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Il sistema di Hegel e la supplica di Bataille

Dall’incrinatura subita all’incrinatura amata Un pensiero alla misura della passione

2. Il sistema di Hegel e la supplica di Bataille

a) Lo scandalo della lacerazione contro la salvezza del sistema

Calcando il territorio di confine tra la malattia e la salute, e attraversando i luoghi in cui il rischio della follia acquisisce una consistenza reale, Bataille dopo pochi anni dell’esperienza di Acéphale, a guerra ormai cominciata, si confronta anche col vissuto anche di Hegel che, come abbiamo sottolineato nel primo capitolo, ha assunto un ruolo altrettanto fondamentale per lo sviluppo della sua riflessione, e da cui ha tratto un riferimento e un confronto costanti nel corso della sua opera. In una sezione di L’expérience intérieure redatta agli esordi degli anni Quaranta del Novecento e intitolata Le supplice, Bataille immagina il giovane autore della Fenomenologia dello Spirito che, nella fase anteriore alla conclusione di tale opera, si sia trovato sul punto di impazzire dinanzi al terrore che qualcosa aldilà del concetto potesse far vacillare la solidità dell’intero suo impianto teorico e attentarne la “salvezza” del compimento felice214. In tali pagine Bataille, dopo aver

anticipato l’intuizione secondo cui «l’idea di salvezza […] viene a chi è disgregato dalla sofferenza»215, della vicenda di Hegel commenta: «Era ancora giovane e credette di diventare pazzo. Immagino anche che egli

214 Sulla follia di Hegel Bataille torna più volte nel corso della sua opera. Una di queste è

nell’importante articolo De l’existentialisme au primat de l’économie del 1947. In quell’occasione egli afferma: «È strano accorgersi oggi di ciò che Kierkegaard non poté sapere: che Hegel, come Kierkegaard, conobbe avanti all’idea assoluta il rifiuto della soggettività. Si potrebbe pensare però in generale, che, visto il rifiuto di Hegel, si trattasse di un’opposizione concettuale. Non è così. Il fatto non è dedotto da un testo filosofico, ma da una lettera a un amico, al quale confida che, per due anni, credette di diventar pazzo. La motivazione stava nella necessità in cui si era trovato di rinunciare in se stesso all’individuo (rappresentandosi la necessità di non essere più, lui, l’essere particolare, l’individuo che era, ma l’Idea universale, di cadere se si vuole nell’inanità divina – in una parola di essere Dio, ma dovendo, volendo morire sentì di impazzire.) Tutto questo non durò una notte, o due giorni, ma due anni. In un certo senso, la frase folgorante di Hegel ha addirittura una forza che il grido prolungato di Kierkegaard non ha. Essa si dà, quanto il grido di Kierkegaard, nell’esistenza – che eccede. (G. Bataille, De l’existentialisme au primat de l’économie, «Critique», n. 19 e n. 21, dicembre 1947; febbraio 1948, in . Œuvres. cit., vol. ; trad. it. di F. C. Papparo, Dell’esistenzialismo al

primato dell’economia, in G. Bataille, L’aldilà del serio e altri saggi, a cura e con introduzione

di F. C. Papparo, Napoli 2000, p 91.)

elaborasse il sistema per sfuggire […]. Concludendo, Hegel giunge al soddisfacimento, volge le spalle all’estremo. La supplica è morta in lui. […] Hegel guadagnò, da vivo, la salvezza, uccise la supplica, si mutilò. […] Ma prima di mutilarsi, ha senza dubbio toccato l’estremo, conosciuto la supplica: la sua memoria lo riconduce all’abisso da lui scorto per annullarlo! Il sistema è l’annullamento»216.

Da questo passo si evincono ulteriori elementi decisivi della visione batailleana di Hegel. Se è vero che il bisogno di «salvezza» è sentito solo da chi è intimamente «lacerato» e si imbatte nel rischio e nel danno della ‘malattia’, è altrettanto vero che «guadagnarsi la salvezza da vivi», propendere per una forma di ‘salute’ che neghi la lacerazione e «uccida la supplica», non può condurre che a uno stato di «mutilazione» del proprio essere. È dunque anche dalla presa d’atto di questa peculiare soluzione incarnata dalla filosofia hegeliana che Bataille scorge e affina la sua posizione teorica specifica: una posizione che, come sappiamo, per quanto sia diversa da quella hegeliana, non è affatto estranea al suo movimento dialettico.

D’altronde, soltanto assumendo che il punto di partenza dei due pensatori è nondimeno affine, e che per entrambi consta di quella disgregazione suscitata dalla sofferenza su cui abbiamo già posto l’accento, possiamo tentare di comprendere in che modo e intorno a quali questioni Bataille abbia tratto proprio dall’aderenza al sistema hegeliano gli strumenti teorici per confutarne la sua conclusione e per insinuare in essa la differenza radicale del vissuto esperienziale in quanto somma dei possibili. L’aspetto fondamentale da cui ci sembra quindi opportuno prendere ora le mosse è legato al nesso sussistente tra conoscenza e dolore – o, anche, tra conoscenza e rischio di follia - all’interno dei loro rispettivi orizzonti di senso. Nell’adottare questo taglio interpretativo,

attingiamo in prima istanza ad alcune osservazioni di Remo Bodei relative alla filosofia di Hegel e all’epoca in cui essa si è sviluppata: «nell’età di Hegel – all’interno dell’esperienza di sconvolgenti fatti storici – il tragico entra in pieno diritto nella filosofia e la contraddizione e la dissonanza acquistano legittimità nel pensiero, diventano ‘scandalo’ non facilmente aggirabile. La filosofia si carica dei problemi già posti dal tragico e la tragedia […] assume tematiche e risonanze tipicamente filosofiche»217.

Tradizionalmente la sfera in cui il dolore ha inscenato conflitti senza soluzione di sorta, “scissioni” e, per l’appunto, lacerazioni sanguinose, è riconducibile interamente ed esclusivamente al mondo tragico. Da Platone in poi per secoli la filosofia, emancipandosi dall’esperienza originaria e confusiva della notte, ha prevalentemente cercato di astrarsi da qualsiasi espressione del dolore e ha allontanato dall’esercizio razionale il movimento della contraddizione, vedendo riposti in quest’ultimo sia l’insidia della falsità che il rischio dell’ottenebramento. A tale riguardo possiamo constatare che la dialettica hegeliana rappresenta una delle prime, nonché più autorevoli, forme dell’integrazione di questi due diversi filoni della cultura occidentale che fino alla modernità hanno proceduto parallelamente ma in una situazione di quasi completo isolamento reciproco.

Un’annotazione preliminare che si può compiere in riferimento alla ricezione batailleana di Hegel è dunque senz’altro legata alla componente tragica presente e attiva nello svolgimento dialettico della Fenomenologia. Se Bataille è stato particolarmente segnato dalle lezioni sull’opera hegeliana che Alexandre Kojève ha tenuto dal 1933 al 1939 presso l’École des hautes études di Parigi, e se come lui stesso in seguito

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ha dichiarato, «è uscito rotto, frantumato, triturato, ucciso dieci volte»218 da tali lezioni, verosimilmente lo si deve anche all’impatto enorme che ha suscitato in lui il ruolo assolutamente determinante che all’interno della Fenomenologia rivestono il dolore e le contraddizioni nello spingere il pensiero al suo avanzamento senza chiuderlo nell’imperturbabilità.

D’altronde, come abbiamo già avuto modo di sottolineare in riferimento al pensiero e alla vicenda biografica di Nietzsche, Bataille anche in tal caso ha messo in valore in particolar modo l’afflato tragico derivante dallo scacco della ragione. Per la precisione, è soprattutto nel “riso tragico” che egli ha scorto la fonte del rinnovamento prospettico di cui lui stesso, in continuità con l’insegnamento nietzscheano, si è fatto interprete. Ma, come stiamo per mostrare, il ruolo cardine della tragedia per la riflessione batailleana non si limita esclusivamente ai temi e ai luoghi che sono esplicitamente debitori del suo incontro con l’opera nietzscheana. L’esuberanza delle forze propria della tragedia innerva tutte le ‘terminazioni’ del testo che egli ha concepito. Possiamo ad esempio registrarla anche nella necessità - costantemente reclamata in L’expérience intérieure in opposizione alla soluzione salvifica hegeliana - di un pensiero che, dinanzi al supplizio umano, si faccia supplica. A tale proposito è opportuno mettere in rilievo che il nucleo lessicale e simbolico costituito dalla coppia ‘supplica-supplizio’ intreccia una fitta rete di rimandi, sia espliciti che sottesi, con l’universo figurativo e drammatico della tragedia greca e con le pratiche rituali del culto dionisiaco a esso connesse.

In continuità con quanto stiamo introducendo si può inoltre aggiungere un ulteriore elemento degno di interesse per il nostro discorso. Conformemente a quanto Bataille medesimo ha rivelato, è stata

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la visione di un’immagine, di un’immagine radicalmente differente da tutte quelle che aveva visto fino a quel momento, a aver reso l’autore consapevole della realtà carnale e straziante del supplizio e ad avere, quindi, innestato nella sua scrittura le “besognes” della supplica. Questa immagine, che attraverso le sue lacerazioni sanguinanti è penetrata nel percorso umano e intellettuale batailleano, corrisponde a «un’immagine aperta»: esposizione irrappresentabile del segreto più inaccessibile dell’umano. L’immagine cui stiamo alludendo è una fotografia scattata nel 1910 a Pechino, raffigurante un condannato a morte sottoposto al supplizio dei cento pezzi (cfr. tavola). Bataille nel 1925 aveva ricevuto in “dono” dal suo psicoterapeuta, il dottor Borel, un chiché di tale fotografia, che «ha avuto un ruolo decisivo»219 nella sua vita, ne ha silenziosamente condizionato e plasmato le differenti fasi della scrittura, per poi, in conclusione del suo ultimo libro, Le larmes d’Eros, essere ambiguamente donata allo sguardo del lettore. Tale episodio ci permette di soffermare nuovamente l’attenzione sul ‘valore farmacologico’ del tutto paradossale che è riferibile alla pratica della scrittura in Bataille. Il ‘rimedio’ che a partire da questo dono bizzarro220, ricevuto peraltro dal

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Traiamo uno spunto interessante in merito al nucleo problematico del “dono” da alcune considerazioni che sono al centro di una conversazione tra Roberto Esposito e Nicola Fanizza. Al riferimento proposto da Fanizza a un’ «immagine ambivalente del dono [...] da sempre presente nei sotterranei del nostro immaginario [...] iscritta persino nella nostra lingua a livello del significante: infatti l’anagramma del termine dono è nodo!» (N. Fanizza e R. Esposito, Dono e veleno, «Inoltre», Del Mediterraneo e altro, n. 3, inverno 2000, p. 31), Esposito controbatte osservando che «solo se si rinuncia impoliticamente a obbligare il destinatario alla restituzione, esso perde quell’aculeo velenoso che già la tradizione classica vi ha rinvenuto in conformità con il doppio significato del termine gift (dono e veleno)» (Ibid.). Sorvolando per il momento sull’implicazione politica (o, secondo Esposito, “impolitica”) che i due autori assegnano al “dono” in riferimento al loro discorso sulla democrazia, ci sembra interessante porre l’accento sulla connessione tra la natura ambivalente del “dono” e il carattere ancipite del termine che nella lingua alto-tedesca e in quella inglese serve a designarlo (cfr. R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, cit., pp. 151-152). Se ora riportiamo quanto osservato da Esposito e Fanizza all’orizzonte di senso di Bataille, constatiamo che effettivamente il “dono”, in quanto manifestazione umana della “dépense”, è ascrivibile alla sfera dell’eterogeneo (o, anche, da un punto di vista dei rapporti sociali, dal “sacro”). Di conseguenza il dono è dotato effettivamente di un’ambiguità strutturale che implica una messa in discussione delle identità statuite e una compresenza dei contrari: generosità e competizione, forza di coesione e

suo terapeuta, egli ha cominciato ad associare al gesto della scrittura, non ha inteso né rimarginare le ferite terribili del suppliziato, né mascherare il dolore umano attraverso un esercizio di occultamento della carne muta della vittima, né stemperare lo scandalo della messa a morte attraverso una retorica della redenzione e della salvezza. Il ‘rimedio’ paradossale adottato da Bataille ha, invece, realizzato un rovesciamento di tutti questi ‘artifici’ che abitualmente compongono e supportano la mistica del sacrificio. Siffatto ‘rimedio’, sovvertendo l’impianto alla base del dispositivo sacrificale, ha quindi sfidato l’orrore della visione crudele, messo il soggetto in contatto con l’intensità tragica dell’esperienza umana, spinto la parola fin dentro l’insensatezza della carne agonizzante e, infine, sottoposto la coscienza alla penetrazione del legame impensabile di estasi divina e violenza estrema.

Il procedimento messo in atto da Bataille mediante tale operazione di mis à l’envers del dispositivo sacrificale ha dunque scarnificato la spettacolarizzazione della morte che normalmente rende tale dispositivo funzionale all’affermazione e alla conservazione del potere. L’attenzione da lui prestata alla condizione del suppliziato si è svolta in direzione di un’esposizione denudata di qualsiasi intento ostensorio e di qualsiasi supplemento di carattere estetico o etico o, anche, solo argomentativo. Tale operazione di differenziazione della questione sacrificale, pur nella

impulso anti-sociale, gratuità e interesse alla restituzione. Inoltre la dimensione eterogenea da cui esso prende le mosse, nella sua forma originaria, non sottoposta alla suddivisione tardiva tra “puro” e “impuro”, e tra “bene” e “male”, è contraddistinta da un’osmosi di elementi benefici e malefici. Stando alla sua dinamica interna, attraverso la prova del male scaturisce il bene, e viceversa. In virtù di tali constatazioni siamo nelle condizioni di ritenere che l’ipotesi di un’ambivalenza ‘farmacologica’ del “dono” avanzata da Esposito e Fanizza sia compatibile con l’accezione problematica che Bataille abbia attribuito a tale termine. Inoltre, sulla scorta dell’ipotesi dei due autori, possiamo immaginare anche che per Bataille il “dono”, in virtù della sua natura doppia, ovvero di una compresenza di bene e di male ‘sostanzialmente’ affine a quella del ‘farmaco’, in determinate circostanze è in grado di rivestire un’analoga funzione di ‘rimedio’ nei rapporti interpersonali o sociali. Una simile possibilità, tuttavia, suscita in noi un’ulteriore suggestione: la fotografia del suppliziato cinese donata da Borel a Bataille può essere considerata come il ‘rimedio’ che il terapeuta ha ritenuto il più opportuno per la domanda di salute del suo paziente?

duplicazione apparente della dinamica che è alla base della sua forma istituita, è quindi, secondo noi, da considerare una delle forme della contestazione di Bataille contro l’autorità, ovvero una delle forme del suo pensiero che si mostrano strettamente correlate all’ “esigenza” e al “compito” politici che la sua ricerca ha incarnato.

b) La duplicità della negazione in Hegel

L’episodio della fotografia del suppliziato cinese, tuttavia, ci riporta anche al confronto serrato di Bataille con la dialettica hegeliana, e, nello specifico, a uno degli snodi cruciali di tale confronto, incentrato sulla connessione possibile tra pensiero e pratica sacrificale. Per enucleare opportunamente quanto l’autore francese afferma di tale connessione in riferimento a Hegel portiamo la nostra attenzione su due articoli di grande densità, che tra loro sono quasi contemporanei: Hegel, la mort et le sacrifice, apparso nell’ottobre del 1955 sulla rivista «Deucalion», e Hegel, l’homme et l’histoire, pubblicato su «Monde nouveau-Paru» nel gennaio del 1956. Dopo poco più di un decennio dalla stesura di L’expérience intérieure, e in concomitanza con l’elaborazione di La souveraineté, Bataille torna dunque nuovamente all’opera di Hegel. A indurlo a questo nuovo ordine di riflessioni sulla Fenomenologia non è solo il tentativo di proporre una tematizzazione più compiuta di quegli aspetti del pensiero hegeliano che egli considera di particolare rilievo ma è anche l’intento di esplicitare le ragioni per cui, rispetto al sistema fenomenologico, la sua concezione della “sovranità” si situa precisamente nel suo aldilà.

Entrando nel dettaglio della questione ora in esame, Bataille pone l’accento su un passaggio enigmatico della prefazione della Fenomenologia dello Spirito, passaggio su cui non ha smesso di interrogarsi nel corso di tutta la sua riflessione: «Lo Spirito ottiene la sua

verità solo trovando se stesso nella dilacerazione assoluta. Esso è questa potenza [prodigiosa] non in quanto positivo che si distoglie dal Negativo [...]; no, lo Spirito è questa potenza solo nella misura in cui contempla bene-in-faccia il Negativo [e] si sofferma presso di esso»221.

Dall’assunzione del dato essenziale secondo cui a determinare la verità dello Spirito è la «dilacerazione assoluta» conseguente al suo soggiornare presso il negativo, Bataille matura una sua interpretazione peculiare della “Negatività” in Hegel. Egli, infatti, giunge a ritenere che gli esseri umani abbiano negato in se stessi l’animalità non soltanto attraverso l’Azione negatrice che, come Alexandre Kojève ha messo in evidenza nella sua Introduction à lecture de Hegel, nientifica l’ente naturale mediante la manipolazione e l’accaparramento. Avvalendosi di alcune dichiarazioni hegeliane presenti nella Filosofia dello spirito jenese, Bataille attribuisce la negazione della Natura anche, e innanzi tutto, all’ «introduzione in essa, come un rovescio, [del]l’anomalia di “un Io personale puro”. Quest’ “Io personale puro” è presente in seno alla Natura come una notte nella luce, come un’intimità nell’esteriorità delle cose che sono in sé, le quali, come tali, non possono sviluppare la ricchezza dell’opposizione dialettica. Quest’intimità è quella della morte, l’ “Io personale puro” oppone alla presenza stabile della Natura la disposizione imminente che fin dall’inizio è il significato profondo della sua apparizione»222.

Dunque, accanto alla negatività della prassi materiale, che, conformemente alla lettura kojèviana della Fenomenologia, fonda la realizzazione degli esseri umani in quanto libertà e svolgimento storico, secondo Bataille sussiste anche una negatività dell’ «Io personale puro» che «nullifica» la natura, «come un’intimità nell’esteriorità», attraverso

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una morte esposta senza alcuna mediazione alla coscienza. Come ha messo in evidenza Aldo Masullo, in questo punto della sua analisi Bataille si discosta significativamente dalla convinzione di Kojève secondo cui «lo Hegel della Fenomenologia rinnega lo Hegel dei frammenti jenesi»223. Difatti, pur rintracciando nel testo jenese della «notte della conservazione» il romanticismo fondamentale di Hegel, Bataille non si allinea alla lettura proposta dal suo maestro e mostra di considerare tale scritto assolutamente coerente con gli esiti successivi del filosofo tedesco. Di conseguenza, in virtù del suo approccio all’opera hegeliana, egli scorge una duplicità fondamentale della negazione, che, dopo essersi rivelata per la prima volta all’origine della storia umana, ne ha poi costituito e contraddistinto il suo divenire attraverso un movimento che, a sua volta, si mostra costantemente «duplice»224.

Sulla base di quanto appena messo in luce, concordiamo con Felice Ciro Papparo nell’attribuire all’intuizione della «duplice modalità ‘néantifiant’ la Natura»225

un valore assolutamente fondamentale per la comprensione dell’impostazione teorica adottata da Bataille. Essa, infatti, si rivela tanto la chiave di volta del confronto che egli ha intrattenuto con il pensiero hegeliano, quanto il presupposto fondamentale dell’articolazione dialettica che determina e configura il movimento peculiare di tutta la sua riflessione. A questo riguardo riportiamo estesamente le osservazioni che Papparo propone in merito a tale duplicità della negazione in Bataille: «La prima si situa sul piano della coscienza, l’altra, viceversa, è la ‘messa in opera’ fuori-di-sé della negatività che mette capo alla costruzione del mondo storico. [...] Ora queste due modalità vengono da Bataille denominate l’una ‘campo’ della Poesia, l’altro, dell’Azione. [...] Ma è opportuno precisare che quello 223 P. Ix 224 225

dell’ “agire” è, in realtà, per Bataille niente altro che un modo determinato, nel senso di una negazione determinata, del “poetico”: è, potremmo dire, il poetico solidificato, la prosa del mondo che si statuisce quando la negatività viene ‘imbrigliata’ e direzionata verso la produzione oggettiva. Ora se si fa attenzione al vocabolario batailleano relativo alla soggettività, ai termini che usa per ‘definirla’: glissement, évanouissement e décheriment, si vedrà [...] che essi sono l’esatto rovescio dei termini fenomenologici utilizzati da Hegel per definire l’Arbeit: questo, infatti, è appetito tenuto a freno, dileguare trattenuto, ovvero messa in forma, e, solo in questo ‘spazio duraturo’ che ‘lega’ l’istante nella direzione del ‘futuro’ si dà la possibilità per Hegel, del sorgere di un mondo storico. Ma il nucleo che rende possibile passare alla dimensione dalla dimensione lavorativa, quel “puro Niente” che “rode dal didentro” l’uomo continua ad esserci, ed è a questa dimensione ‘silenziosamente attiva’ che Bataille dedica la sua attenzione»226.

Riconducendo la dimensione dell’ “informe”, che abbiamo già tematizzato durante la nostra analisi, a queste affermazioni di Papparo, possiamo ora riconsiderarla alla luce della lettura batailleana di Hegel e, quindi, comprendere che essa è una delle manifestazioni tangibili di quel “rovesciamento” della “messa in forma” della realtà che, sul piano del linguaggio, è ‘operato’ dalla «Poesia». Si consideri a tale proposito che secondo Bataille il campo della poesia, come più in generale quello di tutte manifestazioni artistiche, costituisce l’olocausto della forma linguistica. Come abbiamo già accennato durante l’analisi dello scritto su René Char, secondo il pensatore francese, la parola poetica, quando non è contaminata da altri fini, adultera la continuità e l’uniformità della prosa e ne azzera qualsiasi mira di carattere utilitaristico o progettuale. Ci

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