Una volta indicato quello che, a parere di dottrina e giurisprudenza, risulta essere il “nuovo ruolo”147 del giudice dell’esecuzione, le Sezioni Unite hanno offerto la soluzione al non facile, date le premesse suesposte, caso concreto.
La Corte parte dagli spunti suggeriti dalla sentenza Jazouli148, nella quale è stato chiarito che la pena comminata dal
giudice anche a seguito di patteggiamento, sulla base della normativa oggetto di declaratoria di incostituzionalità, pur rientrando nei limiti edittali della disciplina tornata in vigore, non può più esprimere un consono giudizio di responsabilità, essendo stata computata in virtù di riferimenti illegittimi, irrispettosi (n.r.d. adesso), ed è quindi da considerarsi illegale. Al centro del problema, quindi, non è tanto la pena in sé per sé considerata, quanto piuttosto, il fatto che sia venuta ad esistenza all’esito di un procedimento di commisurazione giudiziale fondato su ranges edittali da reputarsi come mai venuti ad esistenza.
Così argomentando, le Sezioni Unite aderiscono alla giurisprudenza maggioritaria149, il quale sostiene che un accordo, pur formalmente valido, perde di efficacia, dal
147 Molti in dottrina utilizzano questa locuzione tra cui G. Canzio, La giurisdizione e la
esecuzione della pena, 26 aprile 2016, in www.penalecontemporaneo.it, p. 1 ss.
148 Cass. pen., Sez. Un. 26 febbraio 2015, n. 33040, Jazouli.
149 Ex plurimisi Cass. pen., Sez. V, 15 dicembre, in CED 262943.; Cass. pen. Sez. Fer., 26 agosto 2014, Youssef, in CED 261468.
momento che è comunque teso a dare esecuzione ad una pena illegittima, non essendo in ciò rilevante la volontà degli interessati. È la sanzione stabilita dalle parti a comportare l’illegittimità dell’accordo, pertanto si impone una sua rinnovazione.
In prima battuta la Cassazione nelle singole sezioni era dell’idea che non può aversi lo stesso esito, invece, nel caso in cui la sentenza di patteggiamento sia divenuta irrevocabile, dal momento che in questo caso il vizio non si propaga a tutto il titolo esecutivo che rimane perfettamente valido, ma solo sul
quantum di pena stabilito, restando ormai cristallizzato sia
l’accertamento del fatto, sia la determinazione giuridica di quanto concordato tra le parti150, in quanto il giudicato, come
più volte affermato, è flessibile solo dal lato della determinazione quantum di debito punitivo.
Per argomentare le proprie conclusioni in Supremo consesso fa, altresì, leva sull’art. 188 disp. att. al c.p.p., il quale consente al giudice dell’esecuzione di ricalcolare la pena patteggiata allorché debba riconoscere la continuazione o il concorso formale151.
150 Così Cass. pen., Sez. I, 4 dicembre 2014, Schettino, in CED 261581.
151 In senso contrario all’ammissibilità dell’utilizzo in via analogica del 188 disp. att. al c.p.p., cfr. G. Riccardi, Giudicato penale e “incostituzionalità” della pena. Limiti e
poteri della rideterminazione della pena in executivis in materia di stupefacenti, in www.penalecontemporaneo.it, 26 gennaio 2015, p. 20.
11. (segue) La base normativa dei poteri di rideterminazione del giudice.
Nella giurisprudenza sono presenti due orientamenti riguardo al percorso che il giudice dell’esecuzione può intraprendere, e gli strumenti che può utilizzare, per riportare la pena ad aequitatem.
La prima ricostruzione è quella che propone l’utilizzo di un criterio matematico-proporzionale, che, molto semplicemente, consiste nel ricalcolare la pena da espiare in base alla nuova cornice edittale, comminando una sanzione che, in via proporzionale, corrisponda a quella inflitta in prima battuta. In questo modo sono fatte salve le valutazioni eseguite in sede di cognizione, in riferimento ai parametri utilizzati ai sensi dell’art. 133 c.p.p. e, anche, l’eventuale variazione del
quantum di pena irrogata in forza dell’applicazione di
attenuanti o aggravanti. Viene così, inoltre, ridotta al minimo la discrezionalità del giudice dell’esecuzione, a tutto vantaggio della granitica stabilità del giudicato152.
In maniera diversa, il secondo orientamento, riconosce una maggiore libertà del giudice dell’esecuzione nel calcolo del debito punitivo; libertà che deve pur sempre essere esercitata nel rispetto di quanto previsto agli artt. 132 e 133 c.p.p. e,
152 Così, Cass. pen., Sez. I, 25 dicembre 2014, Riva, in CED 261221; Cass. pen., Sez. I, 18 novembre 2014, Cassia, in CED 52980.
inoltre, nel rispetto del, sempre presente, divieto assoluto di afflizione di una pena più grave di quella che si va a sostituire. Per questa strada, la rideterminazione della pena, sarebbe un’attività esclusiva del giudice, senza nessuna rilievo delle parti; giudice che poi, dovrebbe motivare la sua decisione illustrando i criteri adoperati.
Nel caso Marcon, le Sezioni Unite, sembrano non abbracciare nessuna delle due tesi su esposte; riguardo alla prima, il metodo proposto finisce per privare la pena del suo connotato della individualità tanto per il computo delle circostanze, quanto per pericolo di non tenere conto della personalità del reo e della gravità dei fatti accaduti, in relazione alla rediviva cornice edittale. Per quanto riguarda la seconda teoria, la Corte la respinge in ragione del fatto che, rimettendo al giudice ogni valutazione, si finirebbe per svilire tutta la ratio sottesa all’istituto del c.d. patteggiamento.
È dunque offerta, una terza soluzione, differente solo in maniera parziale dalle suesposte. La Corte individua la fonte di legittimazione del potere del giudice nell’art. 188 disp. att. c.p.p., norma che, come l’art. 671 c.p.p., disciplina fattispecie affatto peculiari, tanto da porsi come norme speciali153. Il fine cui mirano ambedue le disposizioni richiamate, è quello di assicurare la giusta pena da espiare al condannato, nella fase esecutiva, in modo particolare, la prima delle due, deve la sua specialità al fatto di rivolgersi all’ipotesi della pronuncia di
patteggiamento divenuta irrevocabile. Nonostante la diversità del quesito posto al vaglio della Suprema Corte, a parere di questa, è l’inerzia del legislatore ad imporre un’interpretazione estensiva della disposizione. In effetti, come è stato più volte sostenuto, in un sistema processuale rigido, ormai inidoneo a rispondere alle istanze provenienti da più lati, è compito della giurisdizione farsi carico di questi problemi e, sfruttando le pieghe del tessuto normativo, trovare la soluzione più conveniente, negli spazi operativi lasciati dalla disciplina vigente.
Quindi, nel caso concreto (c.d. “caso Marcon”), a parere della Corte, le parti devono presentare al giudice dell’esecuzione un nuovo accordo teso a sostituire il vecchio venuto ad esistenza sulla base di una normativa illegittima; inoltre, la proposta di patto,in mancanza di accordo, può alternativamente provenire dal reo dal pubblico ministero, date le sue funzioni.
Parte della dottrina è inoltre del parere che « se per effetto della rideterminazione del debito punitivo, la pena possa essere sospesa, rientrando nei parametri di legge, e le parti abbiano presentato una istanza in tal senso, il giudice dell’esecuzione può emettere il relativo provvedimento, sebbene la norma nulla stabilisca espressamente sul tema »154. A
sostegno di una tale tesi è presente altresì la pronuncia delle Sezioni Unite nel caso Catanzaro155, che proponeva un identico
154 In questi termini, B. Nacar, op, cit., p. 4.
percorso in ordine all’applicabilità in via analogica dell’art. 673 c.p.p.
Inoltre, si osservi come dottrina e giurisprudenza concordino sul fatto che, ogniqualvolta è previsto dalla legge che ad un giudice sia demandate una determinata funzione, è implicito in ciò che siano altresì concessi i poteri necessari per svolgerla; in questa maniera è stata sconfessata la tesi della tipicità dei poteri del giudice dell’esecuzione, ma andando ancora oltre, in giurisprudenza si ammette la possibilità, per questi, di effettuare valutazioni di merito, dove ciò risulti assolutamente necessitato da esigenze di giustizia.
Il ragionamento enucleato dalla Corte sembra inattaccabile, la sua ricostruzione, tuttavia, inizia a scricchiolare quando essa prende posizione sull’eventualità che il nuovo patto non sia ritenuto congruo dal giudice. Invero, in questo evenienza, a detta della Corte di Cassazione, sarebbe compito del giudice dell’esecuzione rideterminare la pena in maniera autonoma; questo nonostante il silenzio su tale aspetto dell’art. 188 c.p.p. e, soprattutto, a grande detrimento della ratio sottesa all’istituto del c.d. “patteggiamento”. La soluzione è giustificata dal fatto che, nel caso il giudice si limitasse a rigettare l’accordo, ciò comporterebbe il perdurare dell’esecuzione di una pena illegittima.
Nel proseguo della motivazione, Le Sezioni Unite, sembrano consapevoli dei dubbi che una tale impostazione può sollevare, infatti, prima criticano la soluzione offerta dalle
singole sezioni che era nel senso della massima discrezionalità del giudice nella rideterminazione, poi però, ammette in seguito che il giudice possa agire ex officio se dissenziente, in pratica andando a contraddire le proprie premesse156.