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2002/584/GAI

Par.1: La questione della cittadinanza e della residenza ai fini del mandato d’arresto europeo

L’ordinamento italiano, nel dare attuazione alla decisione quadro relativa al mandato d’arresto europeo, ha posto in essere un sistema di consegna poco compatibile in numerosi punti con lo spirito dell’atto comunitario. Lo si rinviene, ad esempio, nello stravolgimento della lista dei reati per cui non opera il requisito della doppia incriminazione e nell’introduzione di motivi di rifiuto della consegna non previsti nella DQ. Si tratta di elementi che ostacolano la nuova procedura di consegna e, di conseguenza, la cooperazione tra le autorità giudiziarie dei vari Stati membri.

Proprio le numerose incompatibilità scaturite dalla legge di recepimento hanno favorito molteplici interventi della Corte di cassazione e della Corte costituzionale al fine di ovviare alle

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incongruenze con la Carta costituzionale originate da alcune previsioni. A questo riguardo, un utile punto di osservazione può essere rappresentato dall’evoluzione della giurisprudenza in riferimento all’interpretazione degli artt. 18 lett. r) e 19 lett. c), l. n. 69/2005, disciplinanti le ipotesi di rifiuto della consegna e di consegna condizionata del cittadino e del residente. Dall’analisi del caso, in seguito ad un’ iniziale chiusura della giurisprudenza della Corte di cassazione, concentratasi soprattutto su di una interpretazione letterale del dato normativo, emerge un importante ripensamento che ha dato luogo alla tanto attesa pronuncia della Corte costituzionale. Alla base di questo “cambiamento di rotta” un ruolo rilevante è stato ricoperto dalle pronunce della Corte di Giustizia U.E. . Gli insegnamenti sovranazionali, infatti, hanno orientato le nostre Corti verso un’interpretazione della normativa italiana conforme alle finalità perseguite dall’atto comunitario introduttivo dell’euromandato. Adesso verranno ripercorse le tappe più significative di questo

iter che hanno portato alla declaratoria di parziale incostituzionalità dell’art. 18 lett. r).

Par.1.1: (Segue): Il quadro normativo di riferimento. Il c.d. “microsistema di consegna differenziato per il cittadino e il residente”

Prima di dedicarci all’analisi della prassi giurisprudenziale sul tema de quo, è importante individuare la cornice normativa all’interno della quale si sviluppa la nostra riflessione.

Si può notare come sia la DQ, sia la legge italiana di recepimento, prevedano delle ipotesi in cui gli Stati membri, pur

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in presenza di un dovere di cooperazione, possono non dare esecuzione al mandato d’arresto. L’atto europeo all’art. 3 prevede i casi in cui il rifiuto è obbligatorio e, all’art. 4, quelli in cui è facoltativo. Proprio l’art. 4, n. 6 recita che la consegna può essere negata qualora la persona ricercata sia cittadino, residente o dimorante dello Stato membro di esecuzione, purché tale Stato si impegni ad eseguire la pena o la misura di sicurezza conformemente al proprio diritto interno.

A livello legislativo nazionale l’art. 18 lett. r), al momento dell’emanazione della normativa, aveva attuato in modo incompleto il contenuto della sopra citata disposizione comunitaria. Il legislatore italiano, infatti, con la l. 69/2005, oltre a configurare tutte le ipotesi di diniego della consegna come obbligatorie, aveva altresì recepito l’art. 4 n. 6 DQ in modo parziale riducendo, dal punto di vista soggettivo, l’ambito di applicabilità della fattispecie82.

L’art. 18 lett. r), prima dell’intervento della Corte costituzionale, prevedeva che la Corte d’appello, in seguito ad un mandato emesso ai fini dell’esecuzione di una pena o misura di sicurezza, potesse negare la consegna del solo cittadino italiano e alla condizione che disponesse l’esecuzione della pena in Italia. La previsione era destinata ad operare, dunque, nei soli confronti dei cittadini italiani, in quanto mancava un’ equiparazione ad essi dei residenti o dimoranti. Veniva menzionata esclusivamente la cittadinanza quale criterio fondante il motivo di rifiuto e nessun accenno veniva effettuato alla residenza o dimora.

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A. CIAVOLA, La Corte costituzionale riconosce il diritto del cittadino europeo a

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Accanto a questa norma, che si applicava soltanto per i mandati di arresto europeo “esecutivi”, cioè emessi per dare esecuzione ad una sentenza o ad altri provvedimenti di condanna, si colloca l’art. 19 lett. c) utilizzabile in presenza di euromandati “processuali”, emanati ai fini dell’esercizio dell’azione penale nei confronti del consegnando. L’articolo disciplina un’ipotesi di consegna “condizionata” e rappresenta l’attuazione nel diritto interno della disposizione dell’art. 5, par. 3, DQ; lo stesso prevede che la consegna sia subordinata alla condizione che il cittadino o lo straniero residente nel territorio del nostro Paese, dopo essere stato ascoltato, sia riconsegnato per scontare in Italia la pena o la misura di sicurezza inflitte dallo Stato di emissione. L’ art. 18 lett. r) unitamente all’ art. 19 lett. c) regolano « un regime di consegna differenziato, una sorta di “microsistema”, applicabile ogni volta che il ricercato sia cittadino o residente nel nostro Stato»83.

Dal raffronto tra le norme, nella loro previsione originaria, emerge molto chiaramente la differenza che le connota in ordine ai soggetti coinvolti: solo nel caso di MAE processuale la garanzia è estesa anche al residente, conformemente all’atto europeo.

Nella DQ 2002/584/GAI l’introduzione delle disposizioni relative alla consegna dei soggetti privilegiati (cittadino, residente e dimorante) segue una logica del tutto diversa rispetto a quella che caratterizzava la procedura di estradizione. Nel nuovo meccanismo si assiste ad una trasformazione del significato del divieto di consegna del cittadino. Storicamente, infatti, tale

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G. COLAIACOVO, Il “microsistema” di consegna differenziato per il cittadino e il

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divieto era espressione della sovranità dello Stato nei confronti degli altri Paesi e dell’autorità dello stesso nei confronti dei propri cittadini. La ratio del divieto di estradizione del cittadino era ricollegabile alla volontà di tutelarlo di fronte a ordinamenti giuridici con i quali non esistesse nessuna convenzione in materia, che non fossero abbastanza affidabili in termini di garanzie processuali o di esecuzione della pena84. Questo sistema era frutto di un modo d’intendere i rapporti interstatuali e, dunque, la cooperazione tra i vari ordinamenti, ormai ben superato all’interno dello spazio giudiziario europeo. All’interno dell’Unione europea, infatti, i principi ispiratori delle relazioni di collaborazione tra i Paesi membri sono stati profondamente rinnovati. Proprio l’elevato livello fiducia tra i molteplici Stati è il punto di partenza sul quale fondare la “nuova” cooperazione giudiziaria al fine di assicurare la libertà e la sicurezza per i cittadini dell’Unione.

In questa mutata prospettiva devono essere lette le norme, contenute nella DQ relativa al MAE, che suggeriscono un certo

favor nei confronti del cittadino dello Stato di esecuzione e dei

soggetti ivi residenti e dimoranti. Dette norme sono sintomatiche del fatto che il legislatore europeo è stato animato da un’istanza del tutto antitetica rispetto a quella passata: la risocializzazione del reo. Ciò emerge molto chiaramente dalle disposizioni contenute nella Proposta di decisione quadro elaborata dalla Commissione85. All’art. 33 si contemplava come possibile causa di rifiuto della consegna il rispetto del principio del

84 M. TIBERI, Il mandato d’arresto europeo: rimessione alla Corte costituzionale, in

Giurisprudenza Italiana, 2010, pp. 1411-1412.

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Proposta di decisione quadro della Commissione adottata a Bruxelles il 19 settembre 2001 COM(2001)522 Def., in Gazz. Uff. CE, 27 novembre 2001.

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reinserimento; dalla stessa norma emergeva che l’interesse del soggetto condannato era l’unico criterio che avrebbe dovuto ispirare la decisione dell’autorità dell’esecuzione in ordine alla consegna. L’articolo prevedeva che «l’esecuzione del mandato di arresto nei confronti di una persona può essere rifiutata se questa persona ha migliori possibilità di reinserimento nello Stato membro di esecuzione e abbia dato il suo consenso a scontare la pena in tale Stato».

Alla fine, questi principi non hanno trovato una traduzione espressa nel testo definitivo della DQ, tuttavia è possibile ritenere che siano stati implicitamente enunciati agli artt. 4, n. 6 e 5, n.3 precedentemente descritti. Infatti, dare la possibilità al cittadino dello Stato dell’esecuzione, o a colui che vi risieda o a talune condizioni vi dimori, di scontare la pena in detto Paese altro non significa che agevolare le sue possibilità di rieducazione e reinserimento86. Si può notare come, attraverso la previsione di un “microsistema di consegna differenziato”, si sia cercato di bilanciare l’esigenza repressiva, espressione di una delle principali funzioni che il MAE deve assolvere, con i diritti dei condannati.

«La semplificazione e la velocizzazione delle procedure di consegna, non possono spingersi sino a pregiudicare le tutele e le garanzie che contornano la fase di esecuzione del provvedimento di condanna e hanno come scopo principale la risocializzazione del reo»87. Tale finalità potrebbe essere pregiudicata nel momento in cui viene data esecuzione alla pena in un sistema

86 M. TIBERI, Il mandato d’arresto europeo: rimessione alla Corte costituzionale, cit.,

p. 1412.

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G. COLAIACOVO, La consegna del cittadino e del residente nella giurisprudenza

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estraneo al condannato. L’obiettivo dell’autorità giudiziaria diventa quello di verificare elementi quali i legami familiari, sociali, economici, linguistici che permettano di individuare lo Stato in cui l’esecuzione della condanna contribuisca maggiormente al reinserimento nella società del soggetto coinvolto.

«Cittadinanza e residenza, pertanto, non sono più espressione del “nazionalismo giuridico” ereditato dai secoli passati, ma diventano i criteri attraverso i quali individuare l’ordinamento che garantisca le migliori condizioni per il recupero sociale del ricercato»88.

Lo Stato richiesto, dunque, si vede riconosciuta la facoltà di negare la consegna delle persone ricercate, appartenenti alle categorie fino a qui analizzate, quando riscontri un effettivo legame tra il soggetto coinvolto e il territorio. L’eventuale rifiuto, inoltre, non potrà essere “secco”, ma dovrà essere sempre accompagnato dall’impegno di dare esecuzione alla pena inflitta dallo Stato emittente. Questa disciplina è stata ideata per permettere la soddisfazione sia dell’istanza di giustizia retributiva dello Stato richiedente, sia dell’esigenza dello Stato richiesto di risocializzazione del proprio cittadino.

A fronte dello scenario comunitario, la normativa italiana ha mostrato tutte le proprie incoerenze e contraddizioni le quali, nel tempo, hanno portato la Corte costituzionale a pronunciarsi. L’art. 18 lett. r), al momento dell’entrata in vigore della l. 69/2005, conteneva un divieto di consegna circoscritto al solo cittadino italiano. Ciò è apparso in contrasto con l’art. 27, comma

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G. COLAIACOVO, La consegna del cittadino e del residente nella giurisprudenza

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3, Cost., perché realizzava una disparità di trattamento tra cittadini e residenti. La norma costituzionale, infatti, nel sancire il diritto fondamentale dell’espiazione di una pena che sia finalizzata alla rieducazione del reo, estende tale diritto a tutti i condannati senza distinzioni basate sul possesso dello status di cittadino.

Combinando, inoltre, la lettura dell’art. 18 lett. r) con quella dell’art. 19 lett. c), si riscontrava una disparità di trattamento tra gli stessi residenti, questa volta in violazione dell’art. 3 Cost. Mentre il residente colpito da MAE esecutivo avrebbe dovuto essere consegnato allo Stato emittente, stante la lettera dell’art. 18 lett. r), il residente colpito da MAE processuale avrebbe visto garantito il proprio diritto alla riconsegna nello Stato di esecuzione intervenuta la condanna definitiva. Differenza di trattamento del tutto irragionevole.

È necessario, però, procedere per gradi. La presa di coscienza di tutta questa situazione è avvenuta solamente dopo alcuni anni dall’emanazione della legge di implementazione. Inizialmente, i primi orientamenti giurisprudenziali hanno cercato di sostenere le scelte effettuate in sede legislativa. Tutto ciò ha prodotto dei risultati che, ben presto, si è voluto e dovuto superare perché privi di ogni fondamento.

Par.1.2: (Segue): I primi orientamenti della Corte di

cassazione relativi all’esclusione del residente

dall’ambito applicativo dell’art. 18 lett. r)

L’art. 18 lett. r), come abbiamo detto, non contemplava la possibilità per gli stranieri residenti in Italia, nei cui confronti

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fosse stato spiccato un mandato d’arresto esecutivo, di poter scontare la pena nel nostro Paese al fine evitare di interrompere i rapporti familiari, sociali ed economici ivi creati.

Sul punto, tra l’altro, si era pian piano consolidato un orientamento giurisprudenziale giustificatore delle scelte legislative.

Inizialmente, infatti, la Corte di cassazione precisava in più pronunce che l’art. 18 lett. r) non poteva essere esteso in via interpretativa anche al residente e che, inoltre, non sarebbe stato possibile applicare in via analogica il disposto dell’art. 19 lett. c) perchè riguardante una fattispecie diversa, il MAE processuale. Si sosteneva che il differente regime fosse frutto di una ben precisa scelta del legislatore, scelta del tutto conforme al disposto della DQ e dell’esercizio delle facoltà dalla stessa concesse. La giurisprudenza era ferma nell’affermare che la disposizione de

qua non si poneva in contrasto con i principi della decisione

quadro 2002/584/GAI; si diceva che «la stessa facoltizza, ma non obbliga, gli Stati membri dell’Unione europea ad estendere le guarentigie, eventualmente riconosciute ai propri cittadini, anche agli stranieri che risiedano o dimorino sul loro territorio»89. Secondo questo orientamento, dunque, l’atto europeo, nell’enunciare delle ipotesi di rifiuto facoltativo, avrebbe lasciato ampia discrezionalità ai legislatori nazionali al momento del recepimento della normativa comunitaria e della sua trasposizione in norme di diritto interno.

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Cass., Sez. VI, 28 gennaio 2009, n. 4303, Glamenau, in Dir. pen. proc., 2009, pp. 1395-1396.

Negli stessi termini Sez. VI, 12 dicembre 2008, n. 46299, Cervenak, in Cass. pen., 2009, p. 2058; Sez. fer., 2 settembre 2008, n. 35286, Zvenca e Sez. VI 16 aprile 2008, n. 16213, Badilas, www.cortedicassazione.it; Sez. fer., 4 settembre 2007, n. 34210, Dobos, in Foro It., 2008, II, p. 3.

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In questi termini si sarebbe dovuta leggere la disciplina dettata in seno alla l. 69/2005.

Il disposto legislativo non poteva essere forzato in nome dell’applicazione del meccanismo d’interpretazione conforme. Ciò perché i giudici nazionali hanno l’obbligo di interpretare le norme di recepimento alla luce della lettera e dello scopo della decisione quadro, ma tale obbligo cessa quando il diritto interno non permette un’interpretazione compatibile con la DQ, non potendo il principio d’interpretazione conforme servire da fondamento a un’interpretazione contra legem90

.

Inoltre, l’incompatibilità tra questa norma e l’art. 19 lett. c), visto che ciascuna era riferibile a uno solo dei due possibili tipi di

mandato, portava a ritenere che fosse impossibile

un’applicazione analogica. La giurisprudenza precisava come questa disciplina differenziata fosse il frutto di un’autonoma scelta di politica criminale del nostro legislatore; opzione compiuta legittimamente e non censurabile per infondatezza91. Concludendo, le persone ricercate non cittadine italiane non potevano scontare la pena in Italia, con la conseguenza che le istanze da loro avanzate in tal senso venivano rigettate. In molti casi questo meccanismo ha dato luogo a trasferimenti traumatici di persone verso lo Stato richiedente, dove la pena detentiva oltre ad essere pesante di per sé, lo era ancor di più perché venivano recisi in modo drastico tutti i legami instaurati e consolidati nello Stato richiesto.

90 G. COLAIACOVO, La consegna del cittadino e del residente nella giurisprudenza

interna e sovranazionale, cit., pp. 891-892.

91

V. LUCIANO, Il commento a Cassazione penale, Sez. VI, 30 gennaio 2009, n. 4303, Glamenau, in Dir. pen. proc., 2009, p. 1398.

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Par.1.3: (Segue): La giurisprudenza “cambia rotta”. S’insinua il dubbio dell’ incostituzionalità

Nonostante l’orientamento giurisprudenziale sopra descritto fosse molto consolidato, a partire dall’estate del 2009 iniziarono a sorgere dubbi di legittimità sulla normativa presa in esame.

Proprio da quel momento la Suprema Corte, con varie ordinanze di rimessione alla Corte costituzionale, ipotizzava l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, comma 1, lett. r), l. n. 69/2005. Le ordinanze, infatti, avevano ritenuto rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3, 27, comma 3, e 117, comma 1, Cost., la questione relativa alla citata disposizione, in particolare, nella parte in cui non prevedeva il rifiuto della consegna del residente non cittadino92. Il Supremo Collegio, nel rivolgersi alla Corte costituzionale, aveva utilizzato identiche motivazioni. Prendeva atto dell’impossibilità di decidere in senso favorevole o contrario alla consegna senza che fosse stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 lett. r). La Corte di Cassazione riteneva che i ricorrenti avessero fornito, nei giudizi di fronte alle rispettive Corti di Appello, le prove di un effettivo radicamento nel territorio italiano ma, stante il tenore letterale della norma, non sarebbe stato possibile capovolgere la decisione di consegna adottata dalle Corti territoriali93.

92 Cass., Sez. VI, 15 luglio 2009, n. 33511, Papierz, in Cass. Pen., 2010, n. 02, pp. 665-

671; Cass., Sez. F., 1 settembre 2009, n. 34213, Musca, in Giur. It., 2010, pp. 1408- 1411.

Trattasi delle prime due ordinanze con cui è stata sollevata la questione di illegittimità costituzionale della disposizione in esame.

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A. CHELO, È illegittima la mancata previsione del rifiuto della consegna del

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I giudici, partendo dal riferimento dell’art. 4, n. 6 DQ che assimila lo straniero residente al cittadino, constatavano l’assenza di simile previsione nella disciplina nazionale e prendevano atto della necessità di rimuovere detto vizio della disposizione in esame, nella parte in cui non consentiva il rifiuto della consegna del residente non cittadino.

Il Supremo Collegio argomentava questa esigenza escludendo la possibilità di una lettura alternativa della norma così come era formulata. In particolare, l’univoco tenore testuale della stessa e la valutazione comparativa del testo dell’art. 19 lett. c) non consentivano «una qualsiasi forma di superamento od aggiramento ermeneutico in termini di applicazione analogica». Una lettura che potesse essere conforme a Costituzione e che costituisse, altresì, un’interpretazione conforme alla decisione quadro non era possibile, visto che avrebbe solo condotto a un’interpretazione contra legem inaccettabile.

L’unica via praticabile rimaneva, dunque, quella di devolvere la questione alla Corte costituzionale; quest’ultima avrebbe dovuto valutare la compatibilità dell’art. 18 lett. r) con tre diverse disposizioni della Costituzione, gli artt. 117, comma 1, 27, comma 3, e 3.

La prima censura evidenziava come l’esclusione del residente dal campo di applicazione della previsione e, quindi, l’attuazione solo parziale della omologa disposizione della DQ, integrava un inadempimento degli obblighi imposti dal diritto comunitario. Nelle ordinanze di rimessione si sottolineava, dunque, il contrasto della norma con gli artt. 11 e 117 Cost. i quali, in generale, disciplinando i rapporti tra ordinamento interno e diritto

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dell’U.E., sanciscono l’obbligo del legislatore, statale o regionale, di rispettare i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario. In particolare erano due i profili di frizione sottolineati: il mancato rispetto dei vincoli derivanti dalla decisione quadro sul mandato d’arresto europeo e la violazione del divieto di non discriminazione in base alla nazionalità sancito dall’art. 12 TCE, oggi art. 18 TFUE94.

Contrariamente a quanto affermato fino a quel momento la giurisprudenza riteneva che l’art. 4, n. 6 DQ, affidasse alla discrezionalità dei legislatori nazionali solo la facoltà di decidere se recepire o meno i motivi di rifiuto nella legge di attuazione, non essendo loro consentito di manipolare il suo contenuto per ragioni interne di politica criminale. Quindi, sulla base del mutato orientamento giurisprudenziale diventava impossibile distinguere la posizione del cittadino rispetto a quella di residente.

L’atto comunitario, con l’introduzione di un “microsistema” differenziato di consegna, aveva voluto perseguire il diverso scopo di garantire la finalità rieducativa della pena. Nel far ciò, si era ritenuto opportuno non discriminare lo straniero integrato nello Stato dell’esecuzione, perché residente o dimorante, rispetto al cittadino95.

L’art. 18 lett. r) aveva introdotto una disparità di trattamento non consentita: impedendo allo straniero residente di poter scontare la pena nel nostro ordinamento si realizzava uno scollamento dalle

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A. CIAVOLA, La Corte costituzionale riconosce il diritto del cittadino europeo a

scontare la pena in Italia, cit., pp. 520-522.

95 Solo il criterio attraverso cui veniva accertata la capacità rieducativa della pena

era l’unico elemento di discrimine. Mentre per il cittadino, visto il legame con lo Stato di provenienza,la finalità di risocializzazione della pena era presunta, nel caso del residente si doveva dimostrare attraverso la prova di un reale radicamento.

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disposizioni della DQ e, di conseguenza, si ostacolava il raggiungimento degli obiettivi ivi perseguiti.

La ratio della norma comunitaria era, ed è ancora oggi, quella di rendere possibile agli Stati membri il rifiuto della consegna quando questo accresca le opportunità di reinserimento del condannato. Di primaria importanza è l’individuazione del luogo nel quale si concentrano gli interessi del ricercato come i legami familiari e quant’altro possa essere utile al reinserimento sociale, durante e dopo l’esecuzione della pena. La cittadinanza è un elemento importante per giustificare il rifiuto della consegna, ma

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