col corollario che la successiva alienazione della quota è suscettibile di dimostrazione anche attraverso la prova testimoniale, in applicazione delle norme che disciplinano la società irregolare e con esclusione dell’applicabilità dell’art. 2556 c.c. che impone la prova scritta per il trasferimento della proprietà o del godimento dell’azienda» (Cass. 3 aprile 1993 n. 4053, in Dir. fall., 1993, p. 1078).

Sulla base di tale teoria, pertanto, il titolare dell’azienda ha sulla stessa un vero e proprio diritto di proprietà unitario, destinato a coesistere con i diritti (reali o obbligatori) che vanta sui singoli beni.

Il titolare dell’azienda può dunque tutelare il suo diritto sul complesso aziendale con gli strumenti che l’ordinamento concede al titolare del diritto di proprietà, anche se non vanta tale diritto su taluni beni aziendali.

«La teoria atomistica concepisce invece l’azienda come una semplice pluralità di beni, funzionalmente collegati tra loro e sui quali l’imprenditore può vantare diritti diversi (proprietà, diritti reali limitati, diritti personali di godimento). Si esclude perciò che esista un “bene” azienda formante oggetto di autonomo diritto di proprietà o di altro diritto reale unitario e, quindi, si attribuisce un significato atecnico alle norme che parlano di proprietà o di proprietario dell’azienda e di usufrutto della stessa» (CAMPOBASSO, Diritto commerciale. 1. Diritto dell’impresa, Torino, 2010, p. 143) La questione pare ora risolta dalla Cassazione a Sezioni Unite, la quale nella sentenza già citata, ha affermato che, «ai fini della disciplina del possesso e dell’usucapione, l’azienda, quale complesso dei beni organizzati per l’esercizio dell’impresa, deve essere considerata come un bene distinto dai singoli componenti, suscettibile di essere unitariamente posseduto e, nel concorso degli altri elementi indicati dalla legge, usucapito» (Cass. S.U. 5 marzo 2014, n. 5087, inwww.dirittoegiustizia.it).

4. La circolazione dell’azienda. Profili di carattere generale.

Come si è detto, l’azienda è un bene suscettibile di autonoma valutazione economica, distinto dai singoli componenti; pertanto, può sia circolare sia formare oggetto di diritti reali o di godimento.

Il titolare dell’azienda ha la facoltà di compiere atti di disposizione riguardanti l’intera azienda ovvero singoli beni aziendali.

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Gli atti di disposizione possono avere diversa natura: e, così, l’azienda può essere venduta, conferita in società, donata, conferita in trust, oppure possono essere costituiti sulla stessa diritti reali, come l’usufrutto, o diritti personali di godimento, come l’affitto. Allo stesso modo, il titolare può trasferire uno o più beni aziendali: possono essere alienati singoli beni, quali i macchinari, i prodotti o i locali; possono anche essere ceduti – a vario titolo – i diritti di credito, i contratti o i debiti.

Naturalmente è di grande importanza stabilire, nel caso concreto, se il negozio compiuto dal titolare dell’azienda sia da qualificarsi come trasferimento di azienda (o di un suo ramo) o come cessione di singoli beni aziendali, dal momento che solo nel primo caso si applica la disciplina sulla circolazione dell’azienda di cui agli artt. 2555 ss. c.c..

La distinzione affrontata a livello teorico non è però sempre agevole nella pratica, soprattutto quando l’atto di disposizione comprende solo una parte dei beni aziendali. Inoltre, può verificarsi che le parti ricorrano ad espedienti, quali il frazionamento del trasferimento dell’azienda in più atti separati, per sottrarsi agli effetti nei confronti dei terzi che, ex lege, conseguono al trasferimento di un’azienda (ad esempio il subingresso dell’acquirente nei contratti di lavoro e la responsabilità dello stesso per i debiti aziendali).

Come precisato dalla dottrina, «… è principio consolidato che la qualificazione di una data vicenda circolatoria come trasferimento di azienda (complesso di beni organizzati) o come trasferimento di singoli beni aziendali deve essere operata secondo criteri oggettivi, ponendo lo sguardo sul risultato realmente perseguito e realizzato e non sul nomen dato al contratto dalle parti o alla loro intenzione soggettiva. Ciò in quanto il trasferimento di azienda produce effetti che incidono anche sulla posizione dei terzi» (CAMPOBASSO, Diritto commerciale. 1. Diritto dell’impresa, Torino, 2010, p. 147). «È tuttavia altrettanto pacifico che, per aversi trasferimento di azienda, non è necessario che l’atto di disposizione comprenda l’intero complesso aziendale: si resta in tale ambito anche quando l’imprenditore trasferisce un ramo particolare della azienda, purché dotato di organicità operativa; tale aspetto incide anche sul piano fiscale, poiché vi è diversità di imposizione tra la cessione di azienda o di un suo ramo e la cessione di singoli beni della stessa» (FERRENTINO-FERRUCCI, Dell’azienda, Milano, 2014, p. 34)

In termini più generali, la Corte di Giustizia Europea è giunta alla conclusione che «la legislazione italiana non è contraria alla direttiva europea in materia di trasferimento

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di azienda ove consente la cessione di rami privi di entità economica funzionalmente autonoma preesistente al suo trasferimento» (C458/12, inwww.europa.eu)

5. Il trasferimento d’azienda. 5.1. Aspetti generali.

La prima e più comune tipologia di trasferimento di azienda (o di un suo ramo) è la cessione della medesima.

Il contratto di trasferimento dell’azienda, ai sensi dell’art. 2556 c.c., è valido solo se stipulato con l’osservanza «delle forme stabilite dalla legge per il trasferimento dei singoli beni che compongono l’azienda o per la particolare natura del contratto». É stato affermato che: «Mancando un’autonoma ed unitaria disciplina della circolazione dell’azienda, il trasferimento di ciascun bene aziendale segue il regime dettato in via generale. Così, per il trasferimento della proprietà degli immobili aziendali all’acquirente è necessaria la forma scritta a pena di nullità (art. 1350, n. l, c.c.). Devono essere altresì rispettate le regole di forma previste per il particolare tipo di negozio traslativo posto in essere; ad esempio, il conferimento dell’azienda in una società di capitali deve sempre avvenire per atto pubblico (art. 2328 c.c.)» (CAMPOBASSO, Diritto commerciale. 1. Diritto dell’impresa, Torino, 2010, p. 148 ss.) L’art. 2556, 1° comma, c.c., pur non richiedendo una specifica forma per la validità dei contratti aventi ad oggetto il trasferimento della proprietà o il godimento dell’azienda, fa tuttavia espressamente salve, da una parte, le forme prescritte ad substantiam per il trasferimento dei singoli beni che compongono l’azienda e, dall’altra, quelle richiesta dalla particolare natura del contratto di volta in volta adottato.

Avendo quindi riguardo alla natura dei beni che compongono il complesso aziendale, mentre nessun problema di forma si pone qualora l’azienda sia composta solo da beni mobili, nell’ipotesi in cui l’azienda comprenda anche beni immobili, affinché l’eventuale atto di cessione dell’azienda sia pienamente valido ed efficace, è necessaria la forma scritta, prevista a pena di nullità dall’art. 1350 comma 1, n.1 c.c..

É bene, al riguardo, precisare che la forma scritta è richiesta per la validità dell’alienazione dei beni immobili, mentre la trascrizione è necessaria al fine di rendere opponibile il loro trasferimento ai terzi ex art. 2644 c.c., nonché ai creditori ex art. 2914, n. 1, c.c.

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Se nell’azienda non vi sono beni per cui è prescritta una forma particolare, la cessione può anche avvenire in forma orale, prevalendo, in mancanza di diversa previsione legislativa, il principio della libertà di forma.

Come accennato, ai sensi dell’art. 2556, 1° comma, c.c., al fine di stabilire quale sia la forma necessaria per la validità del contratto di cessione di azienda, occorre avere riguardo, oltre che al tipo di beni ceduti, anche alla particolare natura del contratto concluso dalle parti. Devono quindi essere rispettate le regole formali previste per il tipo di negozio traslativo di volta in volta posto in essere.

L’art. 2556, 1° comma, c.c., dispone altresì che, per le imprese soggette a registrazione, ogni atto di disposizione deve essere provato per iscritto.

«Si tratta di una fattispecie di forma scritta ad probationem: la sua mancanza comporta come unico effetto che, in un’eventuale controversia giudiziaria, le parti (ma non i terzi) non potranno avvalersi della prova per testimoni per dimostrare l’esistenza di un contratto (art. 2725, 10° comma, c.c.)» (CAMPOBASSO, Diritto commerciale. 1. Diritto dell’impresa, Torino, 2010, p. 149)

La regola formale-probatoria non ha alcun riflesso sul piano sostanziale della valida ed efficace circolazione dell’azienda: essa ha un valore esclusivamente processuale, in quanto risponde soltanto ad una esigenza di certezza nei rapporti tra le parti contraenti. Più precisamente, l’esigenza della forma scritta non impedisce il trasferimento, che – pur in assenza della scrittura – rimane valido, efficace e dimostrabile in giudizio con ogni mezzo dai terzi e nei loro confronti, ma le parti del negozio perdono la possibilità di ricorrere alla prova testimoniale per dimostrare, nei rapporti reciproci, l’esistenza del contratto traslativo.

Vi è dibattito giurisprudenziale e dottrinale in ordine all’ambito di applicabilità della disposizione in esame, essendo controversa l’interpretazione dell’espressione “imprese soggette a registrazione”. Ciò sul riflesso che l’art. 8 L. 29.12.1993, n. 580 ha previsto forme di pubblicità, oltre che per le imprese commerciali, anche per gli imprenditori agricoli di cui all’art. 2083 c.c. e per le società semplici, stabilendo che essi siano iscritti in sezioni speciali del Registro delle Imprese, attribuendo a tale iscrizione la funzione di certificazione anagrafica e di pubblicità notizia.

In tale contesto, non è chiaro se la categoria delle “imprese soggette a registrazione” di cui all’art. 2556 c.c. comprenda le sole imprese soggette a registrazione nella sezione ordinaria del registro o se invece, a seguito delle modifiche legislative di cui sopra,

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annoveri anche le imprese che prima erano certamente escluse dalla categoria, ossia quelle assoggettate (ora) ad iscrizione nelle sezioni speciali.

La dottrina prevalente ritiene che la previsione di cui all’art. 2556 c.c. continui a non riguardare le piccole imprese e le imprese agricole individuali o costituite in forma di società semplice: in definitiva, l’istituzione – nel Registro delle Imprese – di apposite sezioni speciali non ha sortito alcun effetto sulla determinazione dell’ambito applicativo dell’art. 2556 c.c.. Secondo tale impostazione – peraltro condivisa dalla giurisprudenza – la cessione dell’azienda facente capo a imprese piccole o svolgenti attività agricola non richiede la forma scritta, neppure ad probationem, con la conseguenza che l’esistenza del contratto può essere provato con ogni mezzo, anche mediante presunzioni o testimoni.

«A norma dell’art. 2556 c.c., è da escludere che per il trasferimento di un’azienda mobiliare sia richiesta la prova scritta a pena di nullità; non è inoltre necessaria per il combinato disposto degli art. 2556, 2202 e 2083 c.c., prova scritta nei contratti aventi ad oggetto il trasferimento della proprietà o del godimento di un’azienda di piccolo commercio, non essendo la stessa soggetta a registrazione» (Cass., 4 giungo 1997, n. 4986, inwww.dirittoegiustizia.it).

Il secondo comma dell’art. 2556 c.c. stabilisce che i contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà o il godimento dell’azienda “in forma pubblica o per scrittura privata autenticata, devono essere depositati per l’iscrizione nel registro delle imprese”.

Nel nuovo testo introdotto dalla legge 12 agosto 1993 n. 310, la norma prescrive che, a tal fine, il contratto di trasferimento deve essere sempre redatto per atto pubblico o per scrittura privata autenticata e deve essere depositato (non più a cura delle parti ma) a cura del notaio per l’iscrizione, nel termine di trenta giorni.

La norma pone quindi per le parti contraenti un onere di forma e, per il notaio rogante, un obbligo di deposito e registrazione.

«Con questo meccanismo, basato su un incentivo per le parti ad utilizzare una determinata forma e sull’obbligo per il pubblico ufficiale coinvolto di curare il compimento di determinate formalità, il legislatore ha predisposto le condizioni affinché gli atti di trasferimento dell’azienda siano adeguatamente pubblicizzati» (FERRENTINO-FERRUCCI, Dell’azienda, Milano, 2014, p. 43)

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«La disposizione, cosi come oggi formulata, persegue anche finalità di ordine pubblico (prevenire e reprimere operazioni di riciclaggio di danaro); ciò spiega perché, forzando la lettera della norma, qualcuno ritiene che l’obbligo di registrazione sussista anche quando l’alienante e l’acquirente sono imprenditori tenuti soltanto all’iscrizione nelle sezioni speciali del Registro delle Imprese (piccoli imprenditori, imprenditori agricoli individuali e società semplice)» (FERRENTINO-FERRUCCI, Dell’azienda, Milano, 2014, p. 43 ss.).

«Resta tuttavia fermo che solo l’iscrizione nella sezione ordinaria del registro, se dovuta, produce la funzione dichiarativa (opponibilità del trasferimento) nei confronti dei terzi» (CAMPOBASSO, Diritto commerciale. 1. Diritto dell’impresa, Torino, 2010, p. 149).

La pubblicità di cui all’art. 2556, 2° comma, c.c. ha – secondo la dottrina prevalente – valore di mera pubblicità dichiarativa, senza che da essa possano scaturire effetti sostanziali.

«Si nega, in particolare, che l’iscrizione nel Registro delle Imprese sia idonea a risolvere eventuali conflitti tra una pluralità di acquirenti dello stesso bene: l’iscrizione di cui all’art. 2556 c.c. non costituisce un sistema per stabilire, al pari della trascrizione degli atti relativi a beni immobili, quale soggetto prevalga nell’eventualità in cui una stessa azienda sia stata acquistata da due o più acquirenti, ciascuno dei quali abbia regolarmente proceduto all’iscrizione del proprio titolo di acquisto» (FERRENTINO-FERRUCCI, Dell’azienda, Milano, 2014, p. 45)

Il problema di antinomia delle forme rimane, comunque, superato nella pratica: infatti, la forma del contratto di trasferimento d’azienda utilizzata è generalmente quella scritta, e più in particolare la forma della scrittura privata autenticata o dell’atto pubblico, in quanto richieste ai fini della (obbligatoria) iscrizione presso i pubblici registri.

5.2. Il divieto di concorrenza.

Il primo effetto del trasferimento della titolarità dell’azienda comporta, ai sensi dell’art. 2557 c.c., l’astensione, da parte dell’alienante – per un periodo di cinque anni dal trasferimento –, «dall’iniziare una nuova impresa che per l’oggetto, l’ubicazione o altre circostanze sia tale da sviare la clientela dell’azienda ceduta».

In ordine al fondamento di tale divieto, dottrina e giurisprudenza hanno elaborato numerose tesi, le più importanti delle quali possono essere sintetizzate come segue.

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Parte della dottrina ritiene che il divieto di concorrenza costituisce espressione dell’obbligo per l’alienante di consegnare all’acquirente dell’azienda la clientela, intesa come uno degli elementi costitutivi del complesso aziendale.

Più precisamente, partendo dal presupposto – sopra evidenziato – che la clientela non è un elemento estrinseco dell’azienda, ma, al contrario, è uno dei beni che concorrono a formarla (avviamento), si giunge alla conclusione che essa, con la cessione di azienda, viene trasferita insieme a tutti gli altri suoi elementi costitutivi.

Secondo tale impostazione (definita come teoria dell’esplicitazione del principio della irrevocabilità unilaterale degli atti negoziali), il divieto di concorrenza di cui all’art. 2557 c.c. costituisce lo strumento atto ad evitare che l’alienante, concluso il contratto di trasferimento di azienda, possa successivamente “riprendersi” un bene già alienato, ponendo in essere comportamenti concorrenziali volti a realizzare di fatto tale sottrazione.

Altra dottrina afferma, invece, che la ratio del divieto di concorrenza è costituita dall’obbligo dell’alienante dell’azienda di garantire il compratore contro l’evizione ed i vizi cui può andare incontro in seguito alla cessione.

La dottrina prevalente, seguita dalla giurisprudenza, ritiene che il divieto di concorrenza di cui all’art. 2557 c.c. costituisca un effetto “normale” del negozio di trasferimento dell’azienda, che trova la sua fonte nella legge e non nella volontà delle parti e si traduce in obbligo di non fare, posto in capo all’alienante, in applicazione del generale principio di buona fede nell’esecuzione dei contratti di cui all’art. 1375 c.c.

«L’azione di concorrenza sleale e quella di contraffazione della ditta o del marchio si distinguono nettamente l’una dall’altra, per la loro diversa natura, oggetto e presupposti; tuttavia, quando l’attività, nella quale si afferma concretizzarsi la concorrenza sleale, viene ricollegata alla contraffazione di detti segni distintivi, l’insussistenza di detta contraffazione importa, altresì, come necessaria conseguenza, l’esclusione di concorrenza sleale proposta sotto tale aspetto» (Cass. 13 febbraio 1975 n. 225, in Giur. Comm., 1975, p. 1427).

La norma contempera due opposte esigenze: da un lato, quella dell’acquirente dell’azienda di trattenere la clientela dell’impresa e quindi di godere dell’avviamento (soggettivo), del quale di regola si è tenuto conto nella pattuizione del prezzo di vendita; dall’altro lato, quella dell’alienante a non vedere compressa la propria libertà di

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iniziativa economica oltre un determinato arco di tempo (legislativamente ritenuto) sufficiente per consentire all’acquirente di consolidare la propria posizione nel mercato. Il divieto di concorrenza – in quanto disposto a tutela dell’interesse dell’acquirente onde evitare un indebito sviamento di clientela – è derogabile e ha carattere relativo: sussiste nei limiti in cui la nuova attività di impresa dell’alienante sia “idonea a sviare clientela all’azienda ceduta”. Le parti possono anche ampliare la portata dell’obbligo di astensione (ad esempio, ad attività non direttamente concorrenziali), purché non sia impedita ogni attività all’alienante (art. 2557, 2° comma, c.c.). È in ogni caso vietato prolungare oltre i cinque anni la durata del divieto (art. 2557, 3° comma, c.c.).

«La disposizione contenuta nell’art. 2557 c.c (secondo cui chi aliena l’azienda deve astenersi, per un periodo di cinque anni dal trasferimento, dall’iniziare una nuova impresa che sia idonea a sviare la clientela dell’azienda ceduta, appropriandosi nuovamente dell’avviamento) non ha il carattere dell’eccezionalità, in quanto con essa il legislatore non ha posto una norma derogativa del principio di libera concorrenza, ma ha inteso disciplinare nel modo più congruo la portata di quegli effetti connaturali al rapporto contrattuale posto in essere dalle parti. Pertanto, non è esclusa l’estensione analogica del citato art. 2557 c.c. all’ipotesi di cessione di quote di partecipazione in una società, ove il giudice di merito, con un’indagine che tenga conto di tutte le circostanze e le peculiarità del caso concreto, accerti che tale cessione abbia realizzato un “caso simile” all’alienazione di azienda, producendo sostanzialmente la sostituzione di un soggetto ad un altro nell’azienda» (Cass. 23 settembre 2011 n. 19430, in Soc., 2011, p. 1340).

«Il divieto è da ritenersi applicabile non solo alla vendita volontaria di azienda, ma anche quando la vendita è coattiva. Il divieto graverà perciò in capo all’imprenditore fallito nel caso di vendita in blocco dell’azienda da parte degli organi fallimentari, dal momento che la vendita ha pur sempre per oggetto l’azienda del fallito e non possono che ricadere sullo stesso tutti gli effetti ex lege ricollegati alla vendita. Ciò anche se il negozio è posto in essere dagli organi preposti alla procedura» (CAMPOBASSO, Diritto commerciale. 1. Diritto dell’impresa, Torino, 2010, p. 150).

L’art. 2557 c.c. non si limita a prevedere un generico divieto di concorrenza a carico del soggetto alienante, ma provvede anche a disciplinare tale divieto ponendo limiti alla sua estensione.

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In primis la norma in esame determina in cinque anni la durata del divieto legale di concorrenza. Si tratta di un lasso di tempo offerto all’acquirente affinché egli possa consolidare il rapporto con la clientela già facente capo all’azienda acquistata, sostituendosi nei rapporti in essere con l’alienante.

La disposizione offre, peraltro, ulteriori elementi di specificazione: chi aliena l’azienda deve astenersi dall’iniziare attività di impresa «che per l’oggetto, l’ubicazione o altre circostanze sia idonea a sviare la clientela dell’azienda ceduta».

La nuova impresa eventualmente iniziata dall’alienante non deve, quindi, avere un oggetto tale da poter determinare lo sviamento di clientela. Dalla lettura della disposizione pare che, affinché possa dirsi violato il divieto di concorrenza, non è necessario che l’oggetto della nuova azienda sia interamente identico a quello dell’azienda ceduta; costituisce violazione del divieto di concorrenza anche il comportamento dell’alienante il quale dia inizio ad una impresa che produce beni, seppur non identici, in qualche modo simili, tanto da poter essere considerati succedanei, avvantaggiandosi della sua posizione sul mercato e dei suoi precedenti rapporti con i clienti.

«Esiste violazione del patto di non concorrenza disciplinato dall’art. 2596 c.c. quando l’obbligato intraprenda un’attività economica nell’ambito dello stesso mercato in cui opera l’imprenditore, che sia idonea a rivolgersi alla clientela immediata di questi, offrendo servizi che, pur non identici, siano parimenti idonei a soddisfare l’esigenza sottesa alla domanda che la clientela chiede di soddisfare» (Cass. 21 gennaio 2004, n. 988, in Arch. Civ., 2004, p. 1318).

Tuttavia, la produzione di beni identici può non essere sufficiente ad integrare una violazione del divieto di concorrenza: può, infatti, accadere che venga destinata ad un ambito territoriale del tutto differente rispetto a quello dell’azienda ceduta, in modo tale da evitare che si realizzi uno sviamento della clientela. Nel mondo economico globalizzato di oggi, potrebbe essere più difficile tutelare il divieto “territoriale” di concorrenza: l’alienante potrebbe, infatti, vendere i prodotti attraverso un sito localizzato anche dall’altra parte del mondo, attraendo i suoi vecchi clienti.

Dall’analisi della disciplina del divieto di concorrenza contenuta nell’art. 2557 c.c., discende che tale divieto ha carattere relativo: l’operatività del divieto rimane subordinata ad un giudizio di idoneità della nuova impresa a sviare la clientela di quella ceduta.

(29)

Il carattere relativo del divieto di concorrenza trova conferma nella possibilità offerta alle parti di derogare, sia pure entro certi limiti, alla disciplina di legge.

A tale proposito, il secondo comma dell’art. 2557 c.c. prevede espressamente la validità del patto con il quale le parti convengono un’astensione dalla concorrenza in termini più ampi rispetto a quelli previsti dal primo comma. Tale derogabilità convenzionale incontra però due limiti: in primo luogo l’ampliamento eventuale del divieto di concorrenza non può essere comunque tale da impedire ogni attività dell’alienante; in secondo luogo l’ampliamento non può riguardare la durata massima del divieto; infatti, nel caso in cui venga convenzionalmente fissato un termine superiore ai cinque anni, il termine stesso si riduce automaticamente a quello massimo di legge.

Nessun limite sussiste invece, secondo la dottrina, per la restrizione dei limiti del divieto di concorrenza.

«In ogni caso, in applicazione del principio generale stabilito dall’art. 2596 c.c., il patto che limita la concorrenza deve essere provato per iscritto» (FERRENTINO -FERRUCCI, Dell’azienda, Milano, 2014, p. 59).

«Atteso il principio generale della libertà delle forme, la clausola di esclusiva inserita in contratti di vendita o di somministrazione, per i quali non sia richiesta la forma scritta, resta soggetta alla medesima disciplina formale del contratto nel suo complesso, talché non soggiace all’operatività dell’art. 2596 c.c. che impone tale forma, ad probationem per il patto che limita la concorrenza» (Cass. 18 dicembre 1991, n. 13623, in Guida dir., 1991, p. 132).

Da ultimo si rammenta che l’art. 2557 c.c. prevede l’espressa applicabilità del divieto di concorrenza non solo per il caso di alienazione dell’azienda (comma 1), ma anche per i casi di costituzione di usufrutto sull’azienda o di concessione in affitto della stessa. «Inoltre, il divieto continua ad operare anche se l’azienda viene ulteriormente alienata: esso vale dunque verso tutti coloro che, nel quinquennio, ne diverranno titolari» (BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, in Trattato di diritto commerciale, vol. I, Padova, 2001, p. 151).

«Per il caso di violazione del divieto di concorrenza il legislatore non prevede alcuna sanzione particolare: alla violazione consegue il diritto al risarcimento del danno eventualmente subito, il diritto di risoluzione del contratto di cessione e la facoltà di chiedere l’inibitoria dell’attività vietata» (COLOMBO, L’azienda e il suo trasferimento, in Trattato Galgano, Padova, 1979, 220 ss.).

(30)

5.3. La successione nei contratti. 5.3.1. Disciplina generale.

L’art. 2558 c.c. stabilisce che l’acquirente dell’azienda subentra nei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda stessa che non abbiano carattere personale, salvo diversa pattuizione tra le parti

Il legislatore ha previsto il subingresso dell’acquirente nella trama dei rapporti contrattuali in corso di esecuzione – che l’alienante ha stipulato in precedenza con fornitori e clienti – al fine di favorire il mantenimento dell’unità economica dell’azienda.

Mediante la successione nei contratti il cessionario dell’azienda ha la possibilità di assicurarsi i fattori produttivi necessari all’organizzazione dell’impresa, allo svolgimento dei cicli produttivi, nonché a dare sbocco ai prodotti dell’azienda.

La disposizione di cui all’art. 2558 c.c. si applica ai soli contratti a prestazioni corrispettive ancora non completamente eseguiti. Qualora, invece, uno dei contraenti abbia già interamente eseguito la propria prestazione, anche se residua esclusivamente un credito o un debito dell’alienante, si applicano rispettivamente l’art. 2559 o l’art. 2560 c.c..

«Questa previsione normativa speciale tutela l’interesse dell’acquirente a subentrare nei contratti già in corso di esecuzione, rispetto alla disciplina generale della cessione dei contratti di cui agli artt. 1406 ss. c.c. Sotto quest’ultimo aspetto, il consenso del contraente ceduto non è necessario al fine del trasferimento del contratto: l’effetto successorio si produce dal momento stesso in cui diventa efficace il trasferimento dell’azienda, con la conseguenza che da questo momento il terzo contraente deve eseguire le proprie prestazioni nei confronti del nuovo titolare dell’azienda» (FERRENTINO-FERRUCCI, Dell’azienda, Milano, 2014, p.70).

Per contro, come specificato dalla giurisprudenza, «La cessione del contratto si configura essere contratto plurilaterale, che si perfeziona quando il proponente (o i proponenti, nel caso di proposta comune tra cedente e cessionario) ha notizia dell’accettazione dell’ultimo dei due destinatari, assumendo pertanto imprescindibile rilievo al riguardo (pure) il consenso del contraente ceduto, che, così come quello delle altre parti, può essere espresso anche tacitamente (salvo che per il contratto ceduto siano richiesti particolari requisiti di forma, in tal caso da osservarsi anche per la cessione del contratto, e, quindi, anche da parte del ceduto medesimo), pure

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