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“Uno slancio per la democrazia europea”

La presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha nominato una vicepresidente alla democrazia e alla demografia, con l'obiettivo di avviare un dibattito pubblico su come far fronte all'invecchiamento della popolazione europea e all’esodo della popolazione più giovane da alcune aree dell’Ue, prevalentemente – ma non esclusivamente – localizzate nella parte orientale dell’Unione. Questo si riflette nell’obiettivo 36 del programma di lavoro. Inevitabilmente questo dibattito si intreccia con un’altra delle priorità che la Commissione si è data, quella cioè di addivenire a una nuova politica europea in materia di immigrazione (obiettivo 32), così da "rafforzare le nostre frontiere esterne per consentirci di tornare a uno Schengen perfettamente funzionante" e di

"investire nelle nostre partnership con i Paesi di origine per migliorane le condizioni e crearvi opportunità”.

Il legame che intercorre tra declino demografico (obiettivo 36) e immigrazione sembra scontato e ha indotto non pochi ad affermare che sono necessari nuovi migranti per preservare il modello sociale europeo. In realtà, il recente rapporto della stessa Commissione europea sul futuro demografico dell'Ue arriva a conclusioni diverse, enfatizzando come la crescita della percentuale di coloro che sono attivi costituisca una risposta più efficace al declino demografico dal punto di vista economico. In quasi tutte le economie avanzate (anche se non in Italia) il tasso di occupazione degli immigrati è inferiore a quello dei nativi; a lungo termine, inoltre, gli immigrati invecchiano e uniformano i comportamenti riproduttivi a quelli prevalenti nel Paese ospitante. Inoltre, lo studio della Commissione europea sottolinea come occorra almeno un ventennio prima che un eventuale rialzo del tasso di fecondità migliori il rapporto tra popolazione attiva e popolazione totale, mentre è chiaro che un aumento del tasso di partecipazione al mercato del lavoro avrebbe effetti positivi immediati. Questo richiede politiche che facilitino la conciliazione del lavoro con la vita familiare, un adeguamento delle conoscenze e competenze dei lavoratori e nuovi strumenti di garanzia individuale associati all’accesso delle persone al mondo del lavoro. È altresì importante ridurre la pressione umana su beni e servizi pubblici soggetti a congestione, che contribuisce ad alimentare

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risentimenti tra fasce della popolazione. Facilitare l'accesso dei giovani a lavori dignitosi porterebbe probabilmente in Italia a una ripresa del tasso di fecondità, soprattutto se a ciò si accompagnasse una maggiore disponibilità di servizi a buon mercato per le giovani famiglie.

L’Italia, insieme alla Grecia e alla Spagna, ha rappresentato negli ultimi 30 anni un’anomalia nella storia dei fenomeni migratori, avendo attratto un numero sostanzioso di migranti pur essendo strutturalmente caratterizzata da un tasso di occupazione molto basso, risultato di un tasso di disoccupazione (in particolare giovanile) persistentemente elevato e soprattutto da un’alta percentuale di persone che restano fuori dal mercato del lavoro. In Italia questa anomalia si accompagna da anni a una quasi-stagnazione economica e a un tasso di fecondità tra i più bassi del mondo. È evidente come sia auspicabile un cambiamento in questo andamento e le politiche sovranazionali, nazionali e locali possono contribuire a ciò: da un lato appare importante incidere sull’andamento demografico e sull’invecchiamento attivo (obiettivo 36), dall’altro sembra utile innalzare la produttività del lavoro, sia dei nativi sia dei migranti. Questo richiede investimenti sulle persone (lavoratori e persone fuori dal mercato del lavoro), ma anche sulle imprese: questo non solo nelle tecnologie digitali (obiettivo nel programma della Commissione), ma più in generale di capitale tangibile e intangibile utile a migliorare la produttività. L'economia italiana non può rimanere lungo la sua attuale traiettoria caratterizzata da un gran numero di piccole e piccolissime imprese a bassa produttività, con relativamente poche imprese tecnologicamente avanzate e un mercato del lavoro altamente dualistico. In questo senso, distinguere e trattare separatamente gli obiettivi sociali ed economici della Commissione europea è un esercizio rischioso, anche quando applicato a livello locale. Meglio un approccio olistico alla formazione, all’innovazione, alla ricerca, alla protezione sociale e all’attrazione dei cosiddetti “cervelli”.

Solo in un quadro di rilancio dell’economia, di crescita della produttività, di integrazione di tutti coloro che già risiedono in Italia (nativi e stranieri) e sono fuori dall'economia formale, e di inversione del declino demografico appare quindi sostenibile l’obiettivo di conseguire una maggior protezione sociale, una maggior inclusione sociale e una minor disuguaglianza (obiettivo 18). Questo richiederà, a tutti i livelli di governo, l'attuazione di costose politiche di inclusione e riduzione della povertà mirate ai lavoratori poveri e agli immigrati, anche per l’affacciarsi sul mercato del lavoro di immigrati di seconda generazione che hanno aspirazioni molto simili a quelle dei giovani nativi. E richiederà anche una regolamentazione ragionevole dei flussi migratori dei prossimi anni. Questo quadro richiede politiche coerenti e coordinate a tutti i livelli per non alimentare sentimenti di discriminazione e antagonismo sempre più forti. Un obiettivo che la Commissione europea si pone, ma che, come illustrato nella prima parte, difficilmente potrà essere conseguito se gli Stati membri non consentiranno all’Ue di adottare politiche condivise o maggior coordinamento. Il rischio, oltre che sociale e politico, è che tali atteggiamenti di risentimento e discriminazione possano attecchire anche nei confronti di altri cittadini europei. Segni di questo fenomeno sono già visibili nel Regno Unito e in alcuni Paesi dell’Europa dell’est.

Un maggiore impegno nei confronti dei Paesi in via di sviluppo (e in particolare nei confronti dei Paesi sub-sahariani) è urgente da parte dell’Ue, anche se esso non potrà ridurre da solo la pressione migratoria proveniente da questi Paesi. Teoria ed evidenza empirica indicano che lo sviluppo socio-economico, in Paesi a basso e bassissimo reddito come quelli dell'Africa sub-sahariana, aumenta il numero delle persone che aspira a emigrare e ha la capacità di sostenerne il costo. Essenziale è assistere i governi dei Paesi africani affinché adottino efficaci politiche per accelerare la transizione

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demografica e per ripristinare un sistema capace di conciliare diritto di asilo, regolati flussi di immigrazione economica, pace sociale e integrazione dignitosa delle persone sul territorio europeo.

Una delle sfide più rilevanti che l’Europa si trova a fronteggiare è anche quello dell’integrazione culturale degli europei che include da un lato la necessità di consolidare un nucleo di valori europei condivisi e dall’altro una migliore integrazione dei migranti, particolarmente quelli giunti in Europa in anni recenti. Vi sono molti modi per perseguire questi obiettivi e tra questi vi è l’opportunità di un migliore coinvolgimento della società civile, sia attraverso le organizzazioni rappresentate in reti che hanno una presenza a livello europeo, sia attraverso le organizzazioni che lavorano solo a livello locale.

La Commissione europea ha promosso nel tempo varie iniziative per sostenere il dialogo interculturale, particolarmente mediante il sostegno a organizzazioni della società civile che si occupano di intercultura, quali la piattaforma per il dialogo interculturale e, ora, la European Cultural Foundatione il programma Cultura. Negli ultimi anni un importante settore d'intervento è stato il dialogo con la comunità Rom, una delle principali minoranze d'Europa. Oltre a promuovere diversi progetti e iniziative, la Commissione europea si è dotata di una piattaforma che offre informazioni su come combattere le discriminazioni etniche in vari ambiti e come accedere a fondi specifici per questo scopo. La Commissione intende continuare a offrire sostegno per promuovere il dialogo interculturale e questa azione è parte del programma di lavoro (obiettivo 37). Nonostante un ampio consenso su questi obiettivi, i nuovi sforzi coesistono con nuove resistenze a migliorare il dialogo interculturale in molti Paesi dell'Ue. Diversi sono infatti i fattori che limitano il dialogo interculturale.

Come evidenziato dal Parlamento Europeo nel 2016, tra le dinamiche che limitano la capacità delle società europee di relazionarsi in modo costruttivo alla sfida della crescente diversità, si devono considerare le "sfide legate alla globalizzazione, alla migrazione, ai conflitti religiosi e interculturali e all'ascesa del radicalismo".3 Concetti chiave come "dialogo interculturale", specie quando applicati a una costruzione politica come l'Ue che è per definizione un tentativo di integrare diverse culture nazionali, non hanno una gamma di applicazioni ovvia e universalmente concordata, ma prendono vita e acquisiscono rilevanza in settori politici specifici. Il concetto di ‘interculturalismo’ rischia di diventare, in alcune sue declinazioni, persino uno strumento di segregazione e diseguaglianza.

Questo rischio si era già manifestato diversi anni fa quando, ad esempio, Ksenija Vidmar-Horvat osservava nel 2012 che il paradigma europeo del dialogo interculturale è diventato principalmente definito in relazione al concetto di "cultura europea" e in questo contesto è stato circoscritto e utilizzato per adattarsi all'interpretazione dei principali eventi geopolitici che hanno reso l'Europa sempre più focalizzata sulla ricerca della sua specificità culturale. Le sfide culturali relative all'allargamento dell'Ue a est nel 2004 e i processi di globalizzazione e le sue ripercussioni identitarie hanno inciso sullo smarrimento culturale, acuito dalla distruzione di tessuti culturali precedentemente omogenei. Appare quindi evidente che, senza un impegno autentico dei cittadini nei confronti del dialogo interculturale, nessun programma istituzionale può avere successo.

Ecco dunque l’importanza di chiarire i modi in cui la società civile può contribuire nel promuovere il dialogo interculturale, partendo da come il personale delle organizzazioni della società civile auspica

3 EUROPEAN PARLIAMENT 2016. Resolution of 19 January 2016 on the role of intercultural dialogue, cultural diversity and education in promoting EU fundamental values. OJ C 11, 12.1.2018, p. 16–23.

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ciò avvenga. La società civile organizzata comprende una vasta gamma di forme organizzative (ONG, gruppi di pressione, gruppi di esperti, movimenti sociali più o meno istituzionalizzati e organizzazioni di auto-aiuto, istituzioni senza fini di lucro, società cooperative e imprese sociali). Queste sono interposte tra lo stato e la società e collegano le due entità, formando un'ecologia associativa in cui le caratteristiche distintive di ciascuna organizzazione integrano e completano quelle di altre.

Piuttosto che differenziare le organizzazioni in base al tema di interesse, appare opportuno in questo documento fare una distinzione tra quelle orientate principalmente alla fornitura di servizi, quelle focalizzate sulla advocacy e quelle che si rivolgono alla sfera pubblica. Queste aree di specializzazione definiscono la natura, le opportunità e i limiti delle diverse componenti della società civile.

Per quanto riguarda la fornitura di servizi, viene notato spesso che benché le organizzazioni governative internazionali richiamino frequentemente l’educazione interculturale come uno strumento per una migliore comprensione tra diverse nazioni europee e anche per la lotta all’etnocentrismo, i fondi disponibili per queste tematiche sono spesso insufficienti. In modo particolare, il ruolo centrale dell’educazione interculturale per l’acquisizione delle competenze utili a vivere insieme con - e non nonostante - le differenze culturali appare cruciale. Per quanto riguarda l’advocacy, le organizzazioni della società civile effettuano pressione sui decisori pubblici per promuovere politiche attente ai bisogni e ai valori di culture europee, particolarmente quelle diverse da quella maggioritaria o poco rappresentate nelle arene politiche convenzionali. Questi includono in particolare migranti e rifugiati, ma anche minoranze culturali come la popolazione Rom, o discussioni sull’antisemitismo. Queste organizzazioni lamentano che il loro coinvolgimento nel processo politico è ad hoc, episodico e poco strutturato. Infine, le organizzazioni della società civile sono spesso promotrici di campagne di sensibilizzazione culturale orientate a tutta la popolazione europea o a gruppi sociali etnicizzati e tese a promuovere iniziative antidiscriminatorie, anche congiuntamente con le istituzioni dell'UE. Queste iniziative di collaborazione tra organizzazioni e istituzioni sono lodevoli; una loro estensione e continuazione appare la raccomandazione naturale da dare.

Le organizzazioni della società civile rappresentano una risorsa utile per le autorità, non solo una controparte dialettica. Esse possono essere particolarmente efficaci quando si tratta di politiche trasversali, ovvero di politiche in cui determinati principi chiave devono essere "integrati" in tutto il quadro politico dell'Ue. Questo è il caso di politiche come la politica di uguaglianza di genere, la politica ambientale e anche la politica interculturale, che consentono di costruire coalizioni tra gruppi con finalità simili ma in differenti settori. Nonostante le diversità tra i diversi tipi di organizzazioni, molte condividono le difficoltà illustrate in precedenza. La raccomandazione alle autorità locali è di comprendere il possibile ruolo dei vari attori e riportare le loro difficoltà ad altri ambiti delle istituzioni europee per dare compimento a un più inclusivo e condiviso concetto di cittadinanza europea.

Nel suo programma la Commissione europea include un obiettivo relativo allo Stato di Diritto (rule of law), riconoscendone l’importanza. L’integrazione europea è infatti basata sull’integrazione giuridica e il principio dello Stato di Diritto è un elemento essenziale dello stesso DNA dell’Ue che da decenni viene definita come “comunità basata sul diritto” dalla stessa Corte di Giustizia europea (sentenza Les Verts). Pertanto, il principio dello Stato di Diritto non è solo uno dei principi fondamentali comuni agli Stati membri, ma fra quei principi è il più importante in quanto

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strutturalmente necessario per il funzionamento del diritto UE attraverso il suo effetto diretto negli Stati membri e la sua supremazia nei confronti di diritto nazionale contrastante. Anche i giudici negli Stati non sono soltanto giudici nazionali, ma operano in una veste europea applicando il diritto UE, in quanto il loro sistema nazionale fa parte del sistema integrato europeo. Proprio il mutuo riconoscimento dei sistemi giuridici e giudiziari diversi e la fiducia e l’affidamento nella loro equivalenza hanno permesso l’integrazione europea dei sistemi giuridici e giudiziari nazionali. Oggi, il principio dello Stato di diritto è riconosciuto come valore fondante dell’UE all’art. 2 TUE dopo la sua proiezione esterna nell’ambito dell’allargamento dell’Unione, come parte dei cosiddetti criteri di Copenaghen. Le esperienze degli allargamenti del 2004 e del 2007 nonché la creazione dello spazio di Libertà, Sicurezza e Giustizia hanno portato a una maggiore enfasi sui capitoli 23 e 24 relativi allo Stato di Diritto e durante i negoziati per l’adesione. Le recenti proposte del Presidente francese Macron nell’ottobre 2019 e della Commissione Europea – DG Near del 5 febbraio 2020 sottolineano ancora una volta l’importanza e la priorità di tale principio: nelle proposte, lo Stato di Diritto, una fra sei macro-aree in cui sarà ri-strutturato l’intero processo di preparazione all’allargamento, diventerà la cartina di tornasole di tale processo.

Nonostante l’importanza dello Stato di Diritto, la fragilità di tale costruzione è rivelata, per esempio, dalle difficoltà crescenti nell’ambito della giustizia penale (in particolare con il mandato d’arresto europeo e le relative reazioni di diverse Corti costituzionali) e, in alcuni Stati membri, a causa di interferenze politiche volte a limitare l’indipendenza della giustizia e dei magistrati, che è un pilastro fondamentale del principio dello Stato di Diritto (e della fiducia reciproca fra Stati membri).

Pur riconoscendo l’importanza di superare i problemi osservati in questi anni, nella Comunicazione della Commissione europea non sembra esservi piena contezza di come tutto il programma di lavoro impatti sulla nozione di rule of law. Il riesame della governance economica, che influisce sui processi normativi e democratici, sia dell'Unione che degli Stati membri; l'azione in materia di diritti umani e democrazia nelle relazioni esterne; il nuovo patto sulla migrazione e l'asilo; il controllo attraverso un nuovo meccanismo per lo Stato di diritto; la definizione di un nuovo approccio "one in, one out"

per gli oneri amministrativi. Pur rientrando in ambiti diversi, tutti questi impattano sulla nozione di rule of law, sia nella dimensione interna sia in quella esterna dell'Unione, e comportano delle lacune importanti nella strategia "ambiziosa" della Commissione. In alcuni casi la discussione si protrae da anni, con forti resistenze sia a livello delle istituzioni europee sia nazionali. Sebbene sia evidente la ragione che porta la Commissione a non arretrare sull'indiscutibilità e centralità della rule of law, la democrazia e i diritti umani, se né la Commissione, né le altre istituzioni europee riescono a trovare strategie efficaci su molte partite importanti, e in alcuni casi si verificano (almeno da un punto di vista fattuale) arretramenti seri, questo non può che danneggiare la legittimazione e la capacità persuasiva dell'Unione, sia internamente sia verso l'esterno.

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