AMOTS E AVISHAG ZAHAVI Il principio dell'handicap. La logica della comunicazione animale trad. dall'Inglese di Michele Luzzatto pp. 373, Lit 36.000 Einaudi, T o r i n o 1997
Ecco un libro - fondamental-mente un saggio sui segnali e la co-municazione animale - destinato a far parlare di sé a lungo con spunti di critica accesa - presumiamo. Comunque di agile lettura e in-dubbiamente piacevole soprattut-to per il profano. Il tessoprattut-to originale è in ebraico e la versione italiana proviene da quella inglese, della Oxford University Press.
Niente di nuovo, in realtà (la pri-ma stesura risale a oltre dieci anni fa), dato che il principio dell'handi-cap era balzato agli occhi dei biolo-gi che studiano i processi evolutivi già verso la metà degli anni settan-ta, quando molti di loro erano im-pegnati a tentare di formalizzare in algoritmi il credo e il know-how darwiniano. All'epoca le spiegazio-ni che Zahavi forspiegazio-niva su comporta-menti bizzarri come i salti della gaz-zella di fronte al predatore (stotting) suscitarono dissensi, ma soprattutto curiosità. Di fatto, prestigiose riviste scientifiche internazionali come "American Naturalist" e "Journal of Theoretical Biology" accettarono di pubblicarne i presupposti teorici e relative applicazioni. Solo che ini-zialmente i modellisti che tentarono di spiegare il principio dell'handi-cap in termini matematici fallirono miseramente, dunque il risultato fu la bocciatura.
Ma Zahavi, israeliano e docente di zoologia all'Università di Tel Aviv, rimaneva convinto delle pro-prie elucubrazioni teoriche al pun-to che quando Richard Dawkins - noto sociobiologo e divulgatore di Oxford - con tono scettico gli fece notare che la logica conclusio-ne dell'applicazioconclusio-ne del principio dell'handicap alla teoria della sele-zione sessuale sarebbe stata l'evo-luzione di maschi con una sola gamba e un solo occhio, egli re-plicò immediatamente: "Alcuni dei nostri migliori generali hanno un occhio solo". E recentemente anche i modellisti teorici più spinti - tra cui Alan Crafen dell'Univer-sità di Oxford - hanno dimostrato che il principio dell'handicap è ge-neralmente valido, rappresentan-do una convalida di attendibilità per le comunicazioni tra individui in competizione.
Il principio dell'handicap è ap-plicabile con una certa semplicità a tutte le situazioni in cui alcuni in-dividui cercano di giudicare la qualità di altri individui. Un ma-schio che corteggia una femmina è il caso più in voga. Due le tesi cen-trali: la prima è che i segnali devo-no essere attendibili, ma per esser-lo devono essere costosi, in altre parole gli animali "investono" tempo ed energia nei segnali; la se-conda è che esiste sempre una rela-zione logica tra segnale e
messag-gio trasmesso, il problema semmai è trovarla.
Amots Zahavi, che iniziò come ornitologo proponendo che gli as-sembramenti di uccelli costituisca-no centri di scambio di informa-zioni fra individui, sale alla ribalta negli anni d'oro della sociobiologia (attorno al 1975); purtuttavia
-è in effetti un sociobiologo sui
ge-neris - raramente viene citato dai detrattori del determinismo gene-tico e dell'adattazionismo. Viene invece a più riprese citato con un senso crescente di ammirazione e curiosità da Dawkins nella prima, e ancor più nella seconda, edizione del best seller The selfish gene (1976, Il gene egoista, Mondadori, 1989). A suo favore possiamo dire senza ombra di dubbio che, a dif-ferenza di certi oratori e divulgato-ri da tempo lontani dalla raccolta dei dati e dagli esperimenti, Zahavi è un etologo - o meglio un ecologo comportamentale - che ha effet-tuato oltre ventimila ore di osser-vazione sui garruli, passeriformi sociali delle garighe israeliane, e che tuttora lavora soprattutto sul campo coadiuvato da un team in-ternazionale di studenti e dotto-randi. Insomma uno che gli anima-li anima-li osserva sul serio, per mestiere. Dunque la teoria non è affatto
ri-voluzionaria - come si afferma un po' sfacciatamente nella quarta di copertina - , piuttosto il libro si presenta come una vera e propria rivisitazione dei principali temi dell'ecologia del comportamento (interazioni preda-predatore; co-municazione inter- e intra-specifi-ca; comportamento socio-sessuale; cure parentali e sistemi nuziali; al-truismo reciproco e cooperazione; ospiti e parassiti) in una interpreta-zione che può apparire tanto lim-pida e chiara quanto contorta e de-cisamente bizzarra o forzata a se-conda degli esempi; è questo il li-mite e nel contempo il pregio
dell'opera. Il lettore può sentirsi appagato e soddisfatto, sconcerta-to, o perlomeno dubbioso, a se-conda degli esempi comportamen-tali che si trova di fronte.
Così il begging (letteralmente elemosinare) dei nidiacei, quei pi-golii continui emessi dal nido e a tutti noi familiari, per i coniugi Zahavi è rivolto deliberatamente ai predatori. Un vero e proprio ricat-to verso i geniricat-tori che per farli smettere non possono far altro che nutrirli. Dal punto di vista della prole, i nidiacei ottengono più ci-bo, correndo però una certa dose di rischio.
Le code di uccelli come pavoni o fagiani, gli imponenti e ingom-branti palchi dei cervi maschi, il dente ipersviluppato del narvalo, insomma tutti quei caratteri sele-zionati in base al sesso, paradossali in un certo senso in quanto handi-cap per chi li possiede, si sono evo-luti proprio in quanto tali. Un
pa-vone maschio con la sua enorme coda tenta di dimostrare alle fem-mine che è talmente bravo da poter sopravvivere nonostante quell'in-gombro.
Sui salti ostentati delle gazzelle di fronte a un predatore, gli autori, portando a conclusione un'idea dello zoologo Smythe che risale al 1970, ritengono che questo pecu-liare comportamento, come i ri-chiami dei nidiacei, venga in ultima analisi notato da altri conspecifici, ma in primis sia diretto al predato-re per "avvertirlo" della difficoltà che incontrerà nel tentare di cattu-rare una preda così agile e in salute.
Gli autori ritengono che dall'os-servazione del comportamento dell'uomo possiamo comprendere molto del comportamento degli al-tri animali, assai più di quanto i modelli teorici ci aiutino a fare. Per questo i paralleli con usi e abitudi-ni umane infarciscono anche viva-cemente la trattazione per culmi-nare nell'ultimo capitolo (Gli
esse-ri umani) interamente dedicato
all'Homo sapiens. Ma sulle pecche e l'abuso dell'antropomorfismo e dei paralleli uomini-animali gli au-tori - ben consci dei rischi connes-si - connes-si difendono elegantemente già nelle prime pagine: "Un modello è uno strumento e i modelli antro-pomorfici quanto meno sono più vicini al comportamento animale di quanto non lo siano quelli mate-matici; e i modelli non sono prove, ma solo suggerimenti".
Discutibile è però il modo in cui gli autori osservano e interpretano i processi evolutivi: traspare talora
quel telos, o fine ultimo - spesso individuato nel successo riprodut-tivo di un dato individuo - che og-gi appare visione superata se non anacronistica. Perché il mondo dei viventi - e la carrellata di esempi zoologici di cui il libro è costellato ne è testimone sincero - è un insie-me di traiettorie evolutive, un po' come dei fuochi d'artificio che si irradiano nel cielo, esplodono, si diramano ulteriormente, si rincor-rono, discendono. Non proprio un semplice percorso rettilineo.
Non abbiamo di certo trovato il pezzo mancante del puzzle di Darwin come vuole suggerirci il titolo originale (The Handicap
Principle. A Missing Piece of Darwin's Puzzle); tuttavia avremo una base solida o almeno persua-siva per spiegare perché un ani-male fa qualcosa che ci sembra pazzesco: può darsi che si stia mettendo in mostra per farsi nota-re da un individuo dell'altro ses-so. Il rischio, il costo, la pericolo-sità, danno al gesto il potere di-mostrativo, questo è fuor di dub-bio. E in fondo chi di noi non ha fatto qualche piccola o grande pazzia per amore?
Goethe scienziato a cura di Giulio Giorello
e Agnese Grieco pp. 5 5 8 , Lit 5 4 . 0 0 0
Einaudi, Torino 1 9 9 8
Una esplorazione critica delle concezioni goethiane sulla natura e sulla scienza è un importante contributo per comprendere a tut-to tut-tondo un autut-tore di tale impor-tanza e per valutarne il ruolo signi-ficativo anche nella storia della scienza. Il libro testimonia la va-stità di contributi di Goethe alla scienza romantica, le dimensioni del suo approccio epistemologico, le radici di una diffidenza verso la teorizzazione e il quantitativo, l'ap-proccio morfologico alle scienze naturali (la "bella successione di molteplici forme") che ne caratte-rizza l'impostazione di fondo. Il li-bro è il risultato di un convegno svoltosi nel 1994, e attraverso ben ventidue saggi di autorità indi-scusse indaga il mondo goe-thiano, con passione e cura cultu-rale, passando dalle fondazioni fi-losofiche e storiche alla sua epi-stemologia e alle relazioni con la scienza attuale. Si tratta quindi di opera interessante e importante. Come spesso accade nei conve-gni multi- e trans-disciplinari, gli interventi, per una volontà di com-pletezza che si scontra con i limiti spazio-temporali, finiscono con l'essere eterogenei e talvolta unila-terali. Aleggia allora il pericolo di voler attualizzare un pensiero sto-ricamente rilevante, per creare pa-tenti di nobiltà culturale. Alcuni passi dedicati alla biologia moder-na e all'attualità della morfologia ri-petono polemiche molto datate sull'evoluzione e sull'embriologia, sfondando porte ormai spalancate da vent'anni di ricerca, e fornisco-no un ben modesto servizio al let-tore non specialista. Questa man-canza di confronto con le realtà dialettiche della scienza attuale di-venta imbarazzante nel caso dell'articolo di Giuseppe Sermonti, che brillantemente pone in berlina una scienza che non c'è, per poi volare in un mondo ermetico di fia-ba. Incassata in modo sorridente la provocazione, il libro nel'com-plesso rimane serio e utile. (A.F.)