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Segue Il principio del paese d’origine.

3 Market access e modelli di integrazione comunitaria.

6. Segue Il principio del paese d’origine.

Ci si è soffermati sulla prima variante del modello home state control ossia sul principio di mutuo riconoscimento o, come usa denominarlo la giurisprudenza, di equivalenza funzionale. Occorre ora occuparsi della seconda variante di detto modello, conosciuta come principio del paese di origine.

Per esso «il prestatore è sottoposto unicamente alla legislazione del paese in cui è stabilito e gli Stati membri non devono imporre restrizioni ai servizi forniti da un prestatore stabilito in un altro Stato membro»150. L’obbiettivo che si intende conseguire risulta identico a quello ottenibile per mezzo del principio dell’equivalenza, mediante il test elaborato dalla giurisprudenza, se pur in questo caso si profila una modalità di perseguimento ancora più espressa e determinata: si ambisce, infatti, a valicare gli ostacoli imposti dagli stati membri per agevolare l’accesso dei servizi comunitari ai mercati interni, così consentendo “al prestatore di fornire un servizio in uno o più Stati membri diversi da quello d'origine senza essere sottoposto alle normative di questi ultimi”151.

Nonostante entrambi i principi conducano al raggiungimento del medesimo scopo, consistente nell’attuare le disposizioni del paese di origine, pare del tutto inopportuno ipotizzare una sovrapposizione nozionistica fra gli stessi, dato che presentano notevoli e significative differenze. La più rilevante tra queste consiste nel fatto che il principio del paese di origine prevede l’attuazione incondizionata della norma dello stato di provenienza del prestatore di servizi, a prescindere da un giudizio di equivalenza: allo stato ospite, infatti, non è permesso di indicare ragioni di interesse generale atte a giustificare l’applicazione del proprio regime giuridico al prestatore che, appartenendo ad un altro paese, intenda accedere al proprio mercato.

Inoltre, il principio del paese di origine non contempla una rule of reason, già illustrata supra, che funga da spartiacque fra il protezionismo tipicamente sostenuto dallo stato ospite, che vorrebbe applicare la propria disciplina e la libera circolazione dei servizi, garantita dal trattato, che, invece, pretenderebbe

150 Cfr. Commissione CE, 2004, p. 10

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di assicurare al prestatore ed ai servizi forniti dal medesimo spostamenti infracomunitari, privi di particolari impedimenti o limitazioni. A fronte di tale considerazione, non trova alcun spazio il modello host state control né l’esercizio del potere discrezionale riservato ai giudici per l’effettuazione del test di legittimità descritto nelle pagine precedenti.

Il principio del paese di origine, oltre a non essere contemplato dal TCE, non costituisce nemmeno uno dei presupposti fondamentali per garantire il divieto di imporre restrizioni alla libera circolazione dei servizi disposto dall’art. 49 TCE, poiché la fattiva applicazione di quest’ultimo avviene, come affermato dalla Corte, sulla scorta di una pluralità di regole diverse. Nel diritto derivato in tema di servizi, invece, si rileva che in talune materie viene applicato il principio de quo152.

Nei trascorsi si era paventata l’idea, discutibile e priva di fortuna, di attribuire fortissima incisività al principio del paese d’origine, tanto che nella proposta della Direttiva quadro in tema di servizi e stabilimento Bolkestein esso avrebbe assunto un ruolo di primo piano, fungendo, a prescindere da alcune deroghe settoriali, da caposaldo regolativo di tutto il mercato comunitario dei servizi. A tal proposito, si rammenta che l’art. 16.1 di detta proposta sanciva: «Gli Stati membri provvedono affinché i prestatori di servizi siano soggetti esclusivamente alle disposizioni nazionali dello Stato membro d’origine applicabili all’ambito regolamentato».

Veniva rigettata, invece, la soluzione di armonizzare i regimi giuridici nazionali in materia di servizi poiché si sarebbe incorsi nel rischio di dover creare una regolamentazione troppo articolata e corposa, senza peraltro salvaguardare le specificità normative dei vari stati membri dell’Ue. Non veniva nemmeno accettata l’ulteriore idea di intraprendere il cammino giurisdizionale, chiedendo alla commissione di attivare procedimenti di infrazione, volti a consentire di adattare, via via e caso per caso, le discipline nazionali. Si sarebbe infatti trattato di “un’operazione a carattere puramente reattivo, priva di una volontà politica condivisa attorno ad un obiettivo comune”153.

152 Cfr. Regolamento 1421/71; a titolo esemplificativo vedi art. 3, Direttiva 2000/31/Ce, la così detta

Direttiva sul commercio elettronico.

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L’ipotesi in esame muoveva dalla considerazione secondo cui il principio del paese di origine risultava il mezzo più consono per contrastare le azioni protezionistiche dei paesi membri e per assicurare un’efficace liberalizzazione dei servizi in ambito comunitario. Al fine di rendere più dinamico il mercato interno dei servizi, infatti, si propendeva per favorire una maggiore circolazione transnazionale delle norme degli stati della Ue, in particolare attuando quelle del paese di provenienza del prestatore e non quelle del paese ospitante, determinando in tal modo il necessario e temporaneo affievolimento della connessione fra legislazioni e rispettivi territori. Si giungeva così a riconoscere “la coesistenza pluralista dei regimi giuridici degli Stati membri con le loro specificità e particolarità” evitando che queste ultime venissero impiegate per imporre restrizioni ai servizi di un prestatore stabilito in un altro Stato membro”154.

Detta ipotesi, dunque, avrebbe originato una sana competizione fra i regimi giuridici dei vari paesi dell’Ue che, diversamente da quanto sostenevano i soggetti ad essa contrari, si sarebbe contraddistinta per recare migliorie a livello di qualità, costi dei servizi e tutela dei consumatori, scongiurando i rischi (rise to the bottom) solitamente innescati dai modelli fondati sulla concorrenza regolativa.

L’impiego del principio del paese di origine per la determinazione della scelta del regime di accesso ai mercati domestici veniva controbilanciato da un insieme di tecniche regolative che contemplavano misure tanto di soft law quali l’elaborazione di codici di condotta, quanto di hard law. Queste ultime tendenzialmente corrispondevano ad un numero ristretto di Direttive tese ad un’armonizzazione mirata, finalizzata ad assicurare la tutela dell’interesse generale in taluni settori essenziali”. Si ammetteva, però, che nel compiere tale operazione, potevano emergere forti disparità tra i vari livelli di tutela, cosa che “comprometterebbe la fiducia reciproca indispensabile all'accettazione del principio del paese d’origine e potrebbe giustificare, conformemente alla giurisprudenza della Corte, misure restrittive alla libera circolazione”155.

Peraltro al principio del paese di origine si doveva accompagnare una

154 Cfr. ancora Commissione Ce, 2004, p. 20. 155 Cfr. Commissione Ce, 2004, p. 10.

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responsabilizzazione dello stato ospite, il quale sarebbe stato gravato dell’onere di vigilare sui prestatori di servizi ivi stabiliti, anche qual’ora erogassero od avessero erogato servizi in altri paesi dell’Ue156.

L’applicazione del principio de quo non risultava incondizionata bensì soggetta ad una serie di deroghe, delle quali talune di carattere temporaneo, che erano state predisposte soprattutto per far fronte alla già citata disparità fra i livelli di tutela degli ordinamenti nazionali. A tal riguardo si è sostenuto che “per talune attività o talune materie un’eccessiva divergenza degli approcci nazionali o un livello insufficiente di integrazione comunitaria possono impedire l’applicazione del principio del paese d’origine”157.

7. Sovrapposizione fra circolazione dei lavoratori e prestazione di