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Sul senso della poesia in rivista Appunti e repertor

Tra corrispondenze e analisi: alcuni studi sulle riviste

2. Sul senso della poesia in rivista Appunti e repertor

Laddove si voglia uscire dall’ingorgo di un sistema biunivoco e corrispondente tra l’editoria in rivista e quella libraria, bisognerà guardare alle pubblicazioni che hanno una predisposizione inclusiva, indice, almeno in parte, non tanto di un’aporia critica strutturale, quanto piuttosto di un sistema di comunicazione rivolto direttamente ai lettori e non vincolato (stricto sensu) dalle logiche editoriali e di mercato. Se, in breve, si sono tratteggiati i lineamenti di una rivista come «Poesia» – non apertamente militante, ma di certo garante di alcune tra le tendenze di spicco della panorama italiano contemporaneo, riferibili ai modelli di Montale, Caproni, Luzi, Sereni, Zanzotto, Giudici, Bigongiari e Raboni (cui forse è il caso di aggiungere lo sperimentalismo di Antonio Porta) –, vale forse la pena di ritagliare, a questo punto, un’area di sosta, e di individuare in quale misura un’idea “forte” di poesia spesso coincida proprio con la costituzione di gruppi redazionali più o meno implicati con i sistemi delle case editrici. Partendo da tale presupposto, una rivista attraverso cui appare possibile rilevare questa evidente discrepanza è «Pagine», quadrimestrale pubblicato a Roma, e che per inteno copre il decennio degli anni Novanta. Nell’editoriale che chiude il n. 1 del gennaio 1991, si legge:

Arrivati di slancio alla realizzazione della rivista in virtù di alcune convergenze ideali, ci siamo […] riconosciuti in quegli elementi programmatici che ne costituiscono la semplice ma ferma struttura; innanzitutto che competa alla scrittura poetica il presentarsi e disvelarsi al fruitore e che la mediazione del critico sia da collocare soltanto dopo il “libero” incontro fra testo e lettore. Da qui la decisione di pubblicare esclusivamente poesie (a parte un intervento di critica testuale) dando ampio spazio ad ogni autore scelto, affinché la proposta di incontro col singolo poeta si fondi su un’estensione il più possibile ampia della sua voce. Importante è il lavoro di ricerca di autori e testi al fine di non trascurare, nel tempo, alcun aspetto del variegato panorama della poesia italiana, rinunciando a scelte di tendenza per meglio rappresentare il manifestarsi del pensiero poetico sul mondo. Con identica logica si è anche scartata l’ipotesi di un’impostazione tematica dei singoli numeri che avrebbe determinato una “forzatura” nelle scelte e quindi un impoverimento delle possibilità propositive. Malgrado la volontà di prescindere da un tema, si è constatato, dopo la realizzazione dei primi due numeri, che buona parte delle poesie pubblicate, espressione di autori diversi per esito esistenziale e poetico, sono confluite in unità tematiche formatesi al di là delle intenzioni. Quanto invece rimane intenzionale è la scelta dei testi di ogni autore che, almeno per le poesie edite, si costruisce intorno a una delle possibili interpretazioni della sua opera che ci sembra interessante circoscrivere e sottolineare, soprattutto in rapporto interattivo con gli aspetti di opere di altri autori tra loro variamente consonanti.

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[…] Relativamente ai libri usciti si è teso a privilegiare le piccole case editrici, che normalmente non hanno spazio sulle riviste specializzate, o anche poeti pubblicati da editori maggiori che non abbiano avuto adeguata risonanza.1

I firmatari di questo scritto sono, per l’appunto, gli stessi membri del comitato redazionale della rivista, promossa dall’Associazione Culturale “Zone” di Roma, che viene gratuitamente diffusa presso biblioteche ed enti pubblici, nonché distribuita in libreria o in abbonamento, e opera, quindi, senza alcuna mediazione riferibile alle logiche di mercato. Direttore responsabile è Carmen Bertolazzi (giornalista da sempre impegnata nelle politiche sociale del Lazio), mentre il primo comitato di redazione è formato da Vincenzo Anania, Daniela Attanasio, Fabio Ciriachi, Anna Gradenigo e Sara Zanghì. Se almeno gli ultimi quattro nomi appartengono diversamente al mondo poetico (ma una matrice comune la si può trovare nel loro rapporto, anche se successivo, con la casa editrice Empirìa di Roma – oltre che, per le tre scrittrici, nell’esperienza del Centro Studi “Donna Woman Femme”2), certo la figura più insolita è quella dell’ex giudice e pubblico ministero Vincenzo Anania, anch’egli poeta in proprio, tra l’altro vincitore nel 1993 del Premio “Alfonso Gatto” con Nell’arco (Crocetti 1992). Anania, al contempo, dirige l’omonima casa editrice Zone da lui fondata, e svolge così un’azione sostanzialmente contigua a quella di «Pagine», promuovendo autori e collaboratori della rivista, tra i quali è il caso di ricordare Piera Mattei, oltre al poeta Bruno Zambianchi. Ciò che più colpisce, comunque, a partire dall’Editoriale (di cui si è volutamente

1 Cfr. Editoriale in, «Pagine», n. 1, gennaio-aprile 1991, p. 31.

2 Un rilievo meramente bibliografico è in grado di stabilire quanto affermato: Daniela Attanasio ha

pubblicato – nel corso degli anni Novanta – per Empirìa due raccolte di versi (La cura delle cose, 1993 e

Sotto il sole, 1998); allo stesso modo, Fabio Ciriachi, dopo esser stato tra i vincitori nel 1990 del Premio

Montale 1990 con la silloge Dissidenze, pubblica il primo volume di versi, L’arte di chiamare con un filo

di voce, come quarto volume della collana “Le felci di poesia” del medesimo editore nel ’99; Sara Zanghì,

invece, pubblica con la casa editrice diretta da Marisa Di Iorio Una sospettata inclinazione nel 1995; infine, laddove sembrerebbe non sussistere alcuna corrispondenza diretta tra Anna Gradenigo e la medesima Associazione Editrice Empirìa, si ricorderà il volume collettivo Testarda tregua (pubblicato da Sciascia nel 1987), in cui, nel contesto di un’antologia “di e per donne”, il nome della Gradenigo figura accanto a quello di Attanasio e Zanghì (ed inoltre di Stefania Portaccio, i cui versi vengono proposti sul n. 1 di «Pagine»). Nella quarta di copertina di Testarda tregua, probabilmente redatta da Isabella Vincentini che firma la post-fazione al volume, si legge in attacco un riferimento implicito proprio al laboratorio di poesia del Centro studi DWF – operante a Roma e nel Lazio a partire dai primi anni Ottanta –, oltre ad una interessante chiosa sulle singole autrici raccolte in questa occasione, di cui si ritiene interessante dar conto per chi voglia approfondire la materia in futuro: «Quattro donne da anni si incontrano per preservare uno spazio comune di amore per la poesia. La Testarda tregua è la ricerca tenace e la cura costante di quell’“altrove” dove la poesia si forma e dello spazio materiale dell’ascolto e del confronto. Le autrici di questo libro sono protagoniste di diverse esperienze di vita e di conoscenza, e i versi prodotti nelle quattro raccolte [che costituiscono le quattro parti dell’antologia] rimandano all’individualità dei percorsi poetici, nei quali è significativa anche l’eco delle origini di ciascuna: la Sicilia profumata e dolorosa di Sara Zanghì, il soffice barocco salentino di Stefania Portaccio, la città dura e malinconica di Daniela Attanasio, l’atmosfera dell’infanzia veneziana di Anna Gradenigo. Ad unirle non è stata l’intenzione di privilegiare un particolare modo poetico, ma il lavoro appassionante che qui si risolve nell’intensità di senso e nella compiutezza formale di ogni sezione».

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riportata ampia parte), è la latenza di una predisposizione critica e militante che risulti evidente, e che si ponga da filtro nei confronti del materiale poetico offerto al lettore: nelle ampie pagine (per formato più che per corredo d’informazione), i testi poetici sono accompagnati soltanto da una nota biobibliografica, accanto alla foto dell’autore, secondo una disposizione diacronica e antologica. Una formula, questa, non del tutto libera da quei vincoli di soggettività che guidano la scelta, attuati secondo criteri di gusto o di rilevanza: l’immagine del poeta che ne risulta, quindi, finisce con l’essere evidentemente mediata. Un doppio circolo di significazione è sotteso a questo metodo che prevede comunque una ipotesi critica: i redattori di «Pagine», unitamente al loro intento ben esplicitato di dar voce e «risonanza» alle pubblicazioni che, per la loro collocazione editoriale, non ritengono aver ricevuto un’adeguata attenzione, procedono ulteriormente all’indagine sulla poesia di altri autori già affermati o più discussi, cercando altresì di segnalarne i percorsi spesso inediti ad un pubblico più ampio. Un caso eclatante, in questo senso, è costituito dalla proposta degli Oggetti e argomenti per

una disperazione di Elio Pagliarani, tratti da Lezione di fisica e Fecaloro (Feltrinelli

1968) sul n. 2 della rivista (maggio-agosto 1991): certamente qui ci troviamo di fronte ad un Pagliarani diverso da quello solitamente più antologizzato per le doti di narratore in versi (si pensi a La ragazza Carla o, successivamente, con toni e modi più involuti, a

La ballata di Rudi), e il rilievo non risulta certo di poco conto3. Nondimeno assumono un valore non trascurabile gli inediti di volta in volta pubblicati per i singoli autori, spesso testimonianza dell’evoluzione del loro laboratorio poetico, oltre che anticipazione o saggio dei libri in preparazione o d’imminente uscita. Basti ricordare, sul n. 3 del ’91, i casi di Jolanda Insana e Giovanna Sicari che propongono poesie dalle rispettive racolte che a breve vedranno la luce, ovvero Medicina carnale (Mondadori 1994) e Uno stadio del respiro (Scheiwiller 1995); mentre, ancora, Valerio Magrelli – sullo stesso numero della rivista – viene segnalato per gli Esercizi di tiptologia (titolo dell’omonima raccolta edita da Mondadori nel 1992).

La ricerca di un repertorio il più possibile ampio, tuttavia, non guarda solamente al coro di voci che già spiccano sul mercato editoriale e a cui la critica ha già rivolto la propria attenzione, quanto ancora dà spazio alle scritture di autori spesso rubricati sotto l’etichetta di “sottobosco”: linguaggi aperti al “poetese” e alle declinazioni di una maniera non codificabile di per sé in termini specifici (e quindi sostanzialmente “manieristica”, in senso degenerativo), se non in riferimento a qualche modello dominante (le cosiddette “scuole”, i cui possibili maestri, nel periodo che andiamo considerando, sono ravvisabili almeno nei nomi di Zanzotto e De Angelis4). Se il valore

3 Non è un caso, infatti, che proprio queste due ultime raccolte indicate di Elio Pagliarani, siano confluite

nella serie “Oscar – Poesia del ‘900” di Mondadori sotto il titolo di I romanzi in versi (1997).

4 Si legga in questo senso, quanto scrive Stefano Dal Bianco, in un intervento che è possibile altresì

riferire ai termini costitutivi di un canone poetico, dal momento che la rilevanza e l’assunzione a modello di certe modalità di scrittura o di forme di pensiero applicabili alla soggettività scrivente, costituiscono un tramite per il riconoscimento dei caratteri fondativi di talune esperienze poetiche: «Le tradizioni emulative del Novecento sono molteplici, ma sono solo alcune le esperienze individuali che, dopo Pascoli

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e la rilevanza dei poeti così selezionati, non vive di un’indipendenza ben definita – o che troppo semplicisticamente viene ricondotta per fini pratici dal critico ad una linea codificabile, con lo scopo di far fronte all’ondata sempre più montante dei nuovi “scriventi” –, è proprio grazie a questo proposito che si è in grado (benché sommariamente) di costruire una piccola mappa di edizioni ed editori minori, cui anzi «Pagine» dà spazio in un’apposita, benché saltuaria, rubrica: tra gli altri si possono ricordare, oltre ai più noti Crocetti, Manni e Scheiwiller (con l’annessa edizione All’insegna del pesce d’oro), Terra del Fuoco, L’Obliquo, Rossi&Spera, El Bagatt, la già citata Empirìa, Anterem, Esuvia, Il Ventaglio (con la troppo spesso dimenticata Anna Malfaiera di e intanto dire, accolta sul n. 4 di «Pagine»), Nuova Compagnia Editrice, Jaca Book, Scriba, le Edizioni Scettro del Re curate da Dante Maffìa, Campanotto, Casagrande, Amadeus, Gazebo, Edizioni Dell’Elefante, Mobydick, Edizioni dell’Oleandro, Edizioni del Leone, Book Editore, La vita felice, Fermenti, Semar, Caramanica, Aracne, Ibiskos, Palomar, Versodovetesti, Edizioni Genesi, Polistampa e, proprio sullo scorcio degli anni 2000, Atelier (edizione “supplemento” dell’omonima rivista avviata en 1996 a Borgomanero, nel novarese, da Giuliano Ladolfi e Marco Merlin).

A partire da questo semplice e, sicuramente, incompleto elenco, è possibile introdurre due interventi correlati alle questioni che ottemperano la diagnosi per gradi dell’editoria e il ruolo non del tutto subalterno che le riviste ricoprono nei suoi confronti. Entrambi gli scritti, infatti, sono indicativi di un dato di fatto imprescindibile, legato alla proliferazione quasi indiscriminata delle case editrici che pubblicano poesia, e mettono soprattutto in evidenza i rischi che da questo fenomeno discendono. Marisa Di Iorio (fondatrice delle edizioni Empirìa), in particolare, firma su «Pagine» una lettera aperta in cui descrive la condizione di un’editoria considerata, per l’appunto, “minore”; dall’altra parte, Daniela Marcheschi che, in maniera criticamente più avvertita, redige un apparato critico e informativo sulle riviste attive in Italia tra gli anni Ottanta e Novanta per il volume a cura di Roberto Deidier intitolato Le regioni della poesia (Marcos y Marcos 1996), da cui risulta un inscindibile legame tra il presente della poesia e le sue diverse sedi di diffusione (il libro la rivista gli editori, appunto).

Procediamo con ordine: giunta da Capri a Roma, e formatasi, tra l’altro, nella redazione di «Nuovi Argomenti», Marisa Di Iorio inaugura nel 1985 l’iniziativa della casa editrice Empirìa, fin dagli inizi attenta ai percorsi di sperimentazione e legata ad un’artigianalità non marginale (basti pensare al rapporto con l’artista di area concettuale Bruno Conte).

e D’Annunzio, hanno avuto l’energia sufficiente a creare fenomeni più o meno pronunciati di koinè in senso deteriore: io direi Ungaretti e Montale nella prima metà del secolo, Zanzotto e forse De Angelis negli ultimi decenni. […] L’esclusione da questa rosa di alcuni fra i maestri riconosciuti del secondo Novecento – Penna, Caproni, Bertolucci, Sereni – […]: il loro trobar leu di ascendenza sabiana non fa abbastanza rumore, ossia presenta innovazioni stilistiche troppo sottili per poter fare presa sulla grande massa dei versificatori, che per tradizione predilige alti tassi di sperimentazione (e ciò paradossalmente in ragione di un fatale impulso ‘romantico’ di auto-identificazione stilistica a buon mercato sulla langue massificata)» (S. Dal Bianco, L’influenza di Zanzotto sulla poesia recente, «Baldus», n. 3, 1995, pp. 88- 89).

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Nella lettera menzionata, Di Iorio analizza il significato di un’iniziativa che non si è limitata alle questioni dell’editoria, ma che ha cercato di promuovere un dibattito culturale vivace e attento alle esigenze storiche dell’attività poetica, di cui a testimonianza rimangono i nomi degli autori presenti nel catalogo: da Palazzeschi (omaggiato nel 1996 con la pubblicazione, curata da Stefano Giovanardi, del volume I

cavalli bianchi. Lanterna. Poemi) a Emilio Villa, Amelia Rosselli e Carla Vasio,

Lamberto Pignotti, Elio Pecora, Mario Lunetta, Franco Loi, Giuliano e Giorgio Manacorda, Luciana Frezza, Vito Riviello, Gianni Toti, Sara Zanghì, Daniela Attanasio, Franco Buffoni, Biancamaria Frabotta, Antonella Anedda. Da questa quadriglia di voci appare chiaro fin da subito, per il lettore informato di poesia, il partecipe gusto nei confronti di un’espressività variamente riprodotta in poesia attraverso l’uso del linguaggio: si spazia dalla sperimentazione tecnico-tecnologica di Pignotti, alla musicalità inaudita e complessa di Emilio Villa, alla monologo “idiota” della Rosselli, alle Morsure – il titolo è del 1982 – di Mario Lunetta; e sono ben presenti sul campo anche i filoni più accreditati dell’ultimo Novecento, a partire dall’espressionismo corrugato e dialettico-dialettale di Franco Loi, passando per la matrice viscerale e meditata di Frabotta, l’“algido” rigore mentale e stilistico di Antonella Anedda, il classicismo rivisitato di Pecora, e quindi l’ironia e l’invettiva tutta lirica e romana di Giorgio Manacorda. A parte questo breve excursus, è bene ascoltare quanto afferma Marisa Di Iorio relativamente ai fatti precipui del suo mestiere:

Una delle difficoltà dell’editoria minore nelle scelte di catalogo è reperire opere che siano di qualità e dignità letteraria tali da imporsi all’interesse dei lettori; inoltre non è agevole fare chiarezza nella congerie illimitata di testi che pervengono in redazione. […] I punti di forza del catalogo sono le scelte di campo, tanto più ristrette quanto più specializzate, un vantaggio che non tutte le case editrici hanno, o sono in grado di difendere e soprattutto di imporre. È chiaro che non si può competere con le grandi case anzitutto per la ben diversa capacità di imporsi sul mercato, per l’ampiezza e varietà della produzione e la possibilità di affrontare i costi dei diritti degli autori più noti, sia nazionali che stranieri. Ma è anche vero che scelte diverse (intendo autori poco noti, opere di lettura non piana e immediata, curiosità, letterature lontane) sono difficili perché le preferenze del pubblico – l’abbiamo detto – tendono ad omologarsi. Nei decenni trascorsi, tra i Sessanta e gli Ottanta, il piccolo editore poteva selezionare autori ed opere o in aree di tendenza, di avanguardia o di sperimentazione, o in aree letterarie ignote, terreni che solo in pochi casi l’editoria maggiore era propensa a percorrere. Ma con gli anni Novanta questa scelta è diventata difficile, tanto evidente è diventata la riluttanza dei lettori a preferire e seguire tali proposte: un catalogo siffatto oggi susciterebbe a malapena l’interesse di qualche decina di lettori in tutto il paese. L’aspetto più affascinante del piccolo editore è nell’indagine e analisi incessanti: reperire testi, proporre o riproporre autori, sollecitare il lettore con opere sempre qualitativamente almeno dignitose, se non eccellenti. Non temere la marginalità – tanto è inevitabile – piuttosto farla diventare un’angolazione piacevole e attraente, curiosa e diversa. Sarei tentata di dividere le case editrici di poesia, o comunque le

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piccole imprese editoriali in due categorie: quelle a scopo esclusivo di lucro e quelle che si propongono anche un fine culturale. Ma si tratterebbe di una distinzione artificiosa e poco utile: primo perché produrre libri è inevitabilmente un lavoro culturale, poi perché è molto difficile condurre in termini lucrosi e con bilancio in buon attivo un’impresa editoriale.5

Questi rilievi risultano verosimili nel momento in cui vengono rispettate le parti in causa (autori e lettori), ma anche sulla base della deontologia applicata, nel suo ruolo di operatore e mediatore culturale, dall’editore: è proprio Di Iorio a sottolineare che «produrre libri è inevitabilmente un lavoro culturale», e questo lo hanno insegnato nel tempo iniziative come quelle di Arnoldo Mondadori, Giulio Einaudi o Giangiacomo Feltrinelli, di cui forse si è perso – specie con l’apertura indiscriminata del “mercato della poesia” (e “delle lettere”, in generale) – quell’appiglio storico-culturale, nonché sociale e insieme politico, che dovrebbe presiedere all’attività di scelta e pubblicazione, non solo come norma o prassi di “garanzia”, ma anche – e soprattutto – nell’ipotesi di un rispecchiamento completo della poesia nella storia che la produce. Lo scarto tra l’interesse di mercato e il mondo culturale appare ormai incolmabile e il ruolo dei “piccoli editori” dovrebbe semmai garantire quelle voci che non trovano spazio nelle grandi collane dei grandi editori: il rischio inverso, e sempre incombente, prevede la creazione di un limbo poco rassicurante, in cui le scritture godono di una stretta visibilità e provocano, al contempo, il reflusso che sta all’origine dell’afasia del critico (sempre più impossibilitato a far fronte alla massa dei “tutti poeti”). E invero spesso è invalidata anche la distinzione tra il mecenatismo (e la convenienza) di chi pubblica o promuove autori sine munere e quelle imprese che invece stampano libelli a pagamento: non è certo retorico citare uno dei poeti più riconosciuti del secondo dopoguerra quale Giovanni Giudici, che ha legato la sua prima produzione, quella di Fiorì d’improvviso (Edizioni del Canzoniere 1953) ad una edizione privata6; e, allo stesso modo, potremmo indicare Maurizio Cucchi per la generazione successiva e il suo Paradossalmente e con

affanno (1971)7. Quello che semmai occorre mettere in evidenza è l’uso indiscriminato

5 M. Di Iorio, Una lettera, «Pagine», n. 22, gennaio-aprile 1998, p. 39. 6

Cfr. C. Di Alesio, Cronologia, in G. Giudici, I versi della vita, a cura di R. Zucco, con un saggio introduttivo di C. Ossola, cronologia a cura di C. Di Alesio, Mondadori, Milano 2000, p. LVIII; ma già in G. Giudici, Saba: l’amore e il dolore, in ID., La dama non cercata. Poetica e letteratura (1968-1984), Mondadori, Milano 1985, p. 206: «Il mio libretto [Fiorì d’improvviso] era uscito, naturalmente, a mie spese: però non del tutto senza un preliminare giudizio selettivo, non del tutto abbandonato a se stesso. Era, infatti, inserito in una collana che si chiamava […] “Edizioni del Canzoniere” e che era diretta da Elio Filippo Accrocca e Cesare Vivaldi: ogni autore accolto pagava il costo di stampa direttamente a una tipografia di Trastevere e riceveva in cambio l’intera tiratura di trecento esemplari più altrettante buste a sacchetto con l’intestazione della collana accompagnata però dal proprio indirizzo e numero telefonico. La spesa fu di 25 mila lire, un mese di affitto per una bicamere di periferia».

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