La Sicilia ha una storia complessa, che soltanto a partire dal 1861 coincide con quella dell’Italia intera. Prima di tale data, come è noto, la penisola italiana era frantumata in diversi stati: il Regno di Sardegna, quello Lombardo-Veneto, i Ducati di Parma, Modena e Lucca, il Granducato di Toscana, lo Stato pontificio e il Regno delle Due Sicilie, che comprendeva tutto il Meridione. Mentre in Europa la Rivoluzione francese aveva scompaginato l’ancien régime, abolendo i privilegi dell’aristocrazia in favore di politiche egalitarie, in Sicilia la vecchia modalità di governo sopravvisse a lungo. Nel Regno dominavano ancora baroni e vescovi, che fungevano da difesa contro la Rivoluzione227 e il sistema feudale continuava a
farla da padrone. Sebbene la Sicilia fosse parte del Regno, rimase un elemento marginale, dal momento che il re – Ferdinando di Borbone – viveva nella capitale, Napoli, e fino a un certo momento non aveva mai nemmeno visitato l’isola, considerata esclusivamente come fonte di grano e denaro da portare a Napoli. Inoltre la regina Maria Carolina d’Asburgo nutriva una forte antipatia nei confronti dei siciliani. Ciononostante entrambi furono costretti a rifugiarsi a Palermo quando, nel 1798, le truppe napoleoniche invasero Napoli. Soltanto in quel momento Ferdinando si rese conto della situazione reale dell’isola e si convinse della necessità di abolire i privilegi dell’aristocrazia, scelta che gli procurò non poche ostilità. Il superamento dell’ancient régime in Sicilia si può datare al 1812, anno della Costituzione, che fu accettata – con le trasformazioni che ne seguirono – da feudatari e aristocratici. Il documento portò molte novità sull’isola, sia in materia finanziaria che in altri ambiti, ad esempio l’abolizione della tortura e una maggiore libertà di stampa; rese la Sicilia indipendente dal punto di vista governativo e, soprattutto, portò all’abolizione del sistema feudale. Contemporaneamente si assistette alla crescita di una nuova classe media, i cui membri erano anche entrati a far parte dei consigli comunali, iniziando ad avere
voce in capitolo nella gestione delle città, fino ad allora appannaggio dei nobili locali. La classe media aveva perlopiù idee democratiche che contrastavano fortemente con quelle conservatrici dei baroni, ma anche dei liberali: avrebbero voluto infatti limitare il potere del re, abolire il maggiorascato, mettere in atto una riforma agraria. La situazione generale dell’isola però non era così negativa. La Catania borbonica, ad esempio, fu una città fiorente da diversi punti di vista.228 Si
realizzarono molte opere che modificarono l’assetto urbanistico, come i due giardini, l’orto botanico e la villa comunale; fu attuato un piano per la costruzione di strade provinciali; il centro storico fu ristrutturato e sulla arteria principale, l’attuale via Etnea, sorsero edifici eleganti, marciapiedi e aiuole; gli scavi archeologici fecero emergere le testimonianze della città antica, elementi da mettere in mostra con i visitatori e i viaggiatori del Grand Tour. Anche dal punto di vista culturale si respirava un clima di fermento: sorsero infatti caffè, associazioni e circoli, luoghi di socializzazione e scambio di idee. Oltre alle Accademie, la più famose delle quali era l’Accademia Gioenia, fu fondato, a opera del libraio Ettore Fanoy, l’Ateneo Siculo, un gabinetto letterario frequentato soprattutto dai membri della borghesia e ritenuto un covo pericoloso di idee rivoluzionarie. Secondo Giuseppe Giarrizzo,229 lo sviluppo culturale iniziò nel
1830 e coincise con il regno di Ferdinando II.
Altri passaggi chiave sono le rivolte del 1820 e del 1837. Sulla scia dello scontento dovuto all’eliminazione del Regno di Sicilia, unificato a seguito del Congresso di Vienna a quello di Napoli, e dei moti scoppiati in Spagna nel 1820, nello stesso anno esplosero moti indipendentisti anche in Sicilia, con lo scopo di ripristinare il Regno. Nel 1837, invece, a seguito di un’epidemia di colera che si pensava fosse stata scatenata da un veleno diffuso dal governo, ci furono nuovi disordini. Al momento della repressione borbonica, però, i membri della nobiltà fecero un passo indietro per evitare di trovarsi in una posizione di svantaggio. Al
228 Cfr. G. Barone, Il “risorgimento” di Catania prima dell’Unità (1815-1860), in G. Barone (a
cura di), Catania e l’Unità d’Italia. Eventi e protagonisti del lungo risorgimento, Bonanno, Acireale-Roma, 2011, pp. 11-35.
229 G. Giarrizzo, La Sicilia dal Cinquecento all’Unità d’Italia, in V. D’Alessandro, G. Giarrizzo,
desiderio di indipendenza si aggiungeva una discrepanza tra i grandi possidenti, che non volevano suddividere i loro terreni e si limitavano ad accumulare proprietà senza mai incentivare l’agricoltura, e i contadini che invece non avevano terre da coltivare, il che aumentava il disagio sociale e rendeva la Sicilia una polveriera pronta ad esplodere, come avvenne nel 1848. I moti del 1848 in Sicilia ebbero origine a Palermo, dove, a partire da gennaio di quell’anno, si verificarono delle violente insurrezioni contro i Borbone. La rivolta siciliana fu la prima di una lunga serie di disordini diffusi in tutta Europa, facendo così diventare l’isola una miccia da cui ulteriori rivolte ebbero origine. In tutte le città ci si preparava alle sollevazioni; sebbene i motivi politici alla base dei moti non fossero ampiamente conosciuti, l’insurrezione divenne una valvola di sfogo in cui convogliare i malumori per i disagi di tipo sociale. I Borbone, che avevano fronteggiato già diverse rivolte, pensavano di poter intervenire anche in questo caso per sedare gli animi, ma non ottennero i risultati sperati. Il re concesse una costituzione liberale, ma chiese di mantenere la sovranità dei Borbone sull’isola, provvedimento che non fu accettato, con la conseguente formazione di un governo autonomo presieduto da Ruggero Settimo, mentre re Ferdinando II fu deposto. La bandiera tricolore sostituì quella dei Borbone, a sostegno della causa italiana che ormai dilagava nell’intera penisola. In tutta la Sicilia si registrava la volontà di cambiamento, «di sovvertire l’ordine e mutare la forma del governo, esternando nella maggior parte dei casi una fedeltà politica ai principi democratici e unitari»230 e si nutriva fiducia nella possibilità di un nuovo stato unificato.
Ciononostante, dopo l’entusiasmo iniziale, emersero non poche problematiche nella gestione della Sicilia, come un declino del commercio, la disorganizzazione del sistema giuridico, il brigantaggio che rimaneva impunito, la crisi finanziaria e il mancato pagamento delle tasse.231 Ma il malcontento iniziò molto presto a
serpeggiare anche tra i più convinti sostenitori dell’Italia, situazione questa della quale i Borbone seppero trarre profitto, inviando le loro truppe sull’isola e
230 M.G. Panebianco, Patrioti in rete nell’area ionico-etnea. Dalla rivoluzione verso
l’unificazione, in G. Barone (a cura di), Catania e l’Unità d’Italia, cit., pp. 89-134, qui p. 134.
provocando la cessazione del governo rivoluzionario che, ad ogni modo, stava già collassando. Gli aristocratici e le amministrazioni locali ringraziarono persino re Ferdinando per averli liberati dalla rivoluzione. Sebbene il 1848 fu da un certo punto di vista un fallimento, dall’altro contribuì alla comparsa di un sentimento antimonarchico e patriottico che si concretizzò con lo sbarco di Garibaldi in Sicilia nel 1860, su cui furono proiettate tutte le speranze per una liberazione dall’odiata Napoli. Per tale ragione, una volta giunto sull’isola, l’Eroe dei due Mondi fu appoggiato dalle classi popolari, anche grazie alle misure da lui stesso adottate, quali l’abolizione del macinato e le concessioni delle terre ai più poveri, che gli valsero la reputazione di eroe e contribuirono alla creazione di una sua immagine mitizzata, fortemente contrapposta alla reputazione di Cavour, il quale impose sulla Sicilia il governo piemontese, ignorando le condizioni e le reali esigenze dell’isola, infrangendo il sogno dell’autogoverno della regione e insinuando il malcontento tra i siciliani. All’alba dell’Unità d’Italia, nel 1861, la Sicilia era un mondo a sé, molto diversa dal resto del nuovo Regno. L’Italia infatti era soltanto un’espressione geografica, dal momento che i confini naturali definivano la penisola rispetto al resto dell’Europa, ma non dal punto di vista politico e del sentimento di appartenenza. I meridionali, in particolare i siciliani, si differenziavano dagli abitanti del resto di Italia, così come il paesaggio, il clima, le tradizioni, che molto differivano tra Nord e Sud. Scrive Denis Mack Smith: «Un contadino della Calabria aveva ben poco in comune con un contadino piemontese, mentre Torino era più simile a Parigi e Londra che Napoli e Palermo».232 La discrepanza, visibile già dalle usanze degli abitanti, si
rispecchiava anche sull’economia, che in Sicilia era rimasta fino a poco tempo prima legata al sistema feudale. I nobili tentavano di mantenere la patina di agiatezza che cominciava a sfaldarsi e a mostrare la decadenza di una classe corrotta che voleva conservare intatto il proprio status quo. Mancava quindi completamente un sentimento di unità nazionale, mentre il sogno garibaldino era andato in frantumi.
III.1.2 Economia e società
La società siciliana, prima dell’Unità d’Italia, era basata su una netta divisione tra possidenti e contadini, dovuta alla permanenza del sistema baronale-feudale che, come accennato nel paragrafo precedente, frenava il progresso economico dell’isola. Nelle città le condizioni non erano molto diverse: dominava la contrapposizione tra classe egemone e subalterna. Dopo la repressione dei moti del Venti, vennero anche abolite le corporazioni e si accentuò la discrepanza tra “galantuomini” e masse contadine.233 In alcuni siti la situazione era aggravata
dall’aumento della popolazione che, proprio per le precarie condizioni in campagna, preferiva emigrare in città. I censimenti di Palermo, Messina e Catania tra il 1830 e il 1860 fecero registrare un incremento demografico notevole, del 12,9% a Palermo, del 23,33% a Messina e del 31,23 a Catania.234 Le varie
insurrezioni che si susseguirono a partire dagli anni Venti divennero dei catalizzatori del malcontento contro i Borbone, il nemico per antonomasia. Durante i moti del 1848 a Catania, i primi oggetti a essere danneggiati furono le statue dedicate a Francesco I, Ferdinando I e Ferdinando II posizionate in diversi luoghi della città. Anche l’entusiasmo per l’eroe dei due mondi e per la causa unitaria scaturì per molti dalla voglia di riscatto e rivalsa della classe subalterna, oltre che da sentimenti patriottici animati dall’ideale di un nuovo Stato. Dopo l’Unità, però, le aspettative furono deluse. Già pochi mesi dopo, all’alba del 1861, la popolazione lamentava le esose tasse imposte dal governo piemontese e la leva obbligatoria cui molti siciliani si opposero. La situazione dei braccianti e dei mezzadri non era migliorata, non c’erano contratti di lavoro stabili per queste categorie, le libertà di stampa e di parola concesse cambiavano poco o nulla per gli strati più bassi della popolazione, che non avevano nemmeno diritto di voto. Si era rimessa in vigore la tassa sul macinato oltre all’imposizione di nuove tasse. Anche se il feudalesimo era stato abolito, il tipo di rapporto tra lavoratori e datori di lavoro rimaneva di stampo feudale. Nel frattempo si allargava la forbice tra ricchi e poveri, così come il divario tra Nord e Sud Italia. Se prima si sperava che
233 C. Alberti, Il teatro dei pupi e lo spettacolo popolare siciliano, Mursia, Milano 1984, p. 37. 234 Cfr. R. Romeo, Risorgimento in Sicilia, Laterza, Bari 2011, p. 249.
il Risorgimento avrebbe portato una riduzione delle tasse e maggiore prosperità, all’indomani dell’Unità si comprese che le speranze sarebbero state disattese. Si aveva la sensazione che, a parte il nome del sovrano, nulla fosse cambiato:
La situazione, del resto, è comune a tutta la Sicilia, travagliata da un profondo scollamento tra classi dirigenti e masse popolari, frustrata nelle sue richieste di autonomia, soggiogata da un governo, quello Luogotenenziale, che riunisce in sé i poteri civili e quelli militari, confondendo il dissenso con la criminalità.235
A questo punto iniziarono a costituirsi comitati borbonici che cospiravano contro la nuova Italia, mentre, da parte dello Stato, si verificò una repressione nei confronti del nemico interno, di tutti coloro che erano sospettati di aver tramato e di tramare contro l’Unità. I democratici passarono dal ruolo di vincitori a quello di antagonisti. Quelle elencate sono solo alcune delle criticità riscontrate nella Sicilia post unitaria, da cui si evince la condizione di una società in difficoltà e, in particolare, di una classe subalterna insoddisfatta e disillusa. Fu in questo clima di malcontento diffuso su quest’isola infelice che si sviluppò l’opera dei pupi.