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E il giudice? Era l’altro braccio della bilancia nel sapiente equilibrio costruito dalla dottrina del diritto pubblico (tardo) ottocentesco. Il che, in quel contesto, appariva come un compito relativamente semplice. La funzione del giudice era quella di sorvegliare il corretto perseguimento di un interesse pubblico che era comunque, in qualche modo, “oggettivato”, e rispetto al quale il suo intervento si limitava alla correzione delle evidenti deviazioni (lo “sviamento”, appunto), tali da confliggere con legittimi interessi degli amministrati, rispetto ai quali il giudice trovava la misura e il limite

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nella legge: poche leggi, chiare, che individuavano fini precisi e condivisi. Orbene, nel nuovo contesto costituzionale anche il ruolo del giudice è in discussione, dovuta anche alla complicazione progressiva e inesorabile del sistema delle fonti, che è come detto lo specchio della complicazione progressiva e inesorabile del sistema sociale e politico, e ha un impatto evidente sul rap-porto tra discrezionalità amministrativa e potere giurisdizionale. Il giudice, cui è affidato il compito di decidere sul vizio di eccesso di potere, ossia sul corretto uso della discrezionalità amministrativa, rischia inevitabilmente di sostituirsi all’amministrazione nell’attività di ponderazione e valutazione degli interessi, se la griglia entro la quale quell’attività si svolgeva non è più predeterminata. L’esplosione del sistema delle fonti ha certamente messo in crisi il rapporto legislazione-amministrazione, perché per la seconda appare sempre più difficile individuare, nella prima, i parametri, o almeno la bussola, della sua azione. Ma ha messo in crisi anche il rapporto amministrazione-giurisdizione, dal momento che su quest’ultima si sono indebitamente scaricate tutte le tensioni provenienti da una confusa, farraginosa produzione normativa, non più ordinata. Il delicato rapporto tra discrezionalità amministrativa e controllo giurisdizionale sull’“arbitrio” si è sostanzialmente tenuto in equilibrio finché è stato possibile, bene o male, continuare a pensare all’ordinamento giuridico come a un ordine. Ma se il diritto diventa “inconoscibile”, o se ai fini della sua conoscibilità occorre necessariamente fare ricorso al giudice, va in crisi l’intero sistema su cui quella particolare concezione del rapporto tra potere e società si era fondata. E si accredita l’idea che, alla fine, sia lo stesso giudice (talvolta suo malgrado) ad assumere la decisione “discrezionale”, sostituendosi all’amministrazione, e magari affidandosi al criterio sapienziale della “giustizia”. In effetti, c’è stato un tentativo di “fuga

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dalla discrezionalità”, negli ultimi decenni, dettato dalla paura che l’amministrazione non fosse in grado di svolgere autonomamente quella funzione di ponderazione, dal momento che il numero degli interessi in gioco aumentava, e con esso l’estensione dell’attività amministrativa. A ciò i legislatori, statale e regionali, hanno il più delle volte reagito con la moltiplicazione delle norme che disciplinano sempre più nel dettaglio la funzione amministrativa. Si è assistito a una vera e propria esplosione del diritto, che ha evidentemente alimentato una spirale perversa in cui l’amministrazione tenta di riacquistare quella discrezionalità perduta attraverso l’esercizio di inevitabili facoltà di scelta in ordine alle norme da applicare, e prima ancora da interpretare. In tale contesto ogni scelta “discrezionale” può apparire come scelta “arbitraria”, proprio in quanto sono saltate le coordinate di riferimento entro cui le scelte discrezionali si collocavano. Il che rischia di accreditare l’idea del declino, fino all’irrilevanza, della stessa legittimazione legale-razionale del potere pubblico, che costituisce il più importante e duraturo principio della teoria dello Stato moderno. Ma soprattutto, ogni scelta discrezionale diventa una scelta in sé e per sé “discutibile”, proprio in quanto intrinsecamente arbitraria (non riconducibile cioè a fini chiari e in qualche modo predeterminati), e quindi, in quanto discutibile, giustamente oggetto di discussione, da parte da chi da quella decisione si ritenga danneggiato nei propri interessi, di fronte a un giudice. In un tale contesto, allora, il giudice diviene protagonista di una nuova decisione, quella finale. Ecco dunque la discrezionalità amministrativa trasformata, impropriamente, in discrezionalità giudiziaria. E non per colpa dell’amministrazione o della giurisdizione, ma di un sistema che, privo di baricentri e bussole, non è più in grado di assicurare certezze. Al giudice, specie al giudice amministrativo, era stato

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affidato il compito di custodire il corretto perseguimento dell’interesse pubblico, di cui era più o meno chiara la natura, l’origine, la provenienza. Quel delicato sistema sembra essersi inceppato e le “prestazioni”, anche di carattere sociale e socio- economico, che l’amministrazione è chiamata costituzionalmente a garantire attraverso le scelte discrezionali quotidianamente compiute, sono sempre più difficili da implementare. Non è ovviamente responsabilità dei singoli giudici, ma è indubbio che il ruolo assunto dall’apparato giurisdizionale, come il sistema della giustizia amministrativa, rischia obiettivamente di essere interpretato come un ulteriore fattore di blocco, che contribuisce obiettivamente alla progressiva e sistematica perdita delle residue capacità di funzionamento del nostro apparato pubblico complessivamente inteso. Il che corrisponderebbe, né più e né meno, al fallimento dell’idea stessa di “Stato costituzionale pluralista”.

Al giudice, dopo infinite incertezze ed esitazioni, era stato affidato il compito di intervenire, attraverso il controllo sull’eccesso di potere, sugli aspetti patologici dell’esercizio della discrezionalità. Il giudice è, infatti, chiamato a valutare se, nel caso sottopostogli, sia stata rispettata oppure violata la legge. In particolare, il suo compito è quello di verificare che gli atti e/o dei comportamenti della P.A. siano o meno legittimi, e cioè se abbiano o meno rispettato la legge109. Quest’ultimo, non può, indubbiamente, entrare nel merito,

nel senso che non può sostituirsi alla valutazione effettuata dalla P.A., altrimenti violerebbe il principio di separazione delle funzioni e dei poteri; ciò che però può fare è indagare sul modo in cui il merito è stato esercitato dalla stessa P.A., cioè se il potere è stato esercitato in maniere legittima. Questa attività è compiuta sindacando e

109 Guido Clemente di San Luca, “Il sindacato giurisdizionale sulle valutazioni

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rilevando il vizio di eccesso di potere attraverso figure sintomatiche che, nel corso del tempo, dottrina e giurisprudenza hanno sempre più definito e sono, prima fra tutti la mancanza di proporzionalità, poi l’adeguatezza, l’inadeguatezza, l’inattendibilità della motivazione110.L'illogicità è quella figura sintomatica dell'eccesso di

potere che si manifesta quando emerge una contraddittorietà interna alla stessa motivazione del provvedimento amministrativo; tra il dispositivo del provvedimento e la sua motivazione. Il travisamento dei fatti si realizza, invece, quando la Pubblica Amministrazione, nell'emanazione di un atto amministrativo, ritiene erroneamente la sussistenza di una situazione di fatto che in realtà non esiste o, al contrario, ritiene l'insussistenza di una situazione che in realtà effettivamente esiste. Ricorre difetto d'istruttoria quando la pubblica amministrazione non permette di risalire al procedimento che ha portato all'adozione di un determinato provvedimento. L'istruttoria non si limita dunque alla mera raccolta ed all'individuazione dei fatti necessari per una sollecita e pronta emanazione dell'atto ma tesse una trama che va dal diritto al fatto e dal fatto al diritto per precisarne l'uno attraverso l'altro. Sono figure sintomatiche dell’eccesso di potere, ossia indizi che potrebbero far risultare l’atto della P.A. invalido. E’ proprio la motivazione il “luogo” in cui la P.A. deve “travasare” le ragioni della propria scelta, volte a comporre l’interesse pubblico specifico con gli interessi secondari pubblici e privati. Il giudice, quindi, verifica che, anche a mezzo C.T.U, ossia un consulente tecnico, che la scelta operata dalla P.A. non sia arbitraria, e cioè scientificamente inadeguata, inattendibile, non plausibile: tutti criteri atti a dimostrare che il potere attribuitole dalla legge sia stato esercitato in maniera illegittima attraverso un atto

110 Guido Clemente di San Luca, “Il sindacato giurisdizionale sulle valutazioni

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viziato da eccesso di potere perché il fine per il quale il potere era stato attribuito alla P.A. è stato, in concreto, tradito111.

In un tale contesto, allora, i ricorsi al T.A.R., ossia tribunale amministrativo regionale, vengono presentati laddove i ricorrenti riconoscano una serie di vizi nell’atto amministrativo, come nel caso dell’eccesso di potere. I vizi di legittimità dell'atto amministrativo, indicati dall'art. 26 del R.D. n. 1054/1924, sono l'incompetenza, l'eccesso di potere e la violazione di legge. Oggi tali vizi sono espressamente individuati come cause d'annullamento dell'atto amministrativo nell'articolo 21 octies, primo comma, introdotto dalla L. n. 241 del 1990.

Per eccesso di potere si intende un vizio di legittimità dell’atto amministrativo, che si manifesta nel cattivo uso del potere da parte della Pubblica amministrazione o nella deviazione del potere da quei principi generali stabiliti dal legislatore, come la correttezza, la buona fede o la diligenza. Esso è la figura più importante tra i vizi di legittimità. Ora, dal momento che la funzione di amministrare consiste essenzialmente nell'esercitare un potere, quello dell'eccesso di potere risulta essere, più che un vizio riferito all'atto in sé, un vizio riferito all'attività dell'amministrazione. Grazie all’introduzione di questo istituto, l'attività della P.A. può essere controllata da parte del giudice. C’ è da dire che la nozione di eccesso di potere è stata al centro di un ampio dibattito, secondo alcuni autori è considerata una scorrettezza in una scelta discrezionale, secondo altri un vizio dell'atto che viene adottato per un fine diverso da quello prefissato dalla norma

attributiva del potere112, oppure, secondo altri, ricorre quando la

Pubblica amministrazione compie una deviazione da principi generali, 111 Guido Clemente di San Luca, “Il sindacato giurisdizionale sulle valutazioni

tecniche in materia ambientale” p. 33

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come la correttezza, la buona fede, la diligenza113. C'è quindi uno stretto

collegamento tra il concetto di eccesso di potere e quello di discrezionalità, sì che l'uno non può essere inteso senza l'altro. La discrezionalità è la caratteristica fondamentale del potere esercitato dall'amministrazione e consiste in una scelta. L'eccesso di potere è un vizio che concerne l'uso di questo potere discrezionale, cioè concerne la correttezza della scelta. Si tratta di una figura che va analizzata come quella attraverso la quale la giurisprudenza ha costruito la discrezionalità amministrativa: quanto si è detto a proposito della discrezionalità amministrativa può essere tradotto nel definire l'eccesso di potere come vizio degli atti amministrativi. Le regole dell'agire amministrativo che la giurisprudenza ha applicato in concreto al fine di stabilire se determinati atti, pur conformi alla legge, fossero viziati per eccesso di potere sono le regole che, tradotte in termini positivi, abbiamo indicato come proprie della

discrezionalità, come posizione tipica dell'agire amministrativo.114 La

legge inquadra l'eccesso di potere tra i vizi del provvedimento amministrativo e, precisamente, tra i vizi di legittimità. La figura dell'eccesso di potere compare per la prima volta nella L. 5992/1889 del Consiglio di Stato.

Il legislatore del 1889, introducendo il vizio di eccesso di potere come vizio dell'atto, aveva in mente un'idea diversa da quella che è poi stata accolta dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Il concetto di eccesso di potere, infatti, trae la sua origine storica nell'istituto dell'"éxcés de pouvoir", nato in Francia all'epoca della rivoluzione; espressione con cui si indicava il vizio di una sentenza con la quale si esercitavano funzioni amministrative; cioè una sentenza che avesse invaso il campo della P.A., rompendo il muro che divideva i tre 113 D'alberti, definizione, in “Diritto amministrativo comparato”, p. 143

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poteri dello Stato. Nelle elaborazioni dottrinali e giurisprudenziali che seguirono, invece, l'istituto venne completamente trasfigurato; e così l'espressione "eccesso di potere" diventa sinonimo di "uso scorretto del potere discrezionale". In tal modo, da vizio dell'atto, interno ad esso, la figura diviene un vizio della funzione; così questo istituto diventa uno dei capisaldi su cui si fonda la scienza del diritto amministrativo, perché diventa lo strumento per sindacare l'uso del potere discrezionale della P.A. Affinchè la figura di eccesso di potere ricorra, è necessario che l’atto sia discrezionale e non vincolato, ravvisabile solo se la Pubblica amministrazione agisce munita delle sue potestà discrezionali, e non quando la sua attività è vincolata; il che è logico, perché, quando l'atto è vincolato, la P.A. non esercita alcun potere, ma deve limitarsi ad applicare meccanicamente la legge; di conseguenza, l'unico vizio rilevabile potrebbe essere quello della

violazione di legge115 e l'atto deve essere conforme alla legge; ciò a

prima vista può sembrare una contraddizione, ma non lo è; se dall'atto risulta la violazione di una norma, il vizio sarà quello della violazione di legge; al contrario, è proprio quando l'atto è conforme (apparentemente) alla legge che può ricorrere l'eccesso di potere, perché è in tal caso che deve verificarsi se la Pubblica amministrazione abbia usato correttamente le sue potestà

discrezionali116.

Nel quadro dell’eccesso di potere si raggruppano tutte le violazioni di quei limiti interni alla discrezionalità amministrativa, che, pur non essendo consacrati in norme positive, sono inerenti alla natura stessa

del potere esercitato117. Pertanto, i requisiti sono di tre differenti

115Virga, “Diritto amministrativo, II”, p. 124; Cerulli-Irelli “Corso di diritto

amministrativo”, 1998, p. 618

116 Cerulli-Irelli “Corso di diritto amministrativo”, 1998, p. 618; 117 Virga, “Diritto amministrativo, II”, p. 124;

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categorie; la prima consiste nel verificare che l’atto sia conforme all’interesse pubblico, in secondo luogo che sia un atto che l’organo aveva potere di emanare e, infine, se esso sia esente da difetti logici

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4.2) La violazione di legge.

La violazione di legge è da tempo considerata una categoria dell'invalidità dell'atto amministrativo, perciò anch'essa contribuisce a individuare la non conformità di un atto alle norme che definiscono un ordinamento giuridico118. Sotto il profilo formale, per «legge» si è

sempre comunemente inteso ogni enunciato giuridico generale e astratto, sia esso contenuto nella Costituzione, in norme europee, in leggi ordinarie o atti aventi forza di legge, oppure in leggi regionali o delle Province Autonome di Trento e Bolzano, o ancora in regolamenti amministrativi del governo (come disposto dall’articolo 4, 2° co., c.c.), delle autonomie locali o di altri enti pubblici. Si ha cura di precisare che non ogni inosservanza da parte dell'atto amministrativo di una norma generale e astratta determina il vizio di violazione di legge, ma unicamente quelle ipotesi che non sono cause di nullità, ossia validità del provvedimento e dell'atto amministrativo e sempreché non configurino un vizio di incompetenza, o di eccesso di potere. Così intesa la violazione di legge si configura come un vizio a carattere residuale119. La linea interpretativa prevalente afferma che

il difetto di contraddittorio, di imparzialità e di partecipazione al procedimento sono ipotesi di annullabilità dell'atto amministrativo che debbono assumere la denominazione di «violazione di legge». Essa costituisce l'ultimo dei vizi di legittimità dell'atto amministrativo tra quelli indicati dal più volte richiamato art. 26 del R.D. n. 1054/1924 ed oggi dall'art. 21 octies della L. n. 241 del 1990. Quest’ultima indica il contrasto tra l'atto e l'ordinamento giuridico e può estrinsecarsi in un vizio della forma, in un vizio della

118Roberto Cavallo Perin “Violazione di Legge (Atto Amministrativo)” Estratto

dal Digesto edizione 4 Utet

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motivazione, in un vizio del procedimento, in un vizio della composizione dei collegi, in un vizio del contenuto, oppure può originare dalla violazione dei principi di efficacia, trasparenza e pubblicità dell'azione amministrativa di cui all'articolo 1 della L. n. 241/1990 o dei principi del giusto procedimento e della leale cooperazione di cui alla medesima legge. La violazione di legge, per concretare un'ipotesi di annullabilità dell'atto amministrativo deve essere di tipo diverso rispetto alle ipotesi individuate nell'art. 21 septies della L. n. 241 del 1990 (violazione o elusione di giudicato, difetto dei requisiti strutturali del provvedimento, difetto d'attribuzione) che determinano la nullità dell'atto. Per converso, ove non ricomprese nell'ambito dell'art. 21 septies, tutte le violazioni di legge possono solo determinare l'annullabilità dell'atto amministrativo, ove il provvedimento sia impugnato nel termine decadenziale di sessanta giorni. Deve, peraltro, soggiungersi che, a mente dell'articolo 21 octies secondo comma, non tutte le violazioni di legge possono dar vita all'annullabilità dell'atto amministrativo. In particolare, costituiscono vizi non invalidanti quelli che riguardano la forma ed il procedimento relativi ad atti amministrativi vincolati ove il G.A. accerti che il contenuto dispositivo di tali atti non avrebbe potuto essere diverso.

Nel lessico giuridico più diffuso, la parola giuridica «violazione» indica la non conformità di uno o più enunciati dell'atto amministrativo alla sua disciplina giuridica, più precisamente all'interpretazione di tale disciplina. L'affermazione risulta evidente per i provvedimenti amministrativi e per gli atti generali, poiché in essi difetta il requisito dell'astrattezza.120 Si denota una violazione di

120 Cannada Bartoli, “Disapplicazione di regolamenti da parte del Cons. di Stato”

1959; Piccardi, “Sulla disapplicazione degli atti amministrativi”, in giustizia amministrativa, Milano, 1968, p. 199 e ss.

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legge quando l'atto amministrativo è un'interpretazione della sua disciplina che risulta difforme da quella offerta in ultima analisi dalla giurisdizione; si ha violazione al termine di un duplice processo interpretativo: l'uno che attiene al significato che si vuole attribuire all'atto amministrativo, l’altro alla conformità di tale atto all’interpretazione della sua disciplina giuridica121. La violazione di

legge è comunemente ritenuta un vizio di illegittimità a carattere residuale. Assunta l'illegittimità come genus, ricondotto l'eccesso di potere e l'incompetenza a sue species, si definisce violazione di legge ogni diversa illegittimità dell'atto amministrativo.

Per concludere, occorre precisare che per giurisdizione di legittimità si intende un’impugnazione del provvedimento amministrativo affetto da uno dei tre tipi di vizi di legittimità, quali incompetenza, violazione di legge ed eccesso di potere. Il giudice amministrativo può solo annullare l'atto illegittimo, ma non può riformare né sostituire l'atto annullato.

121 Roberto Cavallo Perin “Violazione di Legge (Atto Amministrativo)” estratto

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4.3) L’incompetenza.

I vizi dell'incompetenza si verificano quando l'organo che adotta l'atto non è quello competente per grado, materia, ossia per valore o per territorio; secondo parte della dottrina e giurisprudenza, rientrerebbe nel vizio dell'incompetenza anche l'irregolare composizione dell'organo collegiale. Ove, invece, l'atto venga adottato da autorità appartenente ad altro ordine di poteri o ad altro settore della P.A., si verifica la fattispecie dell'incompetenza assoluta (e/o di difetto d'attribuzioni) che determina, ai sensi dell'art. 21 septies della L. n. 241 del 1990, la nullità dell'atto amministrativo, ipotesi che si verifica allorquando la P.A. abbia posto in essere un atto senza alcuna attribuzione di potere. Ancora non sia avrà incompetenza relativa ma inesistenza (o nullità assoluta) in caso di adozione di un provvedimento da parte di soggetto privo di competenze amministrative (c.d. acompetenza). Secondo la più recente dottrina e giurisprudenza, peraltro, si avrebbe incompetenza relativa e non assoluta allorchè l'atto sia adottato da un organo appartenente a diverso plesso amministrativo ma che abbia competenza nella materia costituente l'oggetto del provvedimento adottato. Quindi,l’”incompetenza” si verifica allorché l’atto venga

adottato da un organo diverso da quello competente; esso deve appartenere tuttavia alla medesima Amministrazione dell’organo che avrebbe dovuto provvedere, essendo nell’ipotesi contraria un caso di incompetenza assoluta che comporta la nullità dell’atto.

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4.4) Gli strumenti del Giudice Amministrativo.

Affinchè il giudice amministrativo possa sindacare le valutazioni tecniche compiute dalla P.A., il Codice del processo amministrativo, dispone di due differenti mezzi istruttori: la verificazione e la consulenza tecnica d’ufficio. Attualmente, viene utilizzata la tradizionale verificazione nelle ipotesi di accertamenti di fatto di relativa semplicità mentre si tende ad utilizzare la C.T.U. per gli accertamenti più complessi e controversi, nonché per l’acquisizione di valutazioni e giudizi tecnici; e ciò anche per considerazioni relative ai differenti “costi” dei due mezzi istruttori. A livello storico, c’è da dire che precedentemente alla Legge n. 205 del 2000, i mezzi di prova ammessi nel giudizio ordinario di legittimità erano i documenti, i chiarimenti e le verificazioni. Nel giudizio esteso al merito, invece, era possibile disporre anche degli altri mezzi istruttori contemplati nel processo civile ed in particolare le ispezioni, i sopralluoghi, le consulenze tecniche e la prova testimoniale. L’art. 16 della Legge n.

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