• Non ci sono risultati.

IL NUOVO VOLTO DELLA GIURISDIZIONE “IN EXECUTIVIS” Tra crisi di identità e prospettive di riforma

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "IL NUOVO VOLTO DELLA GIURISDIZIONE “IN EXECUTIVIS” Tra crisi di identità e prospettive di riforma"

Copied!
144
0
0

Testo completo

(1)

INDICE

INTRODUZIONE 5

CAPITOLO I

L’ESECUZIONE PENALE:

EVOLUZIONE STORICA

Premessa 8

1. L’esecuzione della pena nel codice di rito del 1930 (natura amministrativa) 10 2. Il giudice degli incidenti sul titolo nel codice 1930 12 3. Dalla Costituzione alla legge di riforma penitenziaria 21 4. La legge-delega c.p.p. del 1974 27 5. (Segue). La legge-delega del 1987 32 6. L’assetto dell’esecuzione penale nel nuovo codice di

(2)

CAPITOLO II

GIUDICATO E TUTELA DEI DIRITTI

UMANI

Premessa 43

1. L’antecedente logico 45

2. La risposta della dottrina… 47

3. ...e quella della giurisprudenza 49

4. I “fratelli minori” di Scoppola 51

5. La sentenza Corte Cost. 210/2013 54

6. (Segue) Il precipitato delle Sezioni Unite, il ruolo del giudice dell’esecuzione 58

7. L’interpretazione convenzionalmente conforme: rapporti tra fonte interna e fonte internazionale 60

8. Riflessioni sull’atteggiarsi dell’interpretazione convenzionalmente conforme 63

9. Una soluzione “convenzionalmente” conforme 66

(3)

CAPITOLO III

PENA ILLEGALE E INTANGIBILITÁ

DEL GIUDICATO

Premessa 74

1. Il “mito” del giudicato 76

2. L’istituto dell’”abolitio cirminis” e le sue nuove latitudini 78 3. Differenza tra abrogazione delle leggi nel tempo e declaratoria di incostituzionalità 82

4. La voce delle Sezioni Unite, la sentenza “Gatto”, l’applicabilità del 30 comma 4 l. n. 87/1953 86

5. I due piani del giudicato penale 90

6. La sentenza Corte costituzionale n. 32 del 2014 93

7. Due concezioni di pena illegale 95

8. Nei casi di patteggiamento. Le Sezioni Unite a febbraio del 2015 Marcon 101

9. (Segue) Le ragioni delle sezioni unite 102

10. La soluzione del caso concreto 106

11. (Segue) La base normativa dei poteri di rideterminazione del giudice 108

12. Lo strumento per la rimodulazione della sanzione 112

CONCLUSIONI E PROSPETTIVE

117

APPENDICE

Cronologia giurisprudenziale

129

BIBLIOGRAFIA

138

(4)
(5)

INTRODUZIONE

Uno dei pilastri intorno a cui ruotano le scelte politiche di un sistema giuridico è rappresentato senza ombra di dubbio dal giudicato, il quale regola un non facile bilanciamento tra interessi contrapposti. La presa di coscienza del suo sviluppo, permette di meglio inquadrare le tematiche del presente lavoro, da cui oggettivamente emerge quello che oggigiorno è il ruolo dei giudici, i quali esercitano sempre più una funzione di supplenza di fronte all’inerzia del legislatore, con entusiasmo forse talvolta eccessivo1.

Si parla del contrasto tra lo storico e cristallizzato mito del “dictum” penale, legato al principio di intangibilità di una sentenza passata in giudicato, e il rispetto dei diritti fondamentali della persona (valore supremo consacrato nella Costituzione e nella CEDU). Tra la necessità di certezza dei rapporti giuridici, anche in ambito penale, è la non ignorabile istanza di legalità che permane l’esecuzione di una sentenza di condanna lungo tutto l’arco della sua espiazione2.

Un mito, quello del giudicato, che in prima battuta a cominciato a cedere con l’approvazione della Carta fondamentale – con il conseguente abbandono della logica

1 Sul ruolo attuale della magistratura cfr, Donini, Europeismo giudiziario e scienza

penale. Dalla dogmatica classica alla giurisprudenza-fonte, Giuffrè, 2011; Manes, Il ruolo “poliedrico” del giudice penale, tra spinte di esegesi adeguatrice e vincoli di sistema, in Cass. Pen., 2014, p. 1918; nonché V. Valentini, Continua la navigazione a vista, in www.penalecontemporaneo.it, 20 gennaio 2015.

(6)

dell’autorità statale e la concezione meramente retributiva della pena-, proseguito con le successive pronunce di incostituzionalità del Giudice delle Leggi che hanno avuto ad oggetto il previgente codice di rito; andato avanti nel 1988 con la previsione (nel “nuovo” codice di procedura penale) di ipotesi specifiche in cui il giudicato recede al cospetto di esigenze di giustizia sostanziale, fino al recente periodo in cui la la questione ha avuto un repentino scatto in avanti, con corrispondente arretramento del principio di intangibilità3.

Il costante attivismo nel campo dei diritti fondamentali della Corte costituzionale e della Cassazione, sempre più necessitato dall’incedere delle pronunce della Corte EDU, ha portato alla ribalta questioni problematiche che hanno reso impossibile il permanere di una concezione di giudicato intangibile in un sistema orientato alla massima tutela del cittadino.

L’innovativo indirizzo cui si faceva poc'anzi cenno, che ha finito per erodere ancora di più la graniticità del giudicato; si concretizza attraverso la giurisprudenza costituzionale recente che, nel dichiarare, in più occasioni, l’illegittimità di norme attinenti al solo aspetto sanzionatorio4 senza intaccare la parte

propriamente “incriminatrice”, ha finito per sollevare la questione di se e come consentire, a chi stesse subendo gli effetti di queste c.d. “pene illegittime”, di chiederne la revoca.

3 Vedi infra, cap. 1, par. 5 e 6.

4 Si fa riferimento al caso riguardante l’aggravante di “clandestinità”, a quello delle “droghe leggere”,vedi infra, cap 3.

(7)

Tutto questo si è andato a scontrarsi, appunto, con un sistema forse troppo rigido, refrattario a rimettere in discussione quanto statuito in una sentenza definitiva, la situazione poi è resa ancor più traumatica dall’assenza di uno strumento apposito e della ristrettezza dei poteri esplicitamente attribuiti al giudice dell’esecuzione, unico organo legittimato a poter incidere sulla sentenza definitiva.

L’enucleazione del concetto di pena illegale, la necessità (obbligo) di riportare la pena nell’alveo della legalità, la flessibilizzazione del giudicato, l’individuazione del giudice dell’esecuzione quale organo legittimato ad intervenire e l’ampiezza dei suoi poteri, sono tutti temi affrontati (e risolti) dalla giurisprudenza.

Il terreno dove queste tensioni hanno riverberato i loro effetti è, infatti, la fase esecutiva, protagonista di un’inarrestabile evoluzione verso una completa giurisdizionalizzazione. La ricognizione che segue consiste proprio nel cercare di dare un assetto organico e unitario a tematiche trattate spesso in modo separato.

(8)

CAPITOLO I

Esecuzione penale:

evoluzione storica

SOMMARIO: Premessa – 1. L’esecuzione nel codice Rocco, la natura amministrativa – 2. Il giudice degli incidenti sul titolo nel codice del 1930 – 3. Dalla Costituzione alla legge di riforma penitenziaria – 4. La legge-delega c.p.p. del 1974 – 5. (Segue) La legge delega del 1987 – 6. L’assetto dell’esecuzione penale nel nuovo codice di procedura penale

Premessa

Al centro del modello dell’esecuzione penale oggigiorno c’è, fuori di dubbio, la funzione rieducativa della pena5. Non è sempre stato così, infatti, l’attuale sistema è frutto di un mutamento di pensiero in seno al dibattito politico-filosofico sulla pena, in seguito alla caduta del regime fascista, percorso che, si sostiene, trovi il suo zenit nella proclamazione del principio rieducativo di matrice costituzionale cristallizzato nell’art. 27, 3° comma, della Costituzione italiana. È stato

5 AA. VV., Procedura penale del processo, in Omnia trattati giuridici vol. IV –

Impugnazioni. Esecuzione penale. Rapporti tra giurisdizioni con autorità straniere,

Utet, Milano, 2015, p. 604 ss.; G. Dean, Ideologie e modelli di esecuzione penale, Torino, 2004, 1 ss.; Gaito-Ranaldi, Esecuzione penale, Milano, 2005, 1 ss.

(9)

proprio con il nuovo articolato costituzionale, che si è sancito il definitivo abbandono dell’ideologia strettamente retributiva, che lo Stato aveva accolto, per l’esercizio del potere punitivo; di pari passo fu sorpassata l’idea dell’intangibilità del giudicato in senso stretto, la quale faceva da presupposto e corollario all’idea, appunto retributiva, della pena. In definitiva, furono

edificate le premesse per una progressiva

giurisdizionalizzazione della fase post rem iudicatam6.

Nel corso della storia, come è del resto noto, le vicende della materia esecutiva penale, sono strettamente legate alla concezione della pena abbracciata nell’ordinamento e, di volta in volta, tradotte da legislatore penale nell’impianto normativo-sanzionatorio. A tal proposito la dottrina afferma come la disciplina dell’esecuzione penale rifletta le scelte politico-legislative « operate a monte dal legislatore in ordine ad alcuni dei grandi temi del diritto e della procedura penale: le finalità attribuite alla pena in un caso, e le valenze assegnate al giudicato nell’altro caso, rappresentano […] due tra le più importanti variabili di fondo da cui finisco per dipendere natura, struttura e funzione della fase post rem iudicatam» 7.

6 In merito al processo di giurisdizionalizzazione della fase esecutiva penale, tra i molti vedi, F. Corbi, L’esecuzione nel processo penale, Torino, 1992, p.26 ss.; V. Cavallari, La giurisdizionalizzazione dell’esecuzione penale, in Carcere e società, a cura di M. Cappelletto – A. Lombroso, Padova, 1976, p. 44 ss.;G. Dean, Ideologie e

modelli dell’esecuzione penale, Torino, 2004, p. 1 ss.

(10)

1. L’esecuzione penale nel codice Rocco, la natura amministrativa

Nella vigenza del codice del 1930, la sanzione detentiva si risolveva nei fatti in un trattamento di carattere squisitamente punitivo, ciò in ossequio alla teoria della pena fatta propria dal magistero punitivo, spiccatamente orientata in senso retributivo e alla prevenzione generale8.(Il legislatore del 1930, affiancò

alle pene, le misure di sicurezza, nell’intento di risponde alle istanze di prevenzione generale che facevano da sfondo all’impianto sanzionatorio). In un siffatto sistema, non esistono spazi di alcun genere per interventi sul condannato, una volta esaurito il processo la pena irrogata doveva essere semplicemente eseguita.

Il precipitato, ma non di minor peso della premessa, di una tale visione ideologica della funzione della pena, è che il sistema processuale-penale degli anni 30 postulava, a sua volta, il principio dell’intangibilità del giudicato, inteso in maniera stretta: quest’ultimo, sancendo il definitivo esaurimento della vicenda processuale, rappresentava lo «strumento idoneo a realizzare l’imperatività della legge penale e la stabilità dell’accertamento giudiziario definitivo»9, sia sotto il profilo

8 In merito alla funzione della pena e le teorie connesse, tra i molti v, G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 2001, p. 660 ss.; G. Forti,

L’immane concretezza, Padova, 2007, p. 110 .

9 La citazione è di F. Callari, La firmitas del giudicato penale: essenza e limiti, Milano, 2009, p. 104, il quale evidenzia come, nel codice di rito del 1930, a differenza che nella codificazione precedente di stampo liberale, l’intangibilità del dictum penale giudiziale non rispondeva all’esigenza di tutelare la libertà dell’individuo, ma era

(11)

della tipologia, sia quanto alla durata della sanzione irrogata. In ossequio dei principi appena esposti, infatti, la sentenza irrevocabile di condanna non era suscettibile, nel corso dell’espiazione, di essere ridiscussa o essere oggetto di manipolazione, le uniche possibilità accolte all’epoca si risolvevano nel procedimento di revisione (art. 553 ss. c.p.p. 1930), o in meri provvedimenti clemenziali (grazia o indulto)10.

Una volta, dunque, conclusasi la controversia, con la statuizione irrevocabile, si passava all’esecuzione, essa si manifestava come una mera appendice del processo, il comando contenuto nel dispositivo veniva attuato, in conformità pedissequa ai limiti fissati nel provvedimento di condanna. Era un’attività esclusivamente materiale, esterna alla fase della cognizione, e in conseguenza di ciò, totalmente priva anche del più piccolo carattere di giurisdizionalità, in sostanza l’esecuzione penale si risolveva nel compimento di atti amministrativi11, la “gestione” della quale era affidata al pubblico ministero (esclusi casi esplicitamente previsti in cui era affidata al pretore, o al Ministro di grazia e giustizia), la cui appartenenza all’apparato amministrativo, nel vecchio sistema, è cosa nota. Questi era l’organo propulsore dell’esecuzione penale, il pubblico ministero assurgeva, quindi, a protagonista

volta alla realizzazione di un ideale di giustizia “ultraterreno” dalla forte connotazione paternalistica di cui lo Stato totalitario si faceva portatore.

10 Erano previste, inoltre, le ipotesi di differimento dell’esecuzione della pena (art. 146 e 147 c.p.p.) e di concessione della liberazione condizionale (art. 176 c.p.). Peraltro, il giudicato poteva del tutto venire meno nell’ipotesi di abolitio crimini ai sensi dell’art. 2, 2° comma c.p.

11 Sul carattere amministrativo del momento esecutivo, cfr. G. Bellavista, Lezioni di

diritto processuale penale Milano, 1965, p. 476 ss.; G. Leone, Trattato di diritto processuale penale, III, Napoli, 1961, p. 462.

(12)

indiscusso della stessa, come testimoniano le parole di Santoro: « quando la sentenza è pronunciata ed è divenuta definitiva, l’esecuzione è proposta dal [p.m.], ed è riservata peculiarmente agli organi dell’amministrazione »12. La disciplina codicistica attribuiva al pubblico ministero la competenza a provvedere d’ufficio in materia, affidandogli, con riguardo alle pene detentive, il compito di emettere il primo atto, l’impulso, dell’esecuzione, ossia l’ordine di carcerazione (art. 577 c.p.p. 190; 73 r.d. 30 gennaio1941 n.12).

2. Il giudice degli incidenti sul titolo nel codice del 1930

Lo svolgimento fisiologico della vicenda esecutiva, all’interno di determinati confini, vedeva anche l’intervento, variamente modulato, dell’organo giudiziario.

Da un lato, in ordine all’esecuzione in senso stretto, quella quindi che concerne il titolo esecutivo, era previsto l’intervento del giudice degli incidenti. Di tale soggetto, il codice di procedura del 1930 non dava definizione alcuna. L’unica previsione che lo riguardava era quella che stabiliva l’identità, tra il giudice che aveva deliberato un provvedimento e il giudice competente su tutti gli incidenti riguardanti l’esecuzione dello stesso (art. 628 c.p.p. 1930): la ratio di una siffatta previsione affondava le sue radici nel fatto che « tale

(13)

giudice [fosse] il più idoneo a risolvere la controversia alla quale la sua decisione p[oteva] dare luogo»13. Alla figura del

giudice degli incidenti, già presente nel previgente codice di procedura penale, era affidata, in prima battuta, una generica competenza a pronunciarsi, in maniera quindi incidentale, in tutti quei casi in cui fossero sollevate dalle parti interessate questioni “controverse” in ordine all’eseguibilità e/o la concreta portata in executivis di un provvedimento giurisdizionale: «fedele custode del giudicato egli ne forni[va] l’interpretazione autentica e rimuove[va] gli eventuali ostacoli alla sua pratica attuazione»14.

Si aggiungeva a tale generica previsione, con la conseguente difficoltà di segnare in maniera determinata e tassativa i casi di incidente, una competenza funzionale specifica dello stesso giudice, attribuitagli dal codice di procedura penale del 1930. Infatti, tali competenze, erano riconosciute con riguardo ad una serie eterogenea di materie, che, in virtù della loro importanza, erano specificatamente individuate e disciplinate: l’organo giurisdizionale era chiamato ad emettere la declaratoria di estinzione del reato o della pena (art. 578 c.p.p. 1930), ancora a pronunciarsi in punto di esecuzione di pene concorrenti e accessorie (art. 582 e 587 c.p.p. 1930), nei casi di dubbio sull’identità della persona condannata (art. 583 c.p.p.1930) e condanna per errore di nome (art. 584 c.p.p. 1930), sulla revoca, rispettivamente, della

13 In questi termini, A. Santoro, L’esecuzione penale, cit. , p. 395; cfr. anche con F. Corbi, L’esecuzione nel processo penale, cit., p. 253.

(14)

sospensione condizionale della pena, dell’ordine di non menzione della condanna nel certificato penale, della liberazione condizionale (art. 590 c.p.p. 1930), dell’amnistia, dell’indulto e della grazia condizionati (art. 596 c.p.p. 1930), della riabilitazione (art. 600 c.p.p. 1930), nonché, da ultimo, a decidere in tema di esecuzione civile in materia penale (art. 611 ss. c.p.p. 1930) e di confisca (art. 655 c.p.p. 1930)15.

Per la soluzione degli incidenti, dal punto di vista procedurale, il codice di rito vigente all’epoca prevedeva il “procedimento per gli incidenti di esecuzione” (art. 630 c.p.p.)16. Nonostante il suo svolgimento attraverso forme

processuali semplificate rispetto a quelle tipiche della fase cognitiva, siffatta procedura, almeno sulla carta, vantava sicura natura giurisdizionale. Infatti, il giudice dell’esecuzione, attraverso il procedimento di esecuzione, era chiamato a pronunciarsi pur sempre sulle controversie riguardanti l’eseguibilità di provvedimenti incidenti sulla libertà personale del condannato, ragione per cui non potevano non vigere – seppure senza intaccare in nessun modo la natura sostanzialmente amministrativa dell’esecuzione penale – le garanzie fondamentali dello ius dicere, tipiche della cognizione: il riferimento è al diritto di difesa, al contraddittorio, alla

15 Sulle singole ipotesi di intervento del giudice dell’esecuzione cfr, per tutti, G Gianzi,

L’incidente nella esecuzione penale, cit., p. 99 ss.

16 Il procedimento incidentale d’esecuzione fu ereditato, con alcuni aggiustamenti, dal previgente codice di procedura penale del 1913. Per la ricostruzione storica dell’intervento giurisdizionale in ecevutivis, v., per tutti, V. Barosio, Le origini

(15)

motivazione e alla ricorribilità per cassazione del provvedimento conclusivo del procedimento.

Non in tutti i casi, comunque, il giudice degli incidenti assumeva le proprie decisioni all’esito di un procedimento incidentale, erano altresì previste alcune ipotesi nelle quali lo stesso si pronunciava de plano, in assenza, cioè, di qualsiasi formalità e, di conseguenza, di garanzie difensive; tuttavia, avverso tali provvedimenti, in favore della parte che ne avesse avuto interesse, era prevista la possibilità di esercitare l’opposizione, attivando con essa, dinanzi al medesimo organo giudiziario, la procedura “giurisdizionalizzata” ai sensi dell’art. 630 c.p.p. 1930.

Da tenere presente è che, in nessun caso, la portata degli interventi del giudice dell’esecuzione poteva sostanziarsi in una rivisitazione di quanto deciso sul fatto e sulla responsabilità nel processo di cognizione: la decisione irrevocabile chiudeva formalmente e definitivamente il processo, su di essa interveniva l’effetto preclusivo del giudicato.

Dall’altro versante, intendendo quello penitenziario, la normativa codicistica contemplava l’intervento del giudice di sorveglianza – figura introdotta proprio dal codice di procedura del 1930 (art. 585) -, operante nelle vesti di « organo di controllo permanente degli istituti penitenziari per la salvaguardia del principio di legalità nella esecuzione delle pene e delle misure di sicurezza »17.

17 Alla lettera, G. Velotti, Appunti sul giudice di sorveglianza, in Rass. st. penit., 1971, p. 403. Sulla figura del giudice di sorveglianza, cfr., anche G. Tartaglione, Le

(16)

L’intervento di questo organo, in tema di esecuzione delle pene detentive, era genericamente accennato nell’abrogato art. 144 c.p.p., intitolato « Vigilanza sull’esecuzione delle pene ». La disposizione indicava, seppure in maniera spicciola, le tre diverse funzioni attribuite in materia al giudice di sorveglianza: invero esse erano, ispettive (sorveglianza in senso stretto), deliberative e consultive. Al fine di individuarle in maniera più precisa, è necessario guardare all’allora vigente regolamento penitenziario (art. 4 ss.).

Tralasciando una, seppur in ogni modo marginale, analisi di queste funzioni, è da notare che il giudice di sorveglianza, contrariamente a quello competente sulle controversie in ordine al titolo esecutivo, non vantava compiti di natura giurisdizionale. Ancora una volta, si trattava di «funzion[i] amministrativ[e], che soltanto per ragioni di maggior garanzia [erano] affidate al giudice»18.

Esemplificativo, al fine di comprendere ciò che era la reale portata dei suoi interventi, tenere a mente, come il giudice a

quo deliberasse sui reclami dei detenuti nella totale mancanza

di garanzie difensive per gli stessi, mediante i c.d. “ordini di servizio” (art. 6 reg. penit. 1931; 585 c.p.p. 1930). Tali provvedimenti, oltre alla non impugnabilità di regola, erano totalmente privi del carattere della cogenza verso l’amministrazione penitenziaria chiamata a porli in essere; al più, il giudice poteva informare il ministro di grazia e giustizia della mancata esecuzione del provvedimento. Nel caso in cui il

(17)

reclamo fosse ammesso, era compito dell’interessato, entro cinque giorni dalla ricevuta comunicazione del provvedimento impugnato, presentarlo. Una volta ricevutolo, il direttore del carcere esprimeva un parere sullo stesso e quindi lo trasmetteva al giudice di sorveglianza, il quale assumeva de plano il provvedimento del caso (art. 5 reg. penit. 1931).

Tornando alla disamina di quanto accadeva nelle aule giudiziarie, come già detto, l’incidente di esecuzione, era un rimedio giurisdizionale, avente ad oggetto ogni eventuale controversia su diritti, insorgente nel corso, ovvero a causa dell’esecuzione di un provvedimento del giudice19.

Lo svolgimento di tale procedura avveniva in camera di consiglio, essa poteva avere inizio in due maniere: o su iniziativa del pubblico ministero, o ad istanza dell’interessato (art. 630 comma 1 c.p.p. 1930)20. Non era prevista, al contrario,

l’iniziativa d’ufficio da parte dell’organo giurisdizionale, tranne nei casi espressamente previsti dalla legge (art. 628 comma 2 c.p.p.). Inoltre, seguendo quella che era la costante interpretazione giurisprudenziale, il giudice dell’esecuzione, una volta investito della questione, attraverso la richiesta del pubblico ministero o su istanza di parte, non era legato a nessun vincolo circa le ragioni per le quali era stato proposto

19 Sull’ambito di operatività dell’incidente di esecuzione, cfr., per tutti, G. Gianzi,

L’incidente di esecuzione penale, Napoli, 1965, p.. 51.

20 Molti i dubbi interpretativi manifestati su questa previsione, legati al significato indicato dal termine “interessato”, tra molti, v., G. Gianzi, cit., p. 163.

(18)

l’incidente, potendo di conseguenza esaminare ex officio la stessa validità del titolo esecutivo, rispetto ad ogni eventualità21.

Nella fase preliminare, il presidente del collegio (o eventualmente, il pretore) fissava, con decreto, il giorno della deliberazione, di cui faceva dare avviso (a cura del cancelliere) al pubblico ministero, all’interessato che avesse proposto l’incidente nonché agli altri eventuali interessati, nel temine di cinque giorni (art. 630 comma 1 c.p.p. 1930). Tali adempimenti, funzionali all’instaurazione effettiva del contraddittorio, peraltro di natura quasi totalmente cartolare, erano previsti a pena di nullità (art. 630 comma 3 c.p.p. 1930). Diversi erano i punti critici, di una siffatta disciplina, in ordine al rispetto del diritto di difesa; situazione accentuata nel tempo dall’emanazione della Costituzione. Ad esempio, il giudice delle leggi, è intervenuto più volte sul tema del gratuito patrocinio, in un primo momento negando la violazione, da parte della disciplina allora vigente, dell’art. 24 Costituzione. Successivamente i giudici della Consulta capovolsero il loro giudizio, infatti essi hanno affermato che « il diritto di difesa, nell’ambito dl processo penale, comprende[va] in sé, oltre la facoltà di difendersi riconosciuta al cittadino, anche dove egli non la esercit[asse], l’obbligo per lo Stato di provveder alla difesa di lui, con la nomina di un difensore »22.

21 In proposito, Cass, sez. Sez. III, 15 gennaio 1958, ; Misturelli, in Giustizia penale, 1958, III, c. 458.

22 Così, Corte cost., sent. 18 maggio 1970 n. 69, in Giurisprudenza costituzionale, 1970, p. 973 ss., con nota di M. Chiavario.

(19)

Apertasi l’udienza camerale, quindi, l’istante e gli altri eventuali interessati, anche per il tramite dei rispettivi difensori appositamente nominati con il procedimento previsto – da notare come la nomina dell’avvocato avvenuta in sede di cognizione, non avesse rilievo, ribadendosi la netta cesura tra i due momenti –, potevano chiedere di essere sentiti personalmente, oltre alla possibilità di presentare memorie scritte (art. 630 comma 2 c.p.p. 1930). Anche riguardo a questa disciplina, che si sostanziava nelle previsioni dell’art. 630 comma 2 c.p.p. 1930, dopo dibattiti dottrinali, e interpretavi, si è abbattuta la mannaia della Corte costituzionale. Di contro, per quanto riguarda il pubblico ministero, egli aveva l’onere di presentare le requisitorie scritte, delle quali era permesso agli interessati prendere visione, ma non esisteva norma che imponesse all’organo dell’esecuzione di essere presente in udienza. Tuttavia, la giurisprudenza maggioritaria, sosteneva che la presenza del pubblico ministero in udienza, non fosse esclusa dall’aver, questo, presentato le su dette requisitorie, in virtù del fatto che, in caso contrario non sarebbe stato possibile attuare un contraddittorio effettivo23.

Il procedimento, al quel momento, entrava nel vivo con l’esplicazione delle eventuali attività istruttorie, che, in ogni caso - in maniera coerente con la vocazione inquisitoria che pervadeva l’intero sistema processuale-penale dell’epoca – si

23 Cfr. Cass., se. II, 18 ottobre 1958, Franchin, in Giustizia penale, 1959, III, c. 167; Cass., sez. I, 10 giugno 1964, Profumo e atri, ivi, 1965, III, p. 396.

(20)

concretizzavano al di fuori di qualsiasi apporto probatorio delle parti.

A tutto ciò, seguiva la fase decisoria. Nel caso si fosse resa necessaria una valutazione più attenta degli atti del procedimento, il giudice poteva emettere la propria pronuncia in un momento successivo all’udienza, non era previsto in alcuna disposizione, infatti, che egli dovesse renderla alla conclusione dell’udienza alla presenza delle parti24.

Ancora, una volta emessa, l'ordinanza conclusiva doveva essere comunicata al pubblico ministero e notificata per estratto agli interessati – ai quali, precedentemente, era già stato notificato l’avviso del giorno fissato per la della deliberazione – nel termine, per la giurisprudenza di natura ordinatoria25, di otto

giorni (art. 61 comma 1 c.p.p. 1930). Si noti che, dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 69 del 1970, la notifica per estratto dell’ordinanza conclusiva era da considerarsi come dovuta anche al difensore. Tali ultime incombenze erano, a loro volta precedute, dal deposito in cancelleria dell’originale dell'ordinanza, onde consentire agli stessi interessati di prenderne integralmente visione.

Dalla notifica (e dalla comunicazione) decorreva il termine per impugnare. L’unico rimedio previsto, avverso l’ordinanza, era il ricorso per cassazione, che si svolgeva, analogamente al procedimento, in camera di consiglio (art. 631 c.p.p. 1930). La proposizione del ricorso, infine, non

24 Cfr. Cass., sez. II, 20 marzo 1964, Civale, in Cass. pen. mass. ann., 1964, p. 1967 25 Cfr. Cass., sez. I, 11 gennaio 1978, Ciancia, in Cass. pen. mass. ann.. p. 223.

(21)

sospendeva in nessun caso l’esecuzione dell’ordinanza, ma il giudice che aveva emesso il provvedimento poteva sospenderla con proprio decreto (art. 631 c.p.p. 1930).

3. Dalla Costituzione alla legge di riforma penitenziaria

La ricostruzione storica appena eseguita, seppure parziale, è in grado far emergere come, nella vigenza del codice di procedura penale del 1930 – se si fa eccezione riguardo gli interventi del giudice dell’esecuzione, in via incidentale, peraltro solo eventuali -, le sorti della fase post rem iudicatam fossero, sostanzialmente, nelle mani dell’apparato burocratico.

Una siffatta concezione dell’esecuzione penale è destinata, però, ad essere superata con l’avvento della Costituzione repubblicana nel 1948, il cui peso morale e giuridico rende, fin da subito, improcrastinabile, nel nostro ordinamento, la necessità di un adeguamento della disciplina relativa all’esecuzione della pena ai principi in essa contenuti. In prima battuta, ci riferiamo al principio di “riserva costituzionale di giurisdizione” (oltre che, ovviamente, di legge), introdotta dall’art. 13 Cost., in materia di libertà personale, in ossequio al quale, un soggetto, in nessun caso, può essere «privato o limitato nella sua libertà se questa privazione o restrizione non risulti astrattamente prevista dalla legge, se un

(22)

regolare giudizio non sia a tal fine instaurato, se non vi sia provvedimento dell’autorità giudiziaria che ne dia le ragioni»26.

In sostanza, il su detto principio vincola il legislatore ordinario, il quale è tenuto ad approntare un livello minimo e indefettibile di garanzie giurisdizionali tutela del corretto svolgimento delle procedure che investono il diritto di libertà dell’individuo, applicabili a prescindere, sia dal momento all’interno dell’iter procedimentale in cui sono assunte le decisioni incidenti su predetto diritto, sia dal contenuto di queste. In questo modo, anche l’esecuzione penale, andando ad incidere sulla libertà personale, è tenuta a conformarsi ai canoni obiettivi della giurisdizione27.

Per quanto riguarda la funzione della pena, il riferimento è all’accoglimento del principio rieducativo di cui all’art. 27 comma 3 Cost., secondo il quale « le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato »28. In ordine a questo profilo specifico, la norma costituzionale rimuove la concezione meramente retributivo-custodialistica, in ordine alla pena, propria del regolamento carcerario del 1931: proprio in ragione del fine rieducativo di cui è connotata, essa non richiede più un’espiazione integrale ed indefettibile, anzi è compito del giudice adeguarla costantemente, sia sotto il profilo

26 Testualmente, Corte. Cost., sent. 3 luglio 1956 n. 11, in Giur. cost., 1956, p. 612 ss. 27 Sull’operatività dell’art. 13 Cost., anche dopo la fase processuale, tra le molte

sentenze, cfr. Corte cost., sent. 23 aprile 1974 n. 110, in Giur. it., 1974, p. 779. 28 Guardando alle pronunce di illegittimità che hanno colpito, ad esempio, le

presunzioni di pericolosità, si conclude per l’accoglimento del principio anche in tema di misure cautelari.

(23)

quantitativo che sotto il profilo qualitativo, ai progressi nel suo persorso risocializzativo, raggiunti dal condannato.

Da ciò discende che, nella nuova dimensione assunta dall’esecuzione penale con l’entrata in vigore della Carta fondamentale, « ogni qual volta […] matur[i]no i presupposti per un mutamento sia in senso migliorativo che peggiorativo dello status libertatis del condannato o dell’internato, si presenta, costituzionalmente imprescindibile, l’esigenza di giurisdizionalità»29, in altre parole il doveroso riconoscimento,

anche in executivis, della presenza del giudice, in funzione di controllo (art. 102 Cost.); per il diritto di difesa, inviolabile in ogni stato e grado del procedimento (art. 24 Cost.); nonché della previsione della motivazione e della ricorribilità per Cassazione dei provvedimenti emessi in materia di libertà personale (art. 111 commi 6 e 7 Cost.).

Nell’assenza di un, pur se sollecitato, intervento riformatore del legislatore ordinario, soprattutto a partire dagli anni settanta, si fece carico la Corte Costituzionale di procedere ad un graduale adeguamento sostanziale dei singoli settori della materia processuale-penalistica ai canoni della Carta. Da una parte, il rito per gli incidenti d’ esecuzione disciplinato dall’art. 630 ss. c.p.p. 1930 – come già sottolineato nel paragrafo che precede – venne fatto oggetto di importati pronunce da parte del Giudice delle leggi, mirate a rafforzare soprattutto il diritto di difesa, sia tecnica che materiale, del soggetto interessato dal

29 In questi termini, G. Giostra, Tre settori da differenziare nei rapporti tra

giurisdizione ed esecuzione penale, cit., p. 1366; cfr. anche E. Fazzioli, Diritti dei deteniti e tutela giurisdizionale, in Giur. cost., 1999, p. 199ss.

(24)

procedimento. Dall’altro, sul fronte strettamente penitenziario, i giudici di Palazzo della Consulta si trovarono ad emettere, senza ombra di dubbio, la decisione più importante del periodo.

Una pronuncia che rappresenta una pietra miliare per il settore di cui si discute, è appunto, la sentenza n. 204 del 1974, nella quale, i giudici costituzionali – nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 43 disp. att. c.p.p. 1930, che attribuiva al Ministri di grazia e giustizia la facoltà di concedere, attraverso un decreto, la liberazione condizionale – si espressero in maniera emblematica in favore della giurisdizionalizzazione dell’istituto; essi ,infatti, riconobbero in capo al condannato il generale diritto ad un riesame circa la necessità di protrarre la realizzazione della pretesa punitiva, « al fine di accertare se in effetti la quantità di pena espiata abbia o meno assolto al suo fine rieducativo». A parere della Corte, tale diritto « deve trovare nella legge una valida e ragionevole garanzia giurisdizionale»30.

La decisione sopracitata, ebbe una portata dirompente, essa infatti rappresentò la prima, significativa breccia nel principio di intangibilità della cosa giudicata: di essa fu detto che, decretava « l’impossibilità di mantenere in vigore una regolamentazione dell’esecuzione penale in concreto che si basasse sul principio della inderogabilità della attuazione

30 Così, Corte Cost., sent. 4 luglio 1974 . 204, cit. p.1707 ss. Sui contenuti di tale decisione, v. E. Fassone, La liberazione condizionale dalla sentenza costituzionale n.

204 del 1974 alla legge 12 febbraio 1975, n. 6; incertezze e dubbi rimasti, in Giur. it., 1975, p. 569; G. Vassalli, La liberazione condizionale dall’amministrazione alla giurisdizione, in Giur. cost., 1974, o. 3523.

(25)

integrale della pena»31, indirettamente aprendo, per la prima

volta, ad un concetto di flessibilità dell’esecuzione penale. Di lì a poco – come analizzeremo in seguito – la cristallizzazione del principio rieducativo, quale fine specifico della pena, avvenuta in un primo momento sul piano della normativa e poi della giurisprudenza costituzionale, troverà conferma anche nella legislazione ordinaria32. Come anticipato, infatti, sotto l’impulso della sentenza costituzionale del 1974, come anche nella prima legge-delega del 1974 e negli atti internazionali dell’ONU e del Consiglio d’Europa in materia33,il

legislatore varò, l’anno successivo, la riforma penitenziaria: la legge n. 354 del 26 luglio 1975, intitolata “Norme sull’ordinamento penitenziario e limitative della libertà”, accompagnata dal relativo “Regolamento d’esecuzione”, ossia il d.p.r. n. 4331 del 29 aprile. Il primo dei due atti legislativi si sostituì definitivamente al regolamento carcerario del 1931, inaugurando, all’interno del nuovo sistema penitenziario, una serie di strumenti di carattere sia sostanziale che processuale, volta a dare concreta attuazione all’obiettivo della rieducazione di matrice costituzionale, e, nello stesso momento, fornire i detenuti di una più pronta ed effettiva tutela dei loro diritti soggettivi. Il reinserimento sociale dei condannati e degli

31 F. Corbi, voce Esecuzione penale, cit. 293.

32 Cfr. M. Buonamano, La riforma penitenziaria al Parlamento, Osservazioni e

inficazioni, in Rass. st. penit., 1973, p. 173 ss.

33 Ci riferiamo rispettivamente alle “Standard Minimum Rules for the Treatment of

Prisoners” approvato dal I congresso delle Nazioni Unite per la prevenzione del

delitto ed il trattamento dei delinquenti (1955); e alle “Regole minime per il

trattamento dei detenuti” dettate dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa

(26)

internati era la traduzione dei fini dell’impostazione rieducativa, per rendere tutto ciò concreto, suddetta legge prevedeva dunque degli istituti premiali – soprattutto le misure alternative alla detenzione – capaci di incidere, anche in maniera profonda, sull’originario contenuto della sanzione, determinandone una rimodulazione in conformità ai progressi raggiunti dal condannato. In particolare, per mezzo di queste misure – le quali rappresentano l’elemento più caratterizzante della riforma – è offerta al condannato la possibilità di scontare la pena, o anche solo parte di essa, al di fuori del carcere.

Una configurazione della fase esecutiva di tal guisa, finalizzata all'individualizzazione del trattamento sanzionatorio ai fini della rieducazione, ha comportato, altresì, un processo di maturazione anche sul piano processuale. Il legislatore ha scelto un giudice specializzato, il magistrato di sorveglianza34, come

organo deputato all’esercizio della c.d. “giurisdizione rieducativa”, assegnandogli il preciso compito di adottare, ed eventualmente, modificare o revocare i provvedimenti relativi a suddette misure alternative.

34 La legge n. 354 del 1975 istituì l’ufficio di sorveglianza, comprendente, ab origine, il magistrato di sorveglianza e l’omonima sezione. La successiva legge n. 663 del 1986 introdusse, in luogo di quest’ultima, il tribunale di sorveglianza.

(27)

4. La legge-delega c.p.p. del 1974

Nelle leggi-delega succedutesi tra il 1974 ed il 1987, è stato accolto il modello giurisdizionale, quale garanzia oggettiva di contesto, che inevitabilmente deve caratterizzare lo svolgimento del processo penale nel suo complesso e, di conseguenza, ricomprende anche la fase post rem iudicatam.

In riferimento al primo dei due atti, la prima legge-delega, datata 1974, in ordine all’esecuzione penale, prevedeva una serie di direttive intrise di una forte carica innovativa: anzitutto, quella che richiedeva « la giurisdizionalizzazione dei procedimenti concernenti la modificazione e la esecuzione della pena e delle misure di sicurezza; garanzia del contraddittorio; effettivo giudizio sulla pericolosità; impugnabilità dei provvedimenti » (art. 2 n. 79); e, ancora, quelle concernenti l’« ammissibilità in sede di incidente di esecuzione, di una eventuale rivalutazione sul merito della procedura seguita, con eventuale restituzione in termini dell’imputato ai fini dell’impugnazione» (art. 2 n. 70); « l’obbligo di notificare al difensore, a pena di nullità, i provvedimenti del giudice dell’esecuzione » (art. 2 n. 78); nonché, infine, la « previsione del contraddittorio nel processo di riabilitazione; giudizio senza formalità e in camera di consiglio; acquisizione di ufficio della documentazione processuale » (art. 2 n. 82)35. Considerandole

35 Per una ricostruzione dell’iter della legge-delega de qua, cfr. G. Conso, Precedenti

storici ed iter della legge n. 108 del 1974, in AA.VV., Il nuovo codice di procedura penale. Dalle leggi delega ai decreti delegati, I, La legge delega del 1974 e il

(28)

nel loro insieme, questo genere di indicazioni avrebbero reso l’intervento del giudice in executivis un vero e proprio controllo di carattere giurisdizionale sulla sentenza irrevocabile di condanna e, più precisamente, sul contenuto sanzionatorio di questa, conformemente al principio rieducativo di matrice costituzionale.

In conseguenza di questa legge-delega, nel 1978 venne presentato, quindi, un progetto preliminare di codice di procedura penale. Per la sua stesura, la commissione ministeriale redigente, chiamata a tradurre in norme i criteri fissati dal, già citato, art. 2 legge-delega, aveva potuto anche arricchirsi delle innovazioni nel frattempo apportate dalla riforma penitenziaria del 1975.

Affrontando il tema della materia esecutiva, venne accantonata l’idea di attribuire qualsiasi competenza post rem

iudicatam alla magistratura di sorveglianza, dalla predetta

commissione, a causa di « motivi di funzionalità pratica non disgiunt[i] dalla preoccupazione di introdurre disarmonie nel sistema»36 aveva preferito, per una ripartizione degli interventi

tra quest’ultima e il giudice dell’esecuzione, pur attuandone un coordinamento nel rispetto della diversità delle materie di ognuna. La magistratura di sorveglianza manteneva l’ambito di competenza che già le aveva riservato l’ordinamento penitenziario in materia di benefici e di misure di sicurezza (art. 69 e 70 ord. penit. e legge n. 1 del 12 gennaio 1977). Al giudice

progetto preliminare del 1978, Padova, 199, p. 3 ss.

36 Cfr. Relazione al progetto preliminare c.p.p. 1978, in AA.VV., Il nuovo codice di

(29)

dell’esecuzione restava, invece, affidata la risoluzione delle questioni sul titolo esecutivo. Complessivamente, la normativa processuale dell’esecuzione penale veniva collocata all’intero del Titolo II, dedicato alle attribuzioni degli organi giurisdizionali, del Libro IX, la quale rubrica era “Esecuzione”. Le innovazioni di maggior spessore erano introdotte nell’ambito della giurisdizione esecutiva sul titolo. Al giudice dell’esecuzione viene trasferita la competenza, prima spettante al pubblico ministero, ad emettere determinati provvedimenti

de libertate: era la direttiva n. 79 ad imporre un

ridimensionamento dei poteri dell’organo d’accusa, in quanto – come visto - prefissava l’obiettivo di una giurisdizionalizzazione dei procedimenti esecutivi37.

All’insegna di questa idea, fermo restando in capo al pubblico ministero la competenza a promuovere d’ufficio l’esecuzione delle pene e delle misure di sicurezza (art. 616 prog. prel. c.p.p. 1978), era, dal progetto preliminare, attribuita a questo giudice la competenza a provvedere al computo del presofferto e al cumulo di pene.

Coerentemente con la scelta fatta dal legislatore delegante, a monte, a favore della separazione dei processi e con la con la costruzione del nuovo rito penale in senso accusatorio, era prevista, altresì, in capo al medesimo organo, in virtù del silenzio della stessa legge-delega, anche una nuova

37 Da una prima lettura di tale direttiva era stata addirittura dedotta la necessità di eliminare in capo al pubblico ministero ogni potere coercitivo della libertà personale

in executivis. In proposito, cfr. Relazione prog. prel. c.c.p. 1978, in AA.VV., Il nuovo codice di procedura penale. Dale leggi delega ai decreti delegati, I, cit., p. 1367 ss.

(30)

competenza in materia di continuazione del reato. Difatti, la fase dell’esecuzione, era stata individuata come « la sede più opportuna per recuperare l’operatività della continuazione»38.

L’art. 623 prog. prel. c.p.p. 1978 stabiliva che, in caso di più sentenze o decreti penali irrevocabili, pronunciati in provvedimenti distinti contro la medesima persona, il condannato potesse richiedere al giudice dell’esecuzione l’applicazione della disciplina di cui all’art. 81 comma 2 c.p., senza che, una tale operazione potesse in alcun modo rimettere in discussione la valutazione operata dai giudici di cognizione che avevano emesso le singole sentenze di condanna.

Sul piano della disciplina, inoltre, il progetto aveva potuto tenere conto, come già accennato, delle innovazione apportate nel frattempo anche legge penitenziaria del 1975, la quale aveva introdotto nell’ordinamento italiano il rito di sorveglianza (capo II-bis ord. penit.). Ancora, dando seguito alla predetta direttiva, là dove richiedeva, oltre che la giurisdizionalizzazione in generale, anche la garanzia del contraddittorio e l’impugnabilità dei provvedimenti, il progetto preliminare introduceva, all’interno del tessuto codicistico, una grande novità, ossia « un nuovo unico rito per la giurisdizione esecutiva »39 in senso lato (vi era quindi inclusa, anche la giurisdizione rieducativa), cioè il procedimento di esecuzione.

38 Cfr. V. Grevi – G. Neppi Modona, Introduzione al progetto preliminare del 1978, in AA. VV.., Il nuovo codice di procedura penale. Dalla legge delega ai decreti

delegati, I, cit., p. 141.

(31)

Per quanto concerne le forme, l’art. 620 prog. prel. c.p.p. 1978 si richiamava all’art. 127 dello stesso progetto, che regolava il procedimento in camera di consiglio, pur tenendo conto della peculiarità delle competenze del giudice operante in sede esecutiva. In virtù di tali specifiche, erano previsti adattamenti; ne derivava così una disciplina peculiare del procedimento in questione, in base alla quale, il giudice, nel fissare la data dell’udienza, ne faceva dare avviso alle parti, alle persone interessate e ai difensori, almeno cinque giorni prima di tale detta data; inoltre, nell’ipotesi in cui l’interessato fosse privo di un difensore di fiducia, ne era prevista la nomina di uno d’ufficio; il pubblico ministero, il difensore e gli altri destinatari dell’avviso dell’udienza potevano essere sentiti e comparsi in udienza; il condannato detenuto in una circoscrizione diversa da quella in cui risiedeva il giudice procedente era sentito il giorno prima dell’udienza, previa richiesta, dal magistrato di sorveglianza del luogo di detenzione; l’udienza di svolgeva in assenza di pubblico; da ultimo, l’ordinanza conclusiva era notificata a tutti i destinatari del suddetto avviso e contro la stessa questi potevano proporre ricorso in cassazione. In deroga alla disciplina del rito camerale (di cui all’127 prog. prel. c.p.p. 1978), da cui prende le mosse, la norma de qua accoglieva la regola della richiesta di parte per l’attivazione del procedimento e, in attuazione della direttiva n. 79 legge-delega c.p.p. 1974, richiedeva si procedesse in contraddittorio nell’ambito della materia probatoria; inoltre, era

(32)

previsto l’effetto sospensivo del ricorso per cassazione, salvo che il giudice non disponesse diversamente, innovando, da questo punto di vista, anche rispetto a quando previsto dall’allora vigente art. 630 c.p.p. 193040.

A riguardo della proposizione del ricorso per cassazione, essa prevedeva l’osservanza, in quanto applicabili, delle disposizioni generali sulle impugnazioni e, per quanto concerneva la decisione, quelle che disciplinavano il procedimento in camera di consiglio dinanzi alla Corte di cassazione (art. 620 comma 4 prog. prel. c.p.p. 1978).

L’ iter della legge-delega, però, s'interrompe nel marzo del 1978, appena dopo la sua presentazione ufficiale, il dibattito sulla riforma processuale riprendere due anni più tardi, portando all’approvazione, nel 1987, della seconda, stavolta definitiva, legge-delega, dalla quale poi prenderà forma l’attuale codice di procedura penale.

5. (Segue): la legge-delega del 1987

Nel 1987 viene presentata una seconda legge-delega, la n. 81, anche in questo caso un’importanza di rilievo aveva il

40 Nella Relazione prog. prel. c.p.p. 1978, la scelta era stata motivata con « la necessità di non far venire meno un punto di riferimento sicuro quale il titolo esecutivo fino a quanto le contestazioni che lo coinvolgono non abbiano ricevuto definitiva risoluzione» (leggibile in AA. VV., Il nuovo codice di procedura penale. Dalle leggi

delega ai decreti delegati, I, La legge delega del 1974 e il progetto preliminare del 1978, cit. p.1395).

(33)

suo art. 2, i cui contenuti rappresentavo i frutti di un processo di maturazione culturale oltre che legislativa, iniziato proprio ai tempi della delega del 197441.

È innegabile che, per come appariva, la nuova delega andava molto oltre la proclamazione del principio della « giurisdizionalizzazione dei procedimenti concernenti la modificazione e la esecuzione della pena e l’applicazione delle misure di sicurezza » (art. 2 dir. n. 79 legge-delega c.p.p. 1974), erano infatti molte le direttive destinate alla materia esecutiva penale, dall’analisi delle quali trasudava la consacrazione definitiva dell’esecuzione a fase del procedimento (processo) penale.

La direttiva n. 96 imponeva, in primis, di introdurre in

exetuvis le « le garanzie di giurisdizionalità […] con riferimento

ai provvedimenti concernenti e pene e le misure di sicurezza ». Da sottolineare l’utilizzo, da parte della suddetta direttiva, della formula “garanzie di giurisdizionalità, in luogo di “giurisdizionalizzazione”, termine questo, utilizzato dalla legge-delega del 1974. Una differenza non solo di forma, ma di portata sostanziale, infatti, mentre la prima specifica le singole garanzie che devono caratterizzare la fase esecutiva, la seconda, molto più timidamente, enuncia un principio42. La direttiva in esame, quindi, proseguiva con la specificazione delle predette

41 La legge-delega in esame, inoltre, aveva potuto beneficiare delle indicazioni provenienti dall’ordinamento penitenziario del 1975, dal progetto preliminare del 1978 e dalle leggi n. 678 del 1981 e n. 133 del 1986. In merito, v. A.Gaito, “La lunga

marcia” dell’esecuzione penale (frammenti di giurisprudenza costituzionale), in Scritti per il cinquantenario della Corte costituzionale, a cura di M. Chiavario,

Roma, 2006, p. 950 ss.

(34)

garanzie; essa sanciva « l’obbligo di notificare o comunicare al difensore, a pena di nullità i provvedimenti suddetti »; la « necessità del contraddittorio nei procedimenti incidentali in materia di esecuzione »; la « necessità di un giudizio di effettiva pericolosità ove questa debba essere accertata, per l’applicazione, l’esecuzione o la revoca delle misure di sicurezza », questo parallelamente al venir meno delle presunzioni assolute di pericolosità sociale e l’affermazione della regola per la quale « tutte le misure di sicurezza personali sono ordinate previo accertamento che colui il quale ha commesso il fatto è persona socialmente pericolosa » (art. 31 l. 10 ottobre 1986 n. 663); da ultimo, essa richiedeva l’« l’impugnabilità dei provvedimenti del giudice ».

La direttiva seguente, la n. 97, dal canto suo prevedeva la possibilità, anche nella fase de qua, l’applicazione della disciplina del concorso formale di reati e del reato continuato, sempre che « non [fossero] stati precedentemente esclusi nel giudizio di cognizione », sgomberando il campo dalle incertezze dovute al silenzio della legge-delega del 1974 sul punto. Si trattava, in definitiva, ammettere la possibilità per il giudice dell’esecuzione di incidere, anche in maniera assai importante, nel senso di una riduzione della pena, sul provvedimento definitivo adottato in cognizione: « sul piano politico-legislativo la scelta rivest[iva] rilevanza, in quanto, da un lato, risponde[va] positivamente alle istanze provenienti anche dal mondo penitenziario, e, dall’altro, segna[va] una

(35)

tappa significativa – in nome di un criterio di giustizia sostanziale – lungo il cammino dell’adeguamento della pena agli effettivi livelli di responsabilità del condannato, indipendentemente dalle più o meno complesse vicende dei procedimenti instaurati a suo carico »43.

Ancora, la direttiva n. 98. prescriveva poi « il coordinamento con i principi […] della delega dei procedimenti di esecuzione e di sorveglianza, anche attraverso la regolamentazione delle competenze degli organi », dimostrando di non eludere l’esigenza di una riunificazione della disciplina dei vari procedimenti concernenti il momento esecutivo all’interno del nuovo codice di rito. Unitamente alla direttiva n. 104, la quale, a sua volta, richiedeva l’« adeguamento di tutti gli istituti processuali (compresi quelli esecutivi) ai principi e criteri innanzi determinati », sanciva, finalmente, la completa giurisdizionalizzazione dell’esecuzione penale. Se , infatti, al legislatore delegato era affidato il compito di adeguare i procedimenti esecutivi ai principi contenuti nella delega, ciò significava che era necessario costruire tutte le fasi del procedimento penale seguendo la tradizione del modello accusatorio, ponendo perciò sullo stesso piano la fase esecutiva e quella cognitiva44.

Infine, la direttiva n. 101 sanciva la garanzia del contraddittorio nel procedimento di riabilitazione, seppure

43 Testualmente, V. Grevi – G. Neppi Modona, Introduzione alla delega del 1987, cit., p. 60.

44 In merito, cfr. F. Corbi, L’esecuzione nel processo penale, cit., p. 11 ss.; R. Normando, Il sistema dei rimedi revocatori del giudicato penale, cit., p. 58 ss.

(36)

descritto « giudizio senza formalità », con « acquisizione d’ufficio della documentazione processuale ».

6. L’assetto dell’esecuzione penale nel nuovo codice di procedura penale

Guardando all’odierna struttura processuale esecutiva traspare l’obiettivo del legislatore del 1988 – peraltro, raggiunto solo in parte – di rispondere a quell’istanza di giurisdizionalizzazione dell’esecuzione ipotizzata, per la prima volta, dalla legge-delega del 1974 e dalle due storiche sentenze costituzionali n. 110 e, ancor di più, n. 204 del 1974.

Sul piano normativo, da quella data, sono sicuramente stati fatti passi avanti in quella direzione: partendo dall’importante intervento sul sistema penitenziario, in virtù della già ricordata l. n. 354 del 1975, con la quale si è inteso superare in maniera definitiva l’idea dell’esecuzione penale come mera attività amministrativa; fino ad approdare all’emanazione della legge-delega del 1987, dalla quale, poi, è scaturito l’attuale codice di procedura penale.

Alla luce degli sviluppi, « l’esecuzione penale si atteggia ora come fase non più solamente attuativa del comando contenuto nel provvedimento irrevocabile, ma essa stessa complementare a quella di cognizione di cui condivide

(37)

l’impegno verso la individualizzazione degli strumenti sanzionatori »45. È indubbio che, in forza della nuova disciplina

nella suddetta materia, il dictum giudiziale, così come risulta da sentenza irrevocabile di condanna, non rappresenta più momento di chiusura del procedimento penale, ma incarna, nella dimensione dinamica della nuova fase post iudicatum, un significato interlocutorio, idoneo, in sede esecutiva, a rispettare nel corso dell’espiazione l’aderenza del profilo sanzionatorio sia alla finalità rieducativa sancita nella Carta fondamentale, sia all'esigenza di giustizia sostanziale, connesse all’eseguibilità in concreto del provvedimento irrevocabile di condanna. Invero, sotto questo ultimo aspetto, pur rispettando i vincoli coessenziali al giudicato, il titolo esecutivo diviene suscettibile – prima e anche in maniera indipendente dalle rimodulazioni della pena operate in sede penitenziaria – di significative manipolazioni nei suoi contenuti originari, di tipo integrativo, modificativo ovvero risolutivo, finalizzate alla sua pratica attuazione46.

Al fine di ottenere un’effettività giurisdizionalizzazione della fase post rem iudicata, però, sarebbe stato necessario che, l’intervento del giudice, nei termini suesposti, fosse al contempo stato corredato dall’insieme delle garanzie formali tipiche del modello accusatorio che ha fatto da ispiratore all’intera riforma processuale. In questo senso si esprimeva, infatti, la direttiva n. 96 della legge-delega 1987, in attuazione

45 Ad litteram, A. Presutti, voce Esecuzione penale, cit., p. 2.

(38)

della quale, il legislatore delegato era stato chiamato, a sua volta, a dotare questa fase – pur sempre in modo compatibile con le sottese istanze di semplificazione alla base della particolare natura delle questioni ivi trattate – di alcune garanzie minime e indefettibili di giurisdizionalità, presidianti il corretto esercizio della giurisdizione, come l’« obbligo di notificare o comunicare al difensore, a pena di nullità » i provvedimenti in tema di pene e di misure di sicurezza; la « necessità del contraddittorio » nei procedimenti esecutivi; nonché l’ « l’impugnabilità dei provvedimenti del giudice » (art. 2 n. 96 legge-delega c.p.p. 1987)47.

Obiettivi mancati, in quanto, nel momento di dare attuazione agli intenti delle direttive, redigendo il nuovo codice di procedura penale, il legislatore ha confermato, la oramai tradizionale, supremazia del pubblico ministero in executivis, in forza del ragionamento che – come emerge dalla Relazione al progetto preliminare del nuovo c.p.p. - « quando sia stata emanata una sentenza di condanna ormai irrevocabile, non vi è più spazio per l’uso di poteri discrezionali, dovendosi, invece, semplicemente dare esecuzione al provvedimento del giudice»48.

Inoltre, stando a quanto era prescritto nella direttiva n. 96, il legislatore delegato, contrariamente a quanto avvenuto,

47 A tal proposito, cfr. A. Gaito, Esecuzione, in AA. VV.., Compendio di procedura

penale, a cura di G. Conso – V. Grevi, Padova, 2006, p. 925 ss.; F. Giudenchi, L’aspirazione al giusto processo nel modello probatorio esecutivo, in Ind, pen.i,

2004, p. 481-482.

48 In questi termini si esprime la Relazione prog. prel. c.p.p. 1988, in AA. VV., Il nuovo

codice di procedura penale. Dalle leggi delega ai decreti delegati, IV, Il progetto preliminare del 1988, Padova, 1990, p. 1377.

(39)

avrebbe dovuto rivedere il ruolo del magistrato requirente e, al più, far rientrare le competenze di quest’ultimo in riferimento ai procedimenti esecutivi, in ottica esclusivamente di contraddittorio con la difesa. Per quanto possano darsi, e si siano effettivamente date, spiegazioni della scelta normativa fatta, è facile rendersi conto come sussista una commistione di ruoli. Allo stesso organo sono affidati, infatti, poteri di proposizione e di partecipazione, ciò con effetti potenzialmente pregiudizievoli per la concreta manifestazione del diritto di difesa e sulla dinamica del contraddittorio49.

Basti pensare, ad esempio, all’emissione dell’ordine d’esecuzione delle pene detentive (art. 656 c.p.p.), al computo della custodia cautelare già sofferta e delle pene detentive espiata senza titolo (art. 657 c.p.p.) e all’unificazione delle pene concorrenti (art. 663 c.p.p.). Attività, queste, di natura “paragiurisdizionale”, implicanti, in determinati casi, un ampio margine di discrezionalità tecnica. Tali poteri si pongono in palese contrasto con i principi costituzionali, quali quelli espressi dagli artt. 13 e 111 Cost., in riferimento da una parte alla tutela della libertà personale e alla parità delle parti dall’altra. Il contrasto con gli obiettivi della direttiva n. 96 è palese se, come sostenuto da parte della dottrina « il permanere in capo al pubblico ministero della facoltà di emanare autonomamente provvedimenti esecutivi incidenti sulla libertà personale del condannato giustifica l’affermazione secondo la

49 Cfr. A. Gaito- G. Ranaldi, Esecuzione penale, cit., p. 12.; D. Vigoni, I procedimenti

d’esecuzione penale, in AA. VV., Studi in onore di M Pisani, III, Diritto dell’esecuzione penale, Diritto penale, Diritto, Economia e Società, cit., p. 137.

(40)

quale l’esecuzione penale non una fase integralmente giurisdizionale »50. Per quanto riguarda la giurisdizione

rieducativa, avendo questa un oggetto affatto peculiare, la contraddizione insita nel ruolo del pubblico ministero è ancora più manifesta, in particolar modo laddove il procedimento di sorveglianza sia finalizzato alla concessione di un beneficio penitenziario.

Nonostante le obbiezioni appena mosse, parte dei percorsi segnati dalla delega, nel segno della giurisdizionalizzazione, sono stati concretazzati dal legislatore delegato e ciò a portato alla creazione di modello procedurale tipico in executivis: il c.d. “procedimento di esecuzione” (art. 666 c.p.p.)51. Questo istituto rappresenta una procedura di prima

istanza, per cui ad esso non può essere applicata la disciplina delle impugnazioni. Una indiretta conferma, circa questo profilo, proviene dal testo dell’art. 666 comma 6 c.p.p., laddove disciplina che « il giudice decide con ordinanza […] comunicata o notificata senza ritardo alle parti e ai difensori, che possono proporre ricorso per Cassazione. Si osservano, in quanto applicabili le disposizione sulle impugnazioni e quelle sul procedimento in camera di consiglio davanti alla Corte di Cassazione». Tale disposizione si riferisce, in maniera espressa, al solo ricorso per Cassazione nei confronti dell’ordinanza

50 Così, F. Caprioli – D. Vicoli, Procedura penale dell’esecuzione, cit., p. 18.

51 Cfr. F. Cordero, Procedura penale, Milano, 2006, p. 1255, per il quale la locuzione “procedimento di esecuzione” è ellittica, in quanto «manca un aggettivo (ad esempio, “contenzioso”). Quel procedimento, infatti, non è la sequela esecutiva, sebbene vi incida; stiamo considerando episodi giurisdizionali; posteriori al giudicato, lo implicano».

(41)

decisoria conclusiva del procedimento medesimo, per cui, a

contrario, non sono applicabili al procedimento in prima

istanza52.

In ordine all’operatività del rito, questa si dipana lungo tutto il percorso della fase esecutiva (id est l’espiazione della pena). Attraverso il procedimento in esame, il giudice dell’esecuzione, oltre che a svolgere una funzione di controllo

ex post sulla correttezza dell’operato del pubblico ministero,

esercita, altresì ampi e significativi poteri giurisdizionali53,

funzionali alla risoluzione di eventuali questioni attinenti all’esistenza del titolo esecutivo ovvero alle condizioni costitutive modificative o estintive della sua validità ed efficacia, per la soluzione delle quali la legge non prevede espressamente la procedura de plano54.

Il procedimento previsto e disciplinato dall’art. 666 c.p.p. è strutturato, nei suoi connotati basilari, sull’archetipo camerale di cui all’articolo 127 c.p.p. - a sua volta (quasi come fosse un rincorrersi) creato sulla base del vecchio incidente di esecuzione (art. 630 c.p.p. 1930) – pur essendo predisposta una disciplina di maggior rigore, in ossequio alla specificità della sede e delle materie oggetto di giudizio, partendo proprio dalle regole che governano gli atti preliminari dell’udienza, in particolare in ordine al vaglio di ammissibilità della richiesta (art. 666 comma 2 c.p.p.). La norma in esame, in più, offre la

52 Cfr. Cass., sez. un., 28 novembre 2001, Caspar, in CED, n. 220577, in tema di opposizione ai provvedimenti del giudice di esecuzione.

53 Cfr. Cass., sez. III, 14 aprile 1999, Acampora, cit.

(42)

possibilità di una maggiore concretizzazione del contraddittorio camerale tecnico – grazie alla previsione della partecipazione necessaria del pubblico ministero e del difensore, unitamente alle maggiori possibilità per l’interessato di essere sentito personalmente, anche se detenuto o internato al di fuori della circoscrizione del giudice procedente (in quest’ultima eventualità, il giudice infatti, può disporre la traduzione del soggetto in base ad una valutazione discrezionale di opportunità: v. art. 666 comma 4 c.p.p.) - come, del resto, una pur minimale disciplina dell’attività probatoria, da svolgersi in udienza nel contraddittorio delle parti ( art. 666 comma 5; 185 disp. att. c.p.p.); nonché, da ultimo, particolari disposizioni per l’ipotesi in cui l’interessato sia infermo di mente (art. 666 comma 8 c.p.p.). Tutto questi presidi non sono esenti dall’andare in contro a contraddizioni, che in determinati casi, ne ridimensionano concretamente la portata.

(43)

CAPITOLO II

Giudicato e diritti

fondamentali

SOMMARIO: Premessa – 1. L’antecedente logico – 2. La risposta della dottrina... – 3. ...e quella della giurisprudenza – 4. I fratelli minori di Scoppola – 5. La sentenza Corte Cost. 210/2013 – 6. (segue) Il precipitato delle Sezioni Unite, il ruolo del giudice dell’esecuzione - 7. L’interpretazione convenzionalmente conforme: rapporti tra fonte interna e fonte internazionale – 8. Riflessioni sull’atteggiarsi dell’interpretazione convenzionalmente conforme – 9. Una soluzione “convenzionalmente” conforme – 10. De iure condendo...

Premessa

Il sistema CEDU da, per la prima volta in ambito internazionale, la possibilità di adire direttamente un giudice sovranazionale ( la Corte EDU ) mediante ricorso individuale, quest’ultimo è esperibile, però, soltanto una volta che siano state infruttuosamente tentate tutte le vie interne (rectius esercitate tutte le impugnazioni previste da un ordinamento nazionale); ciò comporta, normalmente, che la sentenza debba esser passata in giudicato per poter presentare il ricorso. Pertanto, la statuizione emessa dalla Corte di Strasburgo, inevitabilmente « riverbera i suoi effetti su una vicenda penale

Riferimenti

Documenti correlati

Ordinario di diritto penale commerciale, Università degli Studi di Torino Il nuovo codice della crisi: profili penali.

153 Vedi MASTELLARINI, Sui fallimenti il peso dei mutui, in Il sole 24 ore del 31/10/06. 154 Il legislatore delegato non ha eccelso per la chiarezza espositiva perciò i

Le ipotesi così introdotte sono state in seguito confermate nel Codice di Giustizia contabile (d.lgs. 11, comma 6, unitamente a quelle ulteriori spettanti alle Sezioni Riunite

Il rispetto del principio dell’affidamento è, del resto, imposto dalla esigenza di circoscrivere l’ambito del dovere di diligenza incombente su ciascuno entro limiti il

Nessun problema sembra dunque porsi (sempre con l’eccezione della nuova disciplina in materia di doping) sotto il profilo della successione di leggi penali nel tempo: l’abrogazione

La Corte costituzionale , per molti anni, si è infatti mostrata restia ad entrare nel merito di siffatte questioni di costituzionalità, dichiarandone l’inammissibilità per

1, della Convenzione non garantisce solamente il principio di non retroattività delle leggi penali più severe ma impone anche che, nel caso in cui la legge penale in vigore al

Se si sostenesse il contrario, se cioè si ritenesse che la proporzionalità è legata esclusivamente all'esigenza di non anticipare la pena rispetto alla conclusione del giudizio,